30. La fine del mondo

 

 

 

La fossa.

 

Il mattino, quando mi svegliai, quel che era avvenuto il giorno prima nel bosco mi parve un sogno. Però non poteva esserlo: sul tavolo era posata la vecchia fisarmonica, piegata di lato come un animale indebolito. Era tutto accaduto realmente. Il meccanismo che ruotava spinto da un vento sotterraneo, il giovane custode dall'aria infelice, la sua collezione di strumenti musicali.

Eppure continuavo a sentire uno strano rumore, irreale. Come se nel cervello mi venisse inserito qualcosa. Il rumore era ininterrotto, e continuava a piantarmi nella materia grigia una cosa piatta. Non è che avessi male alla testa, la mia testa stava benissimo. Era solo una sensazione molto irreale.

Senza alzarmi dal letto, mi guardai intorno. Nella stanza non era cambiato nulla. Il soffitto, le pareti squadrate, il pavimento un po' irregolare, la finestra, le tende, tutto era esattamente come prima. E sul tavolo c'era la fisarmonica. Al muro erano appesi il cappotto e la sciarpa. Dalla tasca del cappotto spuntavano un paio di guanti.

Controllai se riuscivo a muovermi normalmente. Era tutto a posto, ogni parte del mio corpo funzionava alla perfezione. Non avevo nemmeno male agli occhi. Nessun sintomo di disagio.

Eppure nella mia testa continuava a risuonare quel rumore piatto. Un rumore irregolare, composito, formato dall'associazione di parecchi suoni omogenei. Cercai di coglierne la provenienza. Ma avevo un bel tendere l'udito, non riuscivo a distinguere da dove venisse. Sembrava generarsi all'interno della mia testa.

Quando per togliermi ogni dubbio mi alzai, andai alla finestra e guardai fuori, capii quale ne era l'origine. Subito sotto di me tre vecchi stavano scavando una grossa buca nel terreno. Il rumore era quello delle punte delle loro vanghe che si infilavano nel suolo duro e gelato. L'aria frizzante gli dava una strana vibrazione, che mi aveva confuso. E poi dovevo essere nervoso a causa di tutte le cose che erano successe.

Le lancette dell'orologio indicavano quasi le dieci. Non mi era mai capitato di dormire tanto a lungo. Perché il Colonnello non mi aveva svegliato? Tranne quando avevo avuto la febbre, mi aveva sempre svegliato alle nove, ogni giorno, portando su un vassoio la colazione per entrambi.

Attesi fino alle dieci e mezza, ma il Colonnello non si fece vedere. Rinunciai, scesi in cucina, mi feci dare del pane e qualcosa da bere, tornai nella mia stanza e mangiai da solo. Essendo abituato a fare colazione con lui, tutto mi sembrò insipido. Lasciai metà del pane e lo misi da parte per darlo alle bestie. Poi, in attesa che il fuoco nella stufa riscaldasse l'ambiente, rimasi seduto sul letto col cappotto addosso.

Il tepore incredibile del giorno precedente in una notte se n'era andato, l'aria nella stanza era di nuovo fredda e pesante. Il vento non era forte, ma tutto il paesaggio era ripiombato nell'inverno: dalla catena settentrionale alle praterie meridionali il cielo era coperto da opprimenti nuvole gonfie di neve.

Sotto la finestra, i quattro vecchi continuavano a scavare.

Come « quattro »?

Prima, quando avevo guardato, erano tre. Tre vecchi stavano scavando una fossa con delle vanghe. Adesso invece erano diventati quattro. Probabilmente a un certo punto se n'era aggiunto uno, mi dissi. Non c'era niente di strano. Nella residenza, di vecchi ce n'erano quanti se ne voleva. I quattro scavavano in silenzio in quattro posti diversi. Ogni tanto qualche folata capricciosa faceva sventolare l'orlo delle giacche leggere, ma loro non sembravano patire il freddo e continuavano a colpire il suolo con le pale senza fermarsi, le guance arrossate. Uno addirittura sudava e si era tolto la giacca, che ora pendeva dal ramò di un albero come una crisalide vuota, ondeggiando al vento.

