14. La fine del mondo
Il bosco.
Se ne andò anche l'autunno. Un mattino svegliandomi guardai il cielo, e constatai che quella stagione era finita. Sparite le belle nuvole dai contorni nitidi, al loro posto sopra la catena settentrionale si affacciavano spessi nembi, come messaggeri di sventura. Per la città l'autunno era un visitatore gradito e bello. Ma era rimasto troppo poco, e se n'era andato troppo bruscamente.
Poi ci fu un vuoto temporaneo. Una sorta di immobilità che non era più l'autunno ma non era ancora l'inverno. Il mantello dorato che ricopriva le bestie a poco a poco perse il suo splendore e divenne bianco come se fosse stato messo in candeggina, annunciando agli uomini l'avvicinarsi del freddo. Ogni essere vivente, ogni cosa ritirava la testa e si contraeva per far fronte alla stagione del gelo. I presagi dell'inverno coprivano la città come un'invisibile membrana. Il sibilo del vento e il frusciare dell'erba, il silenzio notturno e perfino il rumore dei passi della gente, quasi contenessero qualche suggestione, si erano fatti pesanti e distanti, e anche il suono dell'acqua, che in autunno mi era sembrato così gentile e piacevole, non consolava più il mio cuore. Ogni cosa si chiudeva ermeticamente nella sua conchiglia per proteggersi, avvolgendosi in una sorta di completezza. Per tutti l'inverno era una stagione particolare, diversa dalle altre. Il verso degli uccelli era diventato breve e stridente, e soltanto il battito delle loro ali ogni tanto smuoveva quella vuota immobilità.
- L'inverno si annuncia particolarmente freddo, quest'anno. Lo si capisce dalla forma delle nuvole. Le guardi un momento, per favore, - disse il vecchio Colonnello portandomi vicino alla finestra e indicandomi le nubi spesse e grigie che nascondevano la cima della catena settentrionale. - Le prime nuvole invernali arrivano sempre da lì, in questa stagione. Sono le avanguardie, dalla loro forma possiamo prevedere quanto freddo farà. Quelle piatte e larghe annunciano un inverno mite. Più spesse sono, invece, più l'inverno sarà rigido. Ma le peggiori sono le nubi a forma di uccello che dispiega le ali. Sono presagio di un inverno di gelo. Proprio come quelle che vede laggiù.
Socchiusi gli occhi per guardare la cima della catena settentrionale. Riuscii a distinguere, seppur vagamente, la forma di cui parlava il Colonnello: le nubi si estendevano da un'estremità all'altra della catena, con un alto rigonfiamento nel mezzo. Come aveva detto lui, sembravano proprio un uccello che dispiegava le ali. Un gigantesco uccello grigio che superava le montagne per volare verso di noi, infausto presagio.
- Di inverni così freddi ne arriva uno ogni cinquanta o sessant'anni, - disse il Colonnello. - A proposito, un cappotto lei non ce l'ha, vero?
- No, non ce l'ho, - risposi. Tutto quello che possedevo era la giacca di cotone con la quale ero arrivato in città, troppo leggera.
Il Colonnello aprì l'armadio, prese un cappotto militare blu scuro e me lo porse. Era di ruvida lana sgradevole al tatto e pesava come un macigno.
- È un po' pesante, ma è sempre meglio di niente. Me lo sono procurato per lei poco tempo fa. Speriamo che le vada bene.
Infilai le braccia nelle maniche del cappotto. Era un po' largo di spalle, e il suo peso, finché non mi ci fossi abituato, mi avrebbe impacciato nei movimenti, ma ringraziai ugualmente.
- Sta ancora disegnando la mappa della città? - chiese il Colonnello.
- Sì, - risposi. - Mi mancano ancora alcune parti, ma vorrei proprio portarla a termine. Sarebbe un peccato smettere a questo punto.
- Disegnare la mappa va benissimo. È una sua decisione, e non dà fastidio a nessuno. Quindi non le dico che è una cosa sbagliata, ma quando verrà l'inverno non dovrà più allontanarsi. Deve restare vicino alle abitazioni. Tantopiù che quest'inverno sarà molto rigido, e la prudenza non sarà mai troppa. Questa terra non è molto vasta, ma in inverno i posti pericolosi sono tanti che non se li può nemmeno immaginare. Aspetti la primavera per terminare la sua mappa.
