23. Il paese delle meraviglie
Buche - Sanguisughe - La torre.
- Non è un terremoto, - disse la ragazza. - È qualcosa di molto peggio.
- Cioè?
Lei trattenne il fiato un secondo, come se stesse per dire qualcosa, ma cambiò idea.
- Non c'è tempo adesso per le spiegazioni, - disse scuotendo la testa. - Andiamo avanti, non abbiamo altra via di scampo. Corra più veloce che può, non fa niente se la ferita le fa male, sempre meglio che morire.
Senza sciogliere la corda che ci legava l'uno all'altra, ci mettemmo a correre con tutte le nostre forze lungo il fossato. La lampada che lei teneva in mano oscillava fortemente in su e in giù in cadenza col suo movimento, disegnando sulle lisce e ripide pareti laterali una linea a zigzag. Gli oggetti nello zaino che portavo sulla schiena - le lattine, la fiaschetta di whisky, la borraccia dell'acqua - sballottavano rumorosamente. Potendo, avrei voluto tenere solo le cose indispensabili e abbandonare tutto il resto, ma non avevo certo il tempo di fermarmi. Non avevo nemmeno quello di pensare alla ferita che mi faceva male, dovevo continuare a correre disperatamente dietro alla ragazza. Essendo legato a lei dalla corda, ero io che dovevo adattare la mia velocità alla sua. Il rumore del suo respiro affannoso e degli oggetti che sballottolavano nel mio zaino si ripercuoteva con regolarità nel buio di quella cavità lunga e stretta, finché il fruscio proveniente dalla terra non divenne tanto forte da sovrastarlo.
Man mano che avanzavamo, quel suono si faceva più intenso e più chiaro. Il suo graduale aumento di volume dipendeva dal fatto che noi gli correvamo incontro. Quella che all'inizio ci era sembrata una risonanza terrestre a poco a poco era diventata una sorta di rantolo emesso dalla gola di un gigante. Il rumore che produce un fiato possente espulso dai polmoni, quando non riesce a farsi voce in fondo alla gola. Lo seguì un cigolio nella dura superficie della roccia, e la Terra fu scossa da tremiti irregolari. Qualcosa di funesto, non sapevo cosa, stava accadendo sotto i nostri piedi, e poteva inghiottirci da un momento all'altro.
Al solo pensiero di continuare a correre incontro a quelle onde sonore il mio corpo si ritraeva, ma dato che la ragazza era lanciata in quella direzione non potevo far altro che seguirla. In ogni caso dovevamo andare avanti, fin dove potevamo arrivare.
Per fortuna il sentiero non faceva curve ed era liscio come una pista da bowling, né c'era pericolo di urtare qualcosa, così potevamo correre a perdifiato senza preoccuparci d'altro.
Il rantolo gradualmente si fece più concitato. Proiettato verso qualche punto fatale, scuoteva violentemente l'oscurità della caverna. A intervalli si sentiva anche un fragore spaventoso, come di due rocce gigantesche che urtassero l'una contro l'altra. Sembrava che ogni forma di energia compressa nelle tenebre lottasse contorcendosi per scuotersi di dosso quel giogo.
Dopo essere durato qualche minuto, il rumore improvvisamente cessò. Ci fu una pausa di un attimo, poi uno strano brusio riempì l'atmosfera, come se migliaia di vecchi soffiassero l'aria fra i denti tutti insieme. Non si udiva nient'altro. Né la risonanza terrestre, né il rantolo, né il fragore delle rocce che si urtavano, né il cigolio in superficie. Solo quella sorta di risucchio d'aria sibilante attraverso l'oscurità. Sembrava il respiro quieto e contento di una bestia che se ne stesse acquattata e attendesse, risparmiando le forze, l'avvicinarsi della preda. Ma poteva anche essere il rumore di innumerevoli insetti sotterranei, che mossi da qualche presentimento contraessero e allungassero come una fisarmonica il loro corpo disgustoso. In ogni caso, era un rumore terrificante, gonfio di presagi funesti, quale non era mai arrivato alle nostre orecchie.
Quello che più mi spaventava in quel rumore, era la sensazione che più che respingerci ci invitasse. «Loro» sapevano che ci stavamo avvicinando, il loro cuore maligno tremava di gioia. A quel pensiero, pur continuando a correre, sentii la paura raggelarmi la spina dorsale. Era vero, non si trattava di un terremoto. Come aveva detto la ragazza, era qualcosa di molto più spaventoso. Non riuscivo a immaginare cosa. La realtà aveva superato già da un pezzo la mia fantasia, aveva raggiunto le frontiere della mia coscienza. Ogni ulteriore sforzo di immaginazione mi era impossibile. Potevo solo saltare l'uno dopo l'altro i crepacci senza fondo che separavano la realtà dalla fantasia, usando il mio corpo fino ai limiti della sua resistenza. Ad ogni modo, agire era cento volte meglio che restare inattivi.
Continuammo a correre a lungo, o perlomeno così mi parve, ma non ne avevo alcuna certezza. Potevano essere passati tre o quattro minuti, come trenta o quaranta. La paura e la conseguente confusione mi avevano privato del senso del tempo. Per quanto corressi non provavo stanchezza; quanto al dolore alla ferita, già da molte ore lo avevo relegato in un angolo della mia coscienza. Mi sentivo i gomiti stranamente rigidi, ma questa era l'unica sensazione fisica che avvertissi. Si può quasi dire che non avessi nemmeno coscienza di correre. Le mie gambe avanzavano e calcavano il terreno automaticamente. Mi precipitavo in avanti, come spinto da una voluminosa massa d'aria.