Appena la stanza fu un po' più calda, mi sedetti su una sedia, presi dal tavolo la fisarmonica e provai ad aprirla e chiuderla adagio. Guardandola ora, nella mia camera, mi resi conto che era molto più sofisticata di quanto mi fosse apparsa il giorno prima nel bosco. Pulsanti e bottoni erano vecchi e ingialliti, però la vernice del pannello di legno non era scrostata e anche i delicati arabeschi di un giallo tendente al verde erano rimasti intatti. Più che uno strumento musicale, la si poteva considerare un oggetto d'arte. Il mantice si era un po' indurito, ma non tanto da renderla inutilizzabile. Di sicuro era da molto tempo che nessuno la suonava. Chissà a chi era appartenuta, una volta, e per quali canali era arrivata in quel posto... Mistero.

Tutto in quella fisarmonica era una meraviglia, non solo le decorazioni. Tanto per cominciare era piccolissima. Una volta chiusa, la si poteva mettere nella tasca del cappotto. Il che però non andava a scapito della funzionalità, aveva tutto quello che deve avere una fisarmonica.

La manovrai parecchie volte, e dopo aver fatto l'abitudine alla durezza del mantice premetti l'uno dopo l'altro con la mano destra i pulsanti delle note, mentre con la sinistra schiacciavo quelli che servivano a fare l'accompagnamento. Dopo aver prodotto una serie di suoni mi fermai e ascoltai.

Si sentivano sempre i vecchi che scavavano la fossa. Il rumore delle loro quattro vanghe che penetravano nel suolo creava un ritmo irregolare, incoerente, che stranamente riempiva la stanza. Il vento a volte faceva tremare la finestra. Fuori si vedeva il fianco della collina, dove qua e là restavano mucchi di neve. Non capivo se il suono della fisarmonica arrivasse o no alle orecchie dei vecchi. Forse no. Era debole, e sottovento.

Anni addietro avevo suonato la fisarmonica - uno strumento moderno con una tastiera - ma era da tanto che non lo facevo e mi ci volle molto tempo per abituarmi a quel vecchio modello a pulsanti. Pulsanti piccoli, proporzionati al resto, e tanto vicini l'uno all'altro che solo un bambino o una donna avrebbero potuto suonarli agevolmente. Per le grosse mani di un uomo adulto era un'ardua impresa. In più, per prendere il ritmo dovevo azionare il mantice in maniera efficace.

Ad ogni modo, dopo un paio d'ore riuscii a suonare in maniera esatta qualche accordo facile. Però non mi veniva in mente nessuna melodia. Provai e riprovai, schiacciando i pulsanti, a mettere insieme qualcosa di vagamente melodico, ma era soltanto una serie di suoni senza significato. Non portavano a nulla. Ogni tanto una serie di note a caso evocava all'improvviso qualche vago ricordo, che poi si dissolveva nuovamente nell'aria.

Se non riuscivo a ritrovare alcuna melodia, forse era a causa del rumore delle pale dei vecchi. Ovviamente non si trattava solo di quello, ma era vero che mi impediva di concentrarmi. Arrivava troppo distinto alle mie orecchie. Tanto che a poco a poco ebbi l'impressione che stessero scavando un buco nella mia testa. Più ci davano dentro con le pale, più si allargava il vuoto nella mia testa.

Prima di mezzogiorno il vento si fece molto più forte, misto a neve. Sentivo il leggero picchiettio dei fiocchi contro i vetri della finestra. Duri come ghiaccio, i piccoli granelli bianchi cadevano sul davanzale formando disegni irregolari, poi venivano soffiati via dal vento. Non era ancora la qualità di neve che si accumula, ma ben presto si sarebbe mutata in neve pesante e umida, dai grossi fiocchi soffici. Succedeva sempre così. E la terra finiva per ricoprirsi di un manto bianco. I granelli duri e leggeri erano l'annuncio di una grossa nevicata.