- D'accordo, - dissi. - Ma quando incomincia, l'inverno?
- Quando arriva la neve. Comincia quando cade il primo fiocco di neve. E finisce quando la neve che si è accumulata in riva al fiume si scioglie.
Guardavamo le montagne bevendo il caffè della colazione.
- E soprattutto, - continuò il Colonnello, - nella stagione fredda è meglio tenersi lontano dalla muraglia. E dai boschi. Sono creature che in inverno acquisiscono una forza tremenda.
- Ma che cosa c'è nei boschi?
- Non c'è nulla, - rispose il Colonnello dopo un attimo di riflessione. - Nulla. Perlomeno niente di cui abbiamo bisogno lei e io. Sono luoghi dove non sapremmo cosa fare, noi.
- E non ci vive nessuno?
Il vecchio Colonnello aprì lo sportello della stufa, scostò la cenere e aggiunse alcuni pezzi di legna piccola e del carbone.
- In ogni caso, da questa sera bisogna alimentare il fuoco nella stufa. Questa legna e questo carbone vengono dai boschi, come anche i funghi, il tè e altri alimenti del genere. In questo senso abbiamo bisogno dei boschi. Ma solo in questo senso.
- Sì, ma allora nei boschi vive gente che estrae il carbone, raccoglie la legna e cerca i funghi.
- Esatto. Ci vivono alcuni esseri umani. Estraggono il carbone, raccolgono la legna e i funghi e vengono a portarli in città, e noi in cambio diamo loro cibo e vestiti. Questo scambio avviene una volta alla settimana in un luogo stabilito, sotto la supervisione delle persone incaricate. Ma è l'unico contatto che abbiamo. Altrimenti loro non si avvicinano alla città e noi non ci avviciniamo ai boschi. Siamo esseri del tutto diversi, noi e loro.
- In che senso «diversi»?
- In tutti i sensi, - disse il Colonnello. - Sotto tutti gli aspetti che riusciamo a immaginarci. Però mi ascolti, non deve interessarsi a quella gente. È pericolosa. Perlomeno avrebbe su di lei una cattiva influenza. Perché lei non è ancora una persona ben definita. E finché non lo sarà, è meglio che non corra rischi inutili. I boschi sono soltanto boschi. Sulla sua mappa può chiamarli semplicemente col loro nome. Mi sono spiegato?
- Si, benissimo.
- Ma c'è qualcosa di ancora più pericoloso. La muraglia in inverno. Forma intorno alla città una cinta ancora più impenetrabile. Ne garantisce la chiusura ermetica. A quel muro non sfugge nulla di quanto succede qui dentro. Per cui non deve averci alcuno scambio, né ci si deve avvicinare. Ripeto, lei non è ancora una persona ben definita. Ha dei dubbi, delle contraddizioni, dei rimpianti, delle debolezze. L'inverno per lei è la stagione più pericolosa.
Prima che cominciasse, tuttavia, dovevo perlustrare almeno in parte i boschi. Era ormai tempo di consegnare la mappa alla mia ombra, che mi aveva ordinato di esplorarli. Erano l'unica cosa che mancasse al completamento della carta topografica.
Le nubi sopra la catena settentrionale allargavano lentamente ma con regolarità le ali, e man mano che venivano ricoprendo la città, la luce dorata del sole andava offuscandosi. Ristagnava nel cielo, che riluceva debolmente, come se un pulviscolo di cenere lo velasse. Era la stagione più clemente per i miei occhi feriti. L'azzurro del cielo non si vedeva più, né il vento riusciva più a inseguire e cacciar via le nuvole.
Lasciai la strada lungo il fiume e mi inoltrai nei boschi, deciso a perlustrarli, camminando per quanto possibile lungo la muraglia per non perdermi. Il che mi permetteva anche di riportarne la forma sulla mappa.