Sul momento non me ne resi conto, ma la rigidità dei gomiti doveva venire dalle orecchie. Per non sentire quel sibilo terrificante avevo irrigidito per riflesso i muscoli delle orecchie, atteggiamento che a poco a poco si era trasmesso alle spalle e ai gomiti. Fu solo quando andai a sbattere contro le spalle della ragazza e le rotolai sopra facendola cadere a terra finendo dall'altra parte, che me ne accorsi. Non avevo sentito il grido d'avvertimento che mi aveva lanciato. Mi sembrava sì d'aver udito qualcosa, ma non avevo riconosciuto l'avvertimento come tale perché avevo chiuso il canale che collegava la voce fisiologicamente percepita alla capacità di cogliervi un significato.
Questo pensai nel momento in cui andai a sbattere con la testa contro il duro suolo: inconsciamente avevo regolato la mia facoltà uditiva. Proprio come se avessi soppresso il suono, mi dissi. In situazioni estreme, pare che la coscienza umana sviluppi facoltà eccezionali. Oppure mi stavo gradualmente avvicinando all'evoluzione.
Ciò che provai subito dopo - o, per essere più preciso, contemporaneamente - fu un dolore insopportabile alla testa, di lato. Davanti ai miei occhi l'oscurità esplose, il tempo si fermò, e in quel momento ebbi l'impressione che il mio corpo fosse dilaniato da una torsione dell'aria. Tale era il dolore. Ero sicuro di essermi fratturato o ammaccato le ossa del cranio. O che il cervello mi fosse schizzato fuori. Ero già morto, solo la mia coscienza nella scia della mia memoria fatta a pezzi reagiva al dolore, come la coda di una lucertola.
Passato quel momento, mi resi conto di essere ancora vivo. Ero vivo e respiravo, e questa era la ragione per cui provavo quel dolore lancinante alla testa. Sentivo le lacrime riempirmi gli occhi, colarmi sulle guance, finire ai lati della bocca o cadere sulla dura superficie rocciosa. Era la prima volta in vita mia che sbattevo la testa con tanta violenza.
Mi dissi che stavo per svenire, ma ancorai saldamente il mio dolore al mondo delle tenebre. Ricordavo vagamente che mi aveva folgorato mentre stavo facendo qualcosa. Sì, stavo facendo qualcosa. Stavo correndo. Ed ero caduto. Stavo fuggendo. Non dovevo addormentarmi lì dov'ero. La mia memoria era ridotta a un misero e vago frammento, ma mettendoci tutte le mie forze riuscii ad afferrarlo con entrambe le mani.
Mi ci aggrappai. Quando finalmente la mia coscienza resuscitò, mi resi conto che non era a un frammento della mia memoria che stavo aggrappato. Era alla corda di nylon. Per un attimo mi sembrò di essere un pesante panno messo ad asciugare al vento. Resistendo alle folate, alla gravità e a tutte le forze che cercavano di sbattermi a terra, dovevo sforzarmi di portare a termine la mia missione di panno appena lavato, mi dissi. Non so perché mi venivano in mente queste fantasie. Forse avevo preso l'abitudine di dare alla situazione in cui mi trovavo la forma che più mi conveniva.
Immediatamente dopo avvertii una differenza tra lo stato della metà superiore del mio corpo e quello della metà inferiore. Per la precisione, la metà inferiore non sentiva quasi nulla. Dalla vita in su ero ormai in grado di controllare le mie sensazioni: la testa mi faceva male, la guancia e la bocca erano schiacciate contro la roccia fredda, le mani tenevano saldamente la fune, lo stomaco mi era salito più o meno all'altezza della gola, e una sporgenza mi opprimeva il petto. Fin lì mi era tutto chiaro, ma non avevo la minima idea delle condizioni in cui si trovava la parte inferiore del mio corpo.
Forse non c'era più. Lo shock dell'urto mi aveva spaccato in due giusto all'altezza della ferita, e la metà inferiore era finita chissà dove. Le mie gambe, le mie unghie, la mia pancia, il mio pene, i miei testicoli, il mio... No, non poteva essere. Se avessi perso metà del mio corpo, avrei provato ben altro dolore.
Cercai di rendermi conto con maggiore lucidità delle mie condizioni. Ero tutto intero, non c'era dubbio. Semplicemente non riuscivo a sentire nulla dalla vita in giù. Chiusi gli occhi, e lasciando passare le fitte dolorose alla testa che arrivavano l'una dopo l'altra come onde, concentrai la mia attenzione sulla mia metà inferiore. Uno sforzo che assomigliava molto al tentativo di farmelo venire duro quando il mio pene non ne voleva sapere. Era come fare forza sul vuoto.
Intanto pensavo alla bibliotecaria dai capelli lunghi e lo stomaco dilatato. Assurdo, chissà perché mentre ero a letto con lei non ero riuscito ad avere un'erezione, mi chiesi. Da allora tutto era andato per il verso storto. Non potevo però continuare ad arrovellarmi indefinitamente su quel problema. Averlo duro non è il solo scopo della vita. Lo avevo pensato anche quando avevo letto La certosa di Parma di Stendhal, tanto tempo prima. Scacciai dalla mente quelle idee di erezione.
La metà inferiore del mio corpo era bloccata in uno stato di sospensione. Come se galleggiasse nel cosmo... ecco, pendeva nel vuoto al di là del bordo della roccia, trattenuta a malapena dalla metà superiore. Ed era per questo che mi aggrappavo disperatamente alla corda.