I quattro vecchi continuavano a scavare imperterriti senza preoccuparsi della neve, come se fin dall'inizio se l'aspettassero. Nessuno di loro si fermava a guardare il cielo o a scambiare una parola. La giacca appesa al ramo di un albero era rimasta lì, sbattuta dal vento.

Adesso i vecchi erano diventati sei. Gli ultimi due avevano portato un piccone e una carriola. Quello col piccone era sceso nella fossa e dava colpi sul suolo indurito, mentre l'altro, con una vanga, metteva nella carriola la terra scavata dai suoi compagni e poi la portava giù lungo il fianco della collina. La fossa era ormai tanto profonda che gli spalatori ci entravano fino alla vita. Neanche il vento riusciva a coprire il rumore delle vanghe e del piccone.

Rinunciando a ritrovare una canzone, posai la fisarmonica sul tavolo e tornai alla finestra a guardare i vecchi che lavoravano. Non riuscii a individuare tra loro chi dirigesse le operazioni. Faticavano tutti allo stesso modo, senza che nessuno desse ordini o indicazioni. Il vecchio che adoperava il piccone scavava in modo rapido ed efficiente, i quattro con le vanghe buttavano fuori la terra, il sesto la portava in silenzio giù dalla collina.

Osservando quella scena, però, a poco a poco mi venne qualche dubbio. Prima di tutto stavano scavando una fossa troppo grande per la spazzatura, e poi perché farlo proprio ora che stava per mettersi a nevicare? Doveva esserci una ragione speciale. La neve ci sarebbe caduta dentro, e prima che fosse giorno l'avrebbe di nuovo riempita. I vecchi dovevano saperlo, bastava che guardassero le nubi. La catena settentrionale era ormai imbiancata fino a metà.

Rifletterci su non mi aiutava a capire il senso del loro operato, quindi andai a sedermi su una sedia davanti alla stufa e rimasi a guardare soprappensiero le braci ardenti. Probabilmente mi era ormai impossibile ricordarmi una canzone, mi dissi. Che avessi o meno uno strumento musicale, non aveva importanza. Potevo provare a mettere insieme tutti i suoni che volevo, ma se non formavano una melodia restavano una sequela di rumori. La fisarmonica abbandonata sul tavolo era soltanto un bell'oggetto. Mi sembrava di capire le parole del custode della Centrale Elettrica. Non era necessario suonarla, aveva detto, bastava guardarla, era sufficientemente bella. Chiusi gli occhi e ascoltai il rumore della neve contro i vetri.

 

Quando venne l'ora di pranzo finalmente i vecchi sospesero il lavoro e rientrarono nella residenza, lasciando dov'erano le vanghe e il piccone.

Mi ero seduto accanto alla finestra e stavo osservando la fossa abbandonata, quando il Colonnello, che occupava la stanza accanto, venne a bussare alla mia porta. Indossava il solito cappotto pesante e portava un berretto da lavoro con la visiera ben calcato in testa. Cappotto e berretto erano coperti di fiocchi di neve.

- Entro questa sera ne sarà caduta parecchia, - disse. - Cosa ne dice, porto su il pranzo?

- Grazie, ottima idea, - risposi.

Dopo una decina di minuti il Colonnello tornò reggendo con entrambe le mani una pentola che posò sulla stufa. Poi si tolse cappotto, berretto e guanti, lentamente, come un animale che fa la muta quando la stagione cambia. Accarezzandosi i capelli arruffati si sedette su una sedia e fece un sospiro.

- Mi scusi se non ho potuto venire a far colazione con lei, - disse. - Ho avuto molto da fare fin dal mattino, non ho avuto nemmeno il tempo di mangiare.

- Non è che stava scavando la fossa, per caso?

- La fossa? Ah già, quella fossa. No, quello non è un lavoro mio. Anche se non mi dispiace, l'attività di penetrazione, - fece il Colonnello ridacchiando. - No, avevo da fare in città.