Non era certo un'impresa facile. Ad ogni momento trovavo delle cavità profonde, come se la terra avesse ceduto, cespugli di more giganteschi, più alti di me, paludi che mi impedivano di procedere, e ovunque enormi tele di ragno appiccicose che mi si attaccavano alla faccia, al collo e alle mani. Ogni tanto dai cespugli intorno arrivava il fruscio di qualche creatura che si contorceva. Rami enormi ondeggiavano sopra la mia testa, il bosco era buio come il fondo del mare. Ai piedi degli alberi spuntavano funghi di vari colori, grandi e piccoli, che sembravano lo sfogo di qualche repellente malattia della pelle.
Staccandomi dalla muraglia, mi inoltrai un po' di più nel bosco. Mi trovai in un mondo stranamente quieto e silenzioso. Tutt'intorno si sentiva il fresco respiro della natura incontaminata, che mi tranquillizzò e mi allargò il cuore. Era dunque quello il luogo pieno di pericoli dal quale mi aveva messo in guardia il Colonnello? Ai miei occhi non appariva così. Gli alberi, l'erba, alcuni piccoli animali mi portavano innumerevoli segni di vita, e in ogni pietra, in ogni zolla di terra sentivo la presenza di una provvidenza difficile da rinnegare.
Più avanzavo nel bosco allontanandomi dalla muraglia, più quell'impressione si faceva profonda. Le ombre nefaste si diradavano a tutta velocità, la forma degli alberi e il colore dell'erba si ammorbidivano, e anche il canto degli uccelli era più dolce. Nelle piccole radure che si aprivano qua e là, nei ruscelli che si facevano strada fra gli alberi non c'era nulla del senso di oscura tensione che avevo provato vicino alla muraglia. Forse con il suo potere essa turbava l'atmosfera del bosco. Oppure era solo un problema legato alla configurazione del suolo? Non sapevo come spiegarmi un tale cambiamento nel paesaggio.
Per quanto piacevole fosse inoltrarsi nel bosco, non me la sentivo di allontanarmi troppo dal muro di cinta. Se mi fossi perso non avrei più saputo orientarmi. Non c'era né un sentiero né un'indicazione. Camminavo facendo ben attenzione a dove mettevo i piedi, tenendomi a una distanza da cui non perdevo di vista quel muro. Chissà se il bosco mi era amico o nemico... Difficile a dirsi. Poteva darsi che la sua dolcezza e la sua amenità fossero una chimera per attirarmi sempre più addentro. Ad ogni modo, come mi aveva detto il Colonnello, per questa città io ero ancora un essere debole e instabile. La prudenza non era mai troppa.
Forse perché non mi inoltrai mai più di tanto, fatto sta che nel bosco non notai la minima traccia della gente che vi abitava. Né impronte di piedi, né segni lasciati da mani umane. Ero diviso tra la paura e la speranza di incontrarli, ma in parecchi giorni di perlustrazioni non accadde nulla che rivelasse la loro presenza. Mi dissi che dovevano abitare molto più in fondo. Oppure erano sempre riusciti a evitarmi.
Il terzo o il quarto giorno, proprio nel punto in cui la muraglia a oriente fa una grande svolta verso sud, trovai una piccola radura. Aprendosi a ventaglio fra i due lati, non era stata raggiunta dai cespugli incolti che crescevano tutt'intorno, vi era rimasto un po' di spazio libero. Stranamente il luogo non aveva l'aria fosca e tesa che si respirava vicino al muro, ma era pervaso dalla dolcezza che avevo trovato nel bosco. Erba soffice e corta ricopriva il terreno come un morbido tappeto, e sopra la mia testa si apriva il cielo nitidamente ritagliato in una forma bislacca. In un angolo della radura vidi del resti di fondamenta in pietra, testimonianza dell'esistenza precedente di una casa. Guardando quelle rovine, mi resi conto che doveva essere stata una solida costruzione ben disegnata. In ogni caso non una baracca tirata su alla bell'e meglio. C'erano tre stanze indipendenti, la cucina, il bagno e l'ingresso. Gironzolando tra le rovine, provai a immaginare il tempo in cui quella casa era ancora in piedi. Ma come sapere chi, e a che scopo, l'aveva costruita in mezzo al bosco, e perché era stata rasa al suolo?