Quando aprii gli occhi rimasi abbagliato. La ragazza grassa stava dirigendo la luce della sua pila elettrica contro la mia faccia.
Tirando allo spasimo sulla corda cercai di issare anche la parte inferiore di me.
- Presto, - disse la ragazza. - Se non si sbriga moriremo tutti e due!
Mi sforzai di sollevare una gamba sopra il bordo della roccia, ma non ce la feci. Non c'era la minima sporgenza dove poter posare il piede. Dovevo mollare la corda, non c'era altro da fare. Posai i gomiti a piatto sul terreno e cercai di tirarmi su con la sola forza delle braccia. Il mio corpo era terribilmente pesante, e il terreno stranamente viscido, quasi fosse bagnato di sangue. Non capivo il perché, ma non era il momento di preoccuparmene. La ferita alla pancia strofinava contro il bordo della roccia e mi faceva male come se mi avessero tagliato di fresco. Se qualcuno mi avesse pestato sotto i piedi con tutte le sue forze, intenzionato a ridurmi in polvere - me, il mio corpo e il mio spirito - non mi sarei sentito peggio.
Ciononostante a poco a poco, un centimetro alla volta, stavo riuscendo a tirarmi su. La cintura dei pantaloni si impigliò però nel bordo della roccia, mentre la corda che vi era annodata continuava a esercitare una trazione in avanti. Il che, più che aiutarmi, mi impediva di concentrarmi e mi tormentava la ferita.
- Molla quella corda! - gridai in direzione della luce. - Me la cavo da solo, tu non tirare!
- Ce la fa?
- Sì, credo di sì.
Malgrado il fermaglio della cintura fosse sempre bloccato, con uno sforzo estremo riuscii a mettere una gamba sul bordo, quindi a estrarmi da quell'assurdo buco nero. La ragazza, quando fu sicura che ne ero uscito sano e salvo, mi venne vicino e mi circondò con la braccia, quasi volesse controllare che c'ero tutto.
- Mi scusi se non sono riuscita a tirarla fuori, - disse. - Ma era già uno sforzo tremendo restare aggrappata alla roccia per evitare che finissimo tutti e due là sotto.
- Non fa niente, ma perché non mi hai avvertito che c'era quel buco?
- Non ho fatto in tempo. Per questo le ho solo gridato di fermarsi.
- Non ho sentito.
- Comunque scappiamo più in fretta che possiamo. Qui è pieno di buchi, dobbiamo fare attenzione a evitarli. Passato questo tratto, siamo arrivati. Ma se non ci sbrighiamo ci succhieranno il sangue, ci addormenteremo e moriremo così.
- Chi ci succhierà il sangue?
La ragazza rivolse la luce della lampada verso il buco dove stavo per cadere. Misurava circa un metro di diametro e formava un cerchio perfetto, come se fosse stato disegnato col compasso. Quando lei spostò la luce, vidi che sul terreno si susseguivano a perdita d'occhio altre buche della stessa grandezza. Sembrava un gigantesco alveare.
Le due pareti rocciose che avevano fiancheggiato la strada fino ad allora erano sparite, lasciando spazio a una superficie piana tutta forata che si allargava in avanti. Il terreno fra una buca e l'altra sembrava un ricamo. La larghezza di queste strisce di suolo variava da un metro a una trentina di centimetri e passarvi era molto pericoloso, ma non impossibile facendo molta attenzione.
Il problema era un altro: il terreno non stava fermo. Era uno strano spettacolo. La dura superficie rocciosa, che avrebbe dovuto essere saldissima, sembrava ondulare come un fiume di sabbia. All'inizio pensai che la botta in testa mi avesse danneggiato i nervi ottici. Allora mi illuminai la mano, che però restava ferma, non ondulava. Era la mia solita mano. Di conseguenza i miei nervi non avevano subito alcun danno. Era proprio il suolo a muoversi.
- Sanguisughe, - disse la ragazza. - Orde di sanguisughe che risalgono dai buchi. Se perdiamo tempo, ci succhieranno il sangue fino a ridurci come due crisalidi vuote.
- Per carità! - feci. - È questa la cosa tremenda a cui ti riferivi?
- No. Le sanguisughe sono solo un anticipo. Il brutto verrà subito dopo. Si sbrighi!
Sempre legati l'uno all'altra, avanzammo sul terreno coperto di sanguisughe. Le suole di gomma delle mie scarpe ne schiacciavano a migliaia, con una sensazione viscida che dalle gambe mi risaliva su per la schiena.
- Stia ben attento a non mettere un piede in fallo. Se cade in uno di questi buchi è spacciato. Là dentro ci sono oceani di sanguisughe, - disse la ragazza prendendomi saldamente per il gomito. Io afferrai l'orlo del suo giubbotto e lo tenni ben stretto. Procedere nel buio su un passaggio di una trentina di centimetri, viscido e scivoloso, era un'ardua impresa. I corpi sanguinolenti delle sanguisughe schiacciate formavano una poltiglia che si attaccava alla suola delle scarpe, rendendo il piede instabile sul terreno. Sentivo le sanguisughe che prima, quando ero caduto, mi si erano attaccate alla pancia, salire fino alla nuca e alle orecchie e succhiarmi il sangue, ma non potevo scacciarle. Liberare una mano mi era impossibile: con la sinistra tenevo la lampada, con la destra l'orlo del giubbotto della ragazza. Mentre facevo luce sul terreno per guardare dove mettevo i piedi, non potevo fare a meno di vedere quelle bestiacce. Ce n'erano tante che mi sentivo svenire. E dai buchi ne salivano innumerevoli altre, in continuazione.