Quando il cibo nella pentola fu caldo, il Colonnello lo divise in due piatti che portò sul tavolo. Si trattava di uno stufato di verdura con della pasta. Lui cominciò a mangiare con l'aria di trovarlo buono, soffiandoci sopra per raffreddarlo.

- A cosa serve quella fossa? - gli chiesi.

- A niente, - rispose lui portando il cucchiaio alla bocca. - Scavano al solo scopo di scavare. In tal senso quella è una fossa veramente pura.

- Non capisco.

- È molto semplice. Quelli lì scavano solo perché hanno voglia di farlo. Non hanno nessun altro obiettivo.

Masticando un pezzo di pane, cercai di considerare quel concetto di «fossa pura».

- Ogni tanto si mettono a scavare, - proseguì il Colonnello. - Probabilmente per la stessa ragione per cui io gioco a scacchi. Una cosa che non ha significato, che non ha sbocchi. Ma questo non ha importanza. Nessuno ha bisogno di significati, nessuno vuole arrivare da nessuna parte. Qui ognuno di noi scava una fossa pura. Azioni senza uno scopo, sforzi che non portano progressi, percorsi che non hanno una meta finale. È fantastico, non trova? Nessuno reca danno a nessuno. Nessuno caccia via nessuno. Nessuno vince, nessuno perde.

- Sì, credo di comprendere cosa vuole dire.

Il Colonnello annuì più volte, poi inclinò il piatto e bevve il brodo dello stufato.

- Può darsi che a lei l'organizzazione di questa città sembri innaturale. Per noi invece non è così. Per noi è naturale, pura, tranquilla. Anche lei prima o poi lo capirà, ne sono sicuro. Ed è quello che desidero. Ho passato la maggior parte della mia esistenza a fare il militare, e non lo rimpiango. A modo mio ho avuto una vita felice. L'odore della polvere da sparo e del sangue, il balenare delle sciabole, la fanfara dell'assalto, ancora oggi tutto ciò ogni tanto mi torna in mente. Però non ricordo più per cosa si combatteva. Se per desiderio di gloria, per patriottismo, per amore della guerra, per odio... Può darsi che adesso lei abbia paura di venir privato del suo cuore. Avevo paura anch'io. Non me ne vergogno affatto, - disse il Colonnello. Poi tacque guardando il soffitto, come se cercasse le parole. - Una volta che avrà abbandonato il suo cuore, però, arriverà la tranquillità. Una pace tanto profonda quale lei non ha mai provato. Lo tenga a mente, per favore.

Io annuii in silenzio.

- Ad ogni modo, in città ho sentito parlare della sua ombra, - proseguì il Colonnello raccogliendo la salsa col pane. - Pare che non stia affatto bene. Vomita tutto quello che mangia, e sono tre giorni che non lascia il letto. Credo che non ne abbia più per molto. Perché non la va a trovare, se la cosa non la disturba? Pare che la poveretta abbia un gran desiderio di vederla.

- Sì, certo... - dissi fingendo di esitare. - Per me va bene, ma cosa ne penserà il Guardiano?

- Sarà d'accordo, naturalmente. Quando un'ombra sta per morire, il suo padrone ha il diritto di vederla. È la regola. Lui ha un bell'essere il Guardiano, non può impedirglielo. Non ha nessun motivo per farlo. In questa città la morte di un'ombra è una cerimonia solenne.

- Be', allora ci vado subito, - dissi dopo aver lasciato passare qualche secondo.

- Ecco, vada, - mi incoraggiò il Colonnello dandomi una pacca sulla spalla. - Vada prima che faccia sera e la neve sia troppo alta. Si può dire quel che si vuole, ma l'ombra è quanto una persona ha di più vicino. Vada e le faccia sentire il suo affetto: dopo si sentirà meglio. La faccia morire felice. Sarà dura, ma è anche per il suo bene.

- Sì, è quel che farò, - dissi. Poi mi misi il cappotto e la sciarpa intorno al collo.