Vicino alla porta di servizio della cucina c'era ancora il pozzo in pietra, ma era stato riempito di terra, e sopra vi era cresciuta l'erba. Probabilmente la persona che aveva abbandonato la casa l'aveva interrato quando se n'era andata. Chissà perché.
Mi sedetti accanto al pozzo, e appoggiandomi al parapetto di pietre consumate guardai il cielo sopra di me. Il vento che soffiava dalla catena settentrionale faceva ondeggiare adagio, con un piacevole fruscio, i rami degli alberi che chiudevano a semicerchio una parte del cielo. Spesse nuvole cariche d'umidità attraversavano in diagonale quello spazio. Tirai su il bavero del cappotto e seguii con gli occhi il loro lento movimento.
Dietro le rovine della casa si intravedeva la muraglia. Da quando mi ero inoltrato nel bosco, era la prima volta che mi ci trovavo tanto vicino. Vista così da breve distanza, dava letteralmente l'impressione di respirare. Seduto in quella radura che si apriva nel bosco orientale, appoggiato al vecchio pozzo, l'orecchio teso al rumore del vento, fui sul punto di credere alle parole del Guardiano. Se c'era una cosa perfetta al mondo, era la muraglia. Probabilmente esisteva da sempre. Come le nuvole che percorrono il cielo, come la pioggia che forma dei fiumi sulla Terra.
Era troppo vasta per essere contenuta in una mappa, il suo respiro troppo forte, la sua curva troppo perfetta. Ogni volta che cercavo di disegnarla nel mio album, venivo colto da un senso di impotenza illimitato. Incredibile come mutasse aspetto a seconda da dove la si guardava, focalizzarne l'immagine precisa era quasi impossibile.
Chiusi gli occhi e feci un breve sonno. Continuavo a sentire il fischio del vento tagliente, ma gli alberi e la muraglia mi proteggevano dal suo soffio freddo. Prima di addormentarmi pensai alla mia ombra. Era ormai tempo di consegnarle la mappa. Ovviamente i dettagli erano imprecisi, i boschi sommariamente indicati, ma l'inverno era alle porte e quando fosse giunto non mi sarebbe più stato possibile continuare le mie perlustrazioni. Nell'album avevo disegnato la pianta generale della città, la posizione e la forma delle cose che vi si trovavano, e avevo annotato i fatti di cui ero a conoscenza. Basandosi su queste informazioni, la mia ombra avrebbe dovuto inventarsi un piano.
Non avevo fiducia nella promessa del Guardiano. Aveva detto che ci avrebbe fatto incontrare, che mi avrebbe lasciato vedere la mia ombra quando le giornate si fossero accorciate e lei fosse divenuta più debole. Ora che l'inverno stava per arrivare, quelle condizioni sembravano esserci.
Sempre con gli occhi chiusi, pensai alla ragazza della biblioteca. Ma più pensavo a lei, più cresceva dentro di me il senso di perdita. Non riuscivo a capire cosa lo generasse e perché, ma era puro rimpianto, non c'era dubbio. Come se stessi perdendo di vista qualcosa che la riguardava. Lo stessi perdendo in continuazione.
La incontravo ogni giorno, tuttavia nemmeno questo poteva riempire il vuoto dentro di me. Quando leggevo i vecchi sogni in una stanza della biblioteca, lei mi stava sempre accanto. Cenavamo insieme, prendevamo insieme qualche bevanda calda, poi io l'accompagnavo a casa. Camminando parlavamo di tante cose. Lei mi raccontava della sua vita di tutti i giorni, del padre e delle sue due sorelle.
Dopo averla accompagnata fino al portone ed essermi separato da lei, sentivo il rimpianto farsi ancora più forte. Non riuscivo in alcun modo a porre rimedio a quell'impressione di fallimento. Era un pozzo troppo profondo, troppo buio, non c'era quantità di terra che potesse riempirlo.
Mi dicevo che il senso di perdita doveva essere legato in qualche modo alla scomparsa dei miei ricordi, ne ero certo. La mia memoria cercava qualcosa in quella ragazza, ma io stesso non sapevo rispondere, e quella mancanza a poco a poco avrebbe lasciato nel mio cuore un vuoto difficile da riempire. Però era un problema che in quel momento non potevo risolvere, la mia esistenza stessa era troppo debole e incerta.