- Di sicuro gli Invisibili un tempo usavano gettare le loro vittime lì dentro, - dissi.
- Esatto. Bravo, è perspicace.
- Non ci vuole un grosso sforzo di fantasia.
- Gli Invisibili pensano che le sanguisughe siano delle seguaci del dio pesce. Forse delle discepole. Così, per fare dei sacrifici al pesce li facevano alle sanguisughe. Vittime fresche, piene di sangue e di carne. Le persone che venivano catturate in superficie e portate qui finivano tutte sacrificate in questo modo.
- Adesso questa pratica non è più in voga, vero?
- No, forse no. Adesso le persone se le mangiano loro, al pesce e alle sanguisughe offrono soltanto la testa, mi ha detto il nonno. La staccano e gliela danno come vittima simbolica. Ma qui siamo nella cinta sacra, non entra nessuno.
Superammo alcune buche, schiacciando sotto le scarpe decine di migliaia di viscide sanguisughe. Più volte sia io sia la ragazza stavamo per mettere un piede in fallo, ma tenendoci stretti l'uno all'altra riuscimmo sempre a evitare il disastro.
Il disgustoso rumore di aria risucchiata sembrava venire dal fondo delle buche. Ci avvolgeva completamente, allungando tentacoli, come una foresta di notte. Tendendo l'orecchio si poteva sentire un «hyooo... hyooo... » come se tutte le persone cui era stata tagliata la testa emettessero un lamento attraverso la laringe sezionata.
- L'acqua si sta avvicinando, - disse la ragazza. - Le sanguisughe erano solo un anticipo. Quando saranno uscite tutte, arriverà l'acqua. Sgorgherà da questi buchi e allagherà la caverna. Le sanguisughe lo sanno, per questo cercano di venire in superficie. Per raggiungere in tempo l'altare.
- Tu lo sapevi, vero, tutto questo? - chiesi. - Perché non me l'hai detto prima?
- A dire la verità, non ne ero sicura neanch'io. L'acqua non sale tutti i giorni, solo due o tre volte al mese. Per colmo di sfortuna doveva essere proprio oggi!
- Le disgrazie non vengono mai sole, - dissi esprimendo il pensiero che avevo in testa fin dal mattino.
Con mille cautele ci facevamo strada fra una buca e l'altra. Ma per quanto avanzassimo, le buche non finivano mai. Chissà, forse sarebbero continuate sino alla fine della Terra. Sotto le suole delle nostre scarpe c'era ormai uno strato di sanguisughe morte tanto spesso che non avevamo più la sensazione di calpestare il terreno. Mettevamo un piede dietro l'altro, ma la nostra mente andava offuscandosi: mantenere l'equilibrio diventava sempre più difficile. In circostanze estreme le facoltà fisiche possono occasionalmente potenziarsi, ma la capacità di concentrazione è molto più limitata di quanto si pensi. Si esaurisce anche in una situazione di pericolo, se questa dura troppo. Col passare del tempo la valutazione effettiva del pericolo stesso e la capacità di immaginare la morte si indeboliscono, e il vuoto della coscienza appare evidente.
- Fra poco ci siamo, - disse la ragazza. - Fra poco saremo in salvo.
Troppo esausto per rispondere, mi limitai ad annuire, pur rendendomi conto dell'inutilità di annuire nel buio.
- Mi sente? Tutto bene? - chiese lei.
- Sì, tutto bene. Ho solo la nausea, - risposi.
Era già da un bel po' che avevo voglia di vomitare. La massa delle sanguisughe che si contorcevano per terra, il loro odore, il loro liquido viscido, il disgustoso rumore d'aria risucchiata, le tenebre, la spossatezza, la voglia di dormire, tutti questi fattori si erano combinati a stringere il mio stomaco in un anello di ferro. Il sapore acido del succo gastrico mi era risalito fino alla radice della lingua. La mia capacità di concentrazione sembrava arrivata al limite. Era come suonare un pianoforte che avesse solo tre ottave, un pianoforte che nessuno accordava da almeno cinque anni. Da quante ore mi stavo aggirando nelle tenebre? Che ora era nel mondo esterno? Il cielo stava già rischiarando? Avevano già cominciato a distribuire i giornali del mattino?
Guardare l'orologio mi era impossibile. Ci voleva già uno sforzo tremendo per illuminare il terreno e mettere un piede dopo l'altro. Avevo un desiderio struggente di vedere il cielo che schiarisce a poco a poco. Di bere del latte caldo, sentire l'odore degli alberi il mattino, sfogliare le pagine del giornale. Ne avevo abbastanza del buio, delle sanguisughe, delle buche e degli Invisibili. Ogni organo del mio corpo, ogni muscolo, ogni cellula anelava alla luce. Anche la più debole. La più insignificante, la più infima. Ma luce vera, non quella della pila elettrica.
Al pensiero della luce lo stomaco mi si contrasse come se venisse strizzato, e la bocca mi si riempì di un liquido maleodorante. Sembrava l'odore di una pizza al salame andata a male.
- Quando saremo fuori di qui la lascerò vomitare finché vuole, ancora un po' di pazienza, - disse la ragazza stringendomi forte il gomito.
- Non vomito, non vomito, - borbottai.
- Abbia fiducia. Tutto questo passerà. Può darsi che le disgrazie non vengano mai sole, ma prima o poi finiscono. Non possono durare in eterno.
- Certo che ho fiducia, - risposi.
Eppure avevo l'impressione che quelle buche sarebbero continuate in eterno. Che stavamo girando in tondo nello stesso posto. Pensai di nuovo ai giornali del mattino appena usciti. Tanto freschi che l'inchiostro macchiava ancora le dita. Giornali spessi, farciti di fogli pubblicitari. C'era scritto tutto quanto. Qualunque cosa riguardasse la vita sulla faccia della Terra. Dall'ora in cui si svegliava il primo ministro alle quotazioni della Borsa, dal suicidio di un'intera famiglia alle ricette per la cena, la lunghezza dell'orlo delle gonne, la recensione dei dischi, gli annunci immobiliari, tutto.
Il problema era che non ero abbonato al giornale. Erano già tre anni che avevo perso l'abitudine di leggerlo. Non sapevo nemmeno io perché, ma era andata così. Forse perché la mia vita si muoveva in un territorio che non aveva nessuna relazione con i giornali e i programmi televisivi. I miei scambi con la società si limitavano a ricevere dei dati numerici, processarli nella mia mente e restituirli sotto altra forma. Per il resto del tempo me ne stavo da solo a leggere vecchi libri, guardare cassette di vecchi film hollywoodiani, bere birra e whisky. Che bisogno avevo di giornali e riviste?
Eppure nelle tenebre in cui mi trovavo, privato della luce, in mezzo a quelle buche e quelle innumerevoli sanguisughe, mi era venuta una voglia tremenda di aprire un giornale. Di sedermi da qualche parte al sole e leggermelo tutto, dalla prima all'ultima pagina, senza tralasciare nemmeno una riga, come un gatto che lecchi un piatto. E irrigare ogni singola cellula del mio corpo, imbevendomi dei frammenti dell'esistenza che la gente conduce in questo mondo.
- Si vede l'altare! - esclamò la ragazza.
Cercai di guardare in alto, ma i piedi mi scivolavano, non me la sentivo di alzare la faccia. Avrei conosciuto la forma e il colore dell'altare solo quando ci fossi arrivato. Raccogliendo quel che mi restava della mia capacità di concentrazione, continuai ad avanzare con molta cautela.
- Ancora una decina di metri, - mi avvertì lei.
Come in risposta alle sue parole, il risucchio d'aria - il lamento che saliva dalle buche - in quel momento cessò. Un modo innaturale di finire, improvviso, come se qualcuno sul fondo avesse impugnato un'enorme ascia ben affilata e l'avesse tagliato con un colpo netto. Senza nessun preavviso, senza nessuna eco, quel risucchio d'aria rasposo che per tanto tempo era soffiato dalle viscere soffocate della Terra in un istante svanì. Avevo la sensazione che, più che il rumore, l'aria stessa che lo conteneva si fosse dileguata. Era stata una sparizione tanto improvvisa che per un momento persi l'equilibrio, e stavo per inciampare.
Un silenzio tale da far male alle orecchie riempì l'atmosfera. Quando nelle tenebre si crea una calma improvvisa è un presagio più funesto di qualsiasi rumore, anche il più sgradevole e orrendo. Nei confronti del rumore, di tutti i rumori, possiamo assumere un atteggiamento. Ma il silenzio è zero, è nulla. Ci circonda, eppure non esiste. Sentii un vago dolore ai timpani, come quando la pressione atmosferica cambia all'improvviso. Nel tentativo di adattarsi alla nuova situazione, i muscoli delle mie orecchie cercavano di potenziare le proprie capacità per trarre dal silenzio qualche indizio.
Invece il silenzio era perfetto. Il suono era stato tagliato via una volta per tutte, non tornava. Sia io sia la ragazza ci fermammo dove ci trovavamo, tendendo l'udito. Provai a inghiottire la saliva per compensare la pressione sui timpani, ma non servì quasi a nulla: solo un suono esagerato e innaturale, come quando la puntina del giradischi urta contro qualcosa, si ripercosse nella mia testa.
- L'acqua si è ritirata? - chiesi.
- No, sta per sgorgare, - rispose lei. - Il risucchio che si sentiva prima era il rumore dell'aria spinta fuori dal labirinto dei canali dalla pressione dell'acqua. Adesso che l'aria è uscita tutta, non c'è più nulla che faccia ostacolo all'inondazione.
La ragazza mi prese per mano, e insieme superammo le ultime cinque o sei buche. Forse era una mia impressione, ma le sanguisughe che si contorcevano sul suolo sembravano un po' meno. Terminate le buche, di nuovo ci trovammo su un vasto spiazzo. Non si vedevano più nemmeno le sanguisughe. Dovevano essere scappate in direzione opposta alla nostra. Bene o male il peggio era passato. Sempre meglio morire annegato che cadere in una buca piena di quelle bestiacce.
Quasi senza rendermene conto alzai una mano per staccarne qualcuna che mi si era appiccicata alla nuca, ma la ragazza mi prese il braccio e me lo impedì.
- Dopo, - disse trascinandomi a passo veloce per il gomito. - Prima dobbiamo arrivare all'altare, se non vogliamo finire sommersi dall'acqua. Non morirà per cinque o sei sanguisughe, e poi se le strappa via con la forza si scorticherà la pelle. Non lo sa?
- No, - risposi. Mi sentivo ottuso e lento come un'ancora sotto una boa.