Scacciai dalla mia mente tutti quei pensieri e sprofondai nel sonno.
Quando mi svegliai, la temperatura si era sorprendentemente abbassata. Per riflesso rabbrividii e mi strinsi bene nel cappotto. Il giorno stava calando. Mi alzai, spazzolai via i fili d'erba che mi erano rimasti attaccati addosso, e proprio in quel momento sentii un fiocco di neve toccarmi la guancia. Alzando lo sguardo al cielo vidi che le nubi erano molto più basse, molto più scure e minacciose di prima. Il vento portava grossi fiocchi di neve dalla forma vaga che si posavano gentilmente al suolo. L'inverno era arrivato.
Prima di andarmene da quel luogo guardai ancora una volta la muraglia. Sotto il cielo scuro dove volteggiava la neve, si ergeva ancora più imponente nella sua perfezione. Osservandola, ebbi la sensazione che «loro» mi stessero scrutando. Mi stavano di fronte come creature primordiali appena svegliate. «Perché sei venuto qui? - mi stavano chiedendo. - Cosa sei venuto a cercare?»
Io però non sapevo rispondere. Quel breve sonno al freddo mi aveva tolto ogni calore, e aveva lasciato nella mia mente una sorta di vago, strano guazzabuglio. Avevo la sensazione che la mia testa fosse quella di un altro, nel corpo di un altro. Tutto era pesante e confuso.
Cercai di uscire dal bosco badando bene a non guardare la muraglia e mi affrettai verso il cancello orientale. La strada era lunga, e si faceva sempre più buio. Il mio senso dell'equilibrio era alterato, così dovetti fermarmi più volte lungo il cammino per respirare a fondo, trovare la forza di continuare e ridare coesione ai miei nervi. Perso nell'oscurità, sentivo qualcosa di pesante incombere su di me. Ebbi l'impressione di udire il suono del corno, che attraversò la mia coscienza senza lasciare traccia.
Quando finalmente uscii dal bosco e mi ritrovai sulla sponda del fiume, la Terra era ormai avvolta da tenebre spesse. Non c'erano né luna né stelle, solo il rumore del vento carico di neve e quello freddo dell'acqua riempivano l'atmosfera, mentre alle mie spalle si ergeva il bosco scuro che si agitava all'aria. Non ricordo quanto tempo impiegai per raggiungere la biblioteca, so solo che camminai e camminai, indefinitamente, lungo la sponda del fiume. Nell'oscurità i rami dei salici ondeggiavano, e il vento ululava sopra la mia testa. La strada non finiva mai.
La ragazza mi fece sedere davanti alla stufa e mi posò una mano sulla fronte. Una mano terribilmente fredda, che mi procurò un dolore pungente, come se mi avessero infilato in testa una stalattite di ghiaccio. Di riflesso feci per allontanarla, ma non riuscii ad alzare il braccio, e quando mi sforzai di farlo a tutti i costi venni preso dalla nausea.
- Hai la febbre molto alta, - disse la ragazza. - Dove sei stato, finora, che cosa hai fatto?
Cercai di risponderle, ma le parole si erano dileguate dalla mia coscienza. Non riuscivo nemmeno a capire cosa mi stesse chiedendo esattamente.
Lei andò a prendere chissà dove delle coperte, me le avvolse bene addosso e mi fece sdraiare davanti alla stufa. Nel farlo mi sfiorò la guancia coi capelli. Mi dissi che non volevo perderla, ma non sapevo se quel pensiero si generasse nella mia coscienza attuale o fosse un frammento di un vecchio ricordo tornato in superficie. Erano tante le cose che avevo perso, ed ero troppo stanco. Colto da quel sentimento di impotenza, percepivo il graduale allontanarsi della mia lucidità. Provai uno strano senso di dissociazione, come se il mio corpo non riuscisse a fermare la mia coscienza che se ne andava. Non sapevo se restare col primo o abbandonarmi alla seconda.
Intanto la ragazza mi teneva la mano, per tutto il tempo.
- Adesso dormi, - sentii che mi diceva. Parole che mi arrivarono da una lontana, profonda oscurità, impiegando un tempo infinito.