Dopo venti o trenta secondi lei mi fece fermare e con la sua grossa pila elettrica illuminò l'enorme torre apparsa davanti ai nostri occhi. Aveva una forma rotonda e liscia, e si innalzava in linea retta verso le tenebre sopra la nostra testa. Dalla base al vertice andava restringendosi leggermente, come un faro. Non capivo quanto fosse alta in realtà, era troppo grande per illuminarla totalmente, né avevamo tempo da perdere in congetture. Dopo aver fatto scorrere rapidamente la luce sulla sua superficie, la ragazza vi si avvicinò di corsa, senza dire nulla, e cominciò ad arrampicarsi sui rudimentali gradini che salivano lungo il fianco. Anch'io naturalmente mi affrettai dietro di lei. Vista da lontano e con un'illuminazione insufficiente, la torre mi era sembrata uno splendido monumento, costruito durante lunghi anni con ammirevole maestria, ma toccandola mi resi conto che si trattava soltanto di una pila di rocce dalla superficie irregolare. Il prodotto di una naturale erosione che si ergeva per caso in quel luogo.
Anche le scanalature che gli Invisibili avevano intagliato a spirale tutt'intorno alla torre erano troppo grossolane per essere definite dei veri gradini. Scoscesi e irregolari, erano tanto stretti che si riusciva a malapena a poggiarvi un piede, e ogni tanto ne mancava uno. In quei casi dovevamo mettere il piede su qualche sporgenza della roccia, e tirarci su aggrappandoci bene con tutte e due le mani in modo da non cadere. Così facendo, però, non potevamo illuminare con la lampada il gradino seguente e ci succedeva spesso di portare avanti un piede senza poi trovare un appoggio. Quelle scanalature erano forse comode per gli Invisibili che vedevano anche nell'oscurità, ma non per noi! Schiacciati contro la roccia come delle lucertole, dovevamo avanzare con estrema precauzione, un passo dopo l'altro.
Dopo trentasei gradini - ho l'abitudine di contarli, quando salgo una scala - nel buio ai nostri piedi si sentì uno strano tonfo. Come se qualcuno avesse lanciato con tutte le forze un gigantesco roastbeef contro un muro. Un rumore che conteneva la sensazione di qualcosa di piatto e bagnato, e in più una determinazione che non accetta rifiuti. Poi ci fu un silenzio provvisorio di un secondo, che assomigliava all'attimo di sospensione nell'aria della bacchetta prima di calare sul tamburo. Uno sgradevole e inquietante attimo di calma. Stava per succedere qualcosa. Mi aggrappai saldamente a quello che avevo sotto le mani, accovacciandomi contro la parete rocciosa.
Subito dopo arrivò il rumore inconfondibile dell'acqua. Non un velo superficiale: era acqua che sgorgava impetuosa dalle innumerevoli buche attraverso le quali ci eravamo fatti strada. Mi tornarono in mente le scene della cerimonia d'inaugurazione di una diga che avevo visto in un notiziario al cinema. Quando il governatore o chi per lui, con il casco regolamentare in testa, aveva schiacciato un pulsante, i portelli si erano aperti e spesse colonne d'acqua accompagnate da spruzzi erano piombate nel vuoto con un boato. All'epoca, al cinema davano ancora il notiziario e un cortometraggio comico. Guardando quel filmato mi ero chiesto cosa sarebbe stato di me se per qualche ragione mi fossi trovato sotto quella diga da cui sgorgavano quei potenti getti d'acqua, e nel mio cuore di bambino avevo provato un grande spavento. Come potevo immaginare che passato un quarto di secolo avrei vissuto realmente quella situazione! I bambini pensano sempre che qualche forza sacra alla fine li tirerà fuori sani e salvi dalle grandi catastrofi che accadono nel mondo. Perlomeno a quell'epoca i bambini erano così.
- Fin dove salirà l'acqua? - chiesi alla ragazza, che si trovava due o tre gradini sopra di me.
- Molto in alto, - rispose lei senza mezzi termini. - Deve arrampicarsi più su che può se vuole salvarsi. Quello che è certo è che in cima saremo fuori pericolo. Non so altro.
- E quanti gradini mancano per arrivare in cima?
- Molti -. Bella risposta. Faceva appello alla mia fantasia.
Continuammo ad arrampicarci sulla torre più in fretta possibile. A giudicare dal rumore, il livello dell'acqua aveva già superato le buche delle sanguisughe, di conseguenza era come se fossimo costretti a salire sempre più in alto su una colonna decorativa costruita al centro di una fontana. Se la ragazza non si sbagliava, quello spazio vuoto grande quanto una piazza sarebbe stato inondato diventando un lago, e nel mezzo di quella distesa liquida sarebbe rimasta solo la metà superiore o la cima della torre, come un'isola.
La lampada che la ragazza portava appesa alla spalla le dondolava irregolarmente all'altezza delle reni, e la luce disegnava nell'oscurità percorsi a caso. Seguendo quella traccia continuavo la mia ascensione. A un certo punto persi il conto dei gradini, dovevano già essere centocinquanta o duecento. Il rumore dello sgocciolio che cadeva dall'alto e colpiva la roccia ai miei piedi a poco a poco era diventato il mormorio di un rivolo che si getti nel bacino di una fontana, poi un sordo gorgoglio. Il livello dell'acqua saliva regolarmente. Non vedendo nulla sotto di me, non sapevo fin dove fosse arrivata, ma non mi sarei stupito di sentire tutt'a un tratto il suo morso gelido intorno alle caviglie.
Sembrava in tutto e per tutto uno di quei brutti sogni che si fanno quando non ci si sente bene. Qualcosa mi inseguiva, mi stava alle calcagna, cercava di afferrarmi le caviglie con le sue mani viscide, ma le mie gambe non avanzavano abbastanza in fretta. Già come sogno sarebbe stato terrificante, figuriamoci nella realtà! Avanzavo piegato in avanti, senza vedere dove mettevo i piedi, aggrappandomi con entrambe le mani alla roccia.
Ma non era preferibile, mi chiesi tutt'a un tratto, lasciarci raggiungere dall'acqua e arrivare fino in cima nuotando? Sarebbe stato molto più facile e non avremmo corso il pericolo di cadere nel vuoto. Esaminai meglio quella possibilità: per essere una mia idea non era affatto male.
Quando la comunicai alla ragazza, però, la risposta fu immediata:
- Impossibile, - dichiarò. - Sotto la superficie ci sono correnti e mulinelli. Se venisse risucchiato lì dentro, altro che nuotare! Non tornerebbe più a galla, e anche supponendo che ci riuscisse, dove andrebbe in questa oscurità?
Non c'era altro da fare che continuare a salire, un piede dopo l'altro. Il rumore dell'acqua che cadeva dall'alto, come un motore che a poco a poco si allontani stava diminuendo, e la sua ripercussione andava trasformandosi in un lamento acuto. Il livello del lago sottostante si innalzava senza sosta. Almeno ci fosse stata una luce vera, mi dicevo. Il minimo barlume. Arrampicarmi su quella torre sarebbe stato più facile, e avrei potuto vedere fin dove era arrivata l'acqua. E sarebbe finito quell'incubo, mi sarebbe passata quella paura di venire afferrato alle caviglie da un momento all'altro. Odiavo le tenebre dal più profondo del cuore! Non era il lago quello che mi stava inseguendo. Era il buio compreso tra la sua superficie e i miei piedi. Mi ispirava un terrore freddo e senza fondo.
Nella mia testa continuavano a girare le scene di quel notiziario. L'enorme diga arcuata sullo schermo seguitava a gettare acqua nel fondo della conca sotto di sé. La telecamera la riprendeva ostinatamente da diversi angoli. Da sopra, da davanti, dai lati, l'obiettivo si avviluppava a quei getti poderosi come se li leccasse. L'ombra dell'acqua si proiettava sulle pareti della diga. Danzava sul cemento bianco e liscio come fosse l'acqua stessa. A forza di guardarla mi sembrava che fosse diventata la mia ombra. La mia ombra danzava sulle pareti di quella diga ricurva. Io ero seduto nel cinema e la guardavo in silenzio. Avevo capito subito che si trattava di lei, ma in quanto spettatore in quella sala non sapevo come comportarmi. Non ero che un debole bambino di nove o dieci anni. Forse dovevo andare sullo schermo a riprendermela, oppure precipitarmi nella cabina di proiezione e impossessarmi del film. Tuttavia non sapevo valutare quale fosse la cosa giusta. Allora restavo fermo a guardare la mia ombra, senza fare niente.
Lei continuava a danzare davanti a me, senza mai fermarsi. Si contorceva in silenzio, con movimenti discontinui, come una scena lontana che oscilli nel riverbero del fuoco. Non poteva parlare, e nemmeno comunicare a gesti. Eppure sembrava proprio che volesse dirmi qualcosa. Sapeva che ero seduto lì e la guardavo. Ma non aveva forze, esattamente come me. Era soltanto un'ombra.
Nessuno degli altri spettatori sembrava essersi accorto che l'ombra dei getti d'acqua proiettata sul muro di cemento in realtà era la mia. Di fianco a me c'era un giovanotto: nemmeno lui vi aveva fatto caso, altrimenti me l'avrebbe detto all'orecchio. Sembrava proprio il tipo di persona che durante la proiezione di un film disturba parlando sottovoce. Da parte mia, non rivelavo a nessuno che quella era la mia ombra. Ero sicuro che nessuno mi avrebbe creduto. E poi era a me, soltanto a me, che lei pareva voler trasmettere un messaggio. Si trovava in un altro luogo e in un altro tempo, e attraverso lo schermo cercava di dirmi qualcosa.
Sul muro arcuato di cemento, la mia ombra era sola, abbandonata da tutti. Non sapevo in che modo fosse finita su quel muro, né cosa avesse intenzione di fare. Ben presto sarebbe stata assorbita dall'oscurità che stava calando. Oppure, trascinata dall'acqua, sarebbe arrivata fino al mare, dove avrebbe forse ricominciato a svolgere il suo ruolo di ombra per me. A quel pensiero fui colto da una grande nostalgia.
A un certo punto le riprese della diga finirono e sullo schermo venne proiettata la cerimonia d'incoronazione del sovrano di non so quale paese. Dei bei cavalli con un pennacchio sulla fronte attraversavano l'acciottolato di una piazza tirando una carrozza. Io cercai sul suolo la mia ombra rinata, ma vidi solo quella dei cavalli, della carrozza e dei palazzi.
La mia fantasia a quel punto si esaurì. Però non sapevo giudicare se tutto ciò mi fosse accaduto davvero o no. Fino a quel momento, infatti, fino a quando all'improvviso quelle immagini non mi erano venute in mente, non mi era mai successo di riviverle come ricordi del passato. Probabilmente erano solo fantasticherie che avevo inseguito ascoltando nel buio il rumore dell'acqua. Una volta avevo letto qualcosa riguardo a questo genere di meccanismi mentali in un libro di psicologia. Diceva che gli esseri umani, quando si trovano in una situazione estrema, senza via di scampo, per sfuggire alla violenza della realtà a volte rivedono nella mente i loro sogni. Le immagini che avevo visto erano però troppo chiare e vivide per essere soltanto dei sogni, avevano una forza che coinvolgeva tutto il mio essere. Avevo risentito chiaramente gli odori e i suoni che allora mi circondavano. E riprovato il senso di smarrimento, la confusione e la paura incontrollabile di cui ero stato preda a nove o dieci anni. Potevano dirmi quello che volevano, ma si trattava di qualcosa che avevo veramente vissuto. Il cui ricordo, in virtù di qualche forza misteriosa, era rimasto acquattato in fondo alla mia coscienza, e quando mi ero trovato in una situazione disperata aveva spezzato l'incantesimo ed era apparso sullo schermo.
In virtù di quale forza?
Doveva essere qualcosa che aveva origine nell'operazione subita per acquisire la capacità di effettuare uno shuffling. Qualcosa che aveva ricacciato i miei ricordi all'interno del muro della mia coscienza. Privandomene per tanto tempo!
A quel pensiero, a poco a poco mi sentii invadere dalla collera. Nessuno aveva il diritto di rubarmi i ricordi. Erano miei, solo miei. Portare via i ricordi a qualcuno era come portargli via degli anni. Più cresceva la mia collera, più dimenticavo la paura. In qualche modo sarei sopravvissuto, mi dissi. Sarei sopravvissuto e sarei venuto fuori da quell'assurdo mondo delle tenebre, e con le buone o con le cattive mi sarei ripreso i miei ricordi. Il mondo poteva finire, non me ne fregava niente. Dovevo ritrovare la mia completezza e ricominciare a vivere.
- Una fune! - gridò la ragazza.
- Una fune?
- Si sbrighi a salire fin qui, c'è una fune che pende!
Mi affrettai a salire di tre o quattro gradini, mi issai di fianco a lei e tastai la superficie della roccia. Era vero, c'era una fune. Una robusta corda da scalata, non troppo spessa, la cui estremità mi arrivava al petto. L'afferrai con una mano, e con molta cautela provai a tirare, facendo forza poco per volta. A giudicare dalla sua resistenza, doveva essere saldamente legata a qualcosa.
- È il nonno! - esclamò la ragazza. - È il nonno che l'ha calata giù per noi!
- Per precauzione, saliamo ancora, - dissi.
Facendo ben attenzione a dove mettevamo i piedi, salimmo di un altro giro. Ritrovammo la fune allo stesso posto. Aveva un nodo su cui far presa con i piedi ogni trenta centimetri. Se veramente portava in cima alla torre, ci avrebbe fatto risparmiare un sacco di tempo.
- È il nonno, è evidente. È il tipo da far attenzione a certi dettagli.
- Non lo metto in dubbio. Sai arrampicarti su una fune?
- Certo! Sono bravissima, fin da quando ero bambina. Non gliel'ho detto?
- Allora vai prima tu, - dissi. - Quando sei in cima fammi un segnale con la lampada che salgo anch'io.
- Ma in questo modo arriverà prima l'acqua. Dobbiamo andare insieme.
- La regola in montagna è una persona alla volta su una corda. C'è il problema della resistenza della corda stessa, e poi salire in due è complicato, ci si mette più tempo. Ad ogni modo, una volta che mi sono aggrappato, anche se arriva l'acqua bene o male riesco a salire.
- Be', è più coraggioso di quanto sembrasse.
Sperando che lei mi baciasse di nuovo, rimasi immobile nel buio in attesa, ma la ragazza senza badare a me cominciò svelta ad arrampicarsi. Tenendomi alla roccia con tutt'e due le mani, rimasi a fissare la luce della sua lampada che si innalzava oscillando a caso. Pareva un'anima ubriaca fradicia che barcollando se ne tornasse come poteva in cielo. Guardandola, mi venne voglia di bere un sorso di whisky. Ma la fiaschetta si trovava nello zaino che portavo sulla schiena; in quella posizione di equilibrio instabile, voltarmi, sfilarmi lo zaino e tirarla fuori non era nemmeno concepibile. Rinunciai, e decisi di immaginare me stesso nell'atto di bere whisky. Un bar pulito e tranquillo, una scodella piena di noci, Vendòme suonata dal Modem Jazz Quartet a basso volume e un doppio whisky con ghiaccio. Il bicchiere è posato sul banco, resto un momento a guardarlo senza toccarlo. Un bicchiere di whisky bisogna prima guardarlo, e quando ci si stanca di guardarlo incominciare a bere. Come con una bella ragazza.
A quel punto della mia fantasticheria, mi ricordai che non avevo più né un completo né un cappotto. Tutti i miei vestiti erano stati lacerati da quei due spostati che avevano fatto irruzione a casa mia. Pazzesco, mi dissi, non avevo niente da mettermi per andare in un bar. Prima dovevo farmi fare dei vestiti adatti. Un completo di tweed blu scuro, decisi. Un bel tweed blu di buona qualità. Con tre bottoni, spalle naturali, di foggia tradizionale, pantaloni senza pince. Come quelli che portava George Peppard agli inizi degli anni Sessanta. Camicia azzurra. Un azzurro intonato, un poco spento. La stoffa doveva essere spessa, inglese, il collo il più tradizionale possibile. La cravatta di due colori, a righe. Rossa e verde. Un rosso scuro, un verde tendente al blu, come un mare in tempesta. Avrei comprato tutte quelle cose in un buon negozio, le avrei indossate, sarei entrato in un bar e avrei ordinato un doppio scotch con ghiaccio. Le sanguisughe, gli Invisibili, i pesci con le unghie potevano agitarsi quanto volevano nel mondo sotterraneo. Io, nel mio vestito di tweed blu, avrei bevuto un whisky venuto dalla Scozia.
Tutt'a un tratto mi resi conto che non si sentiva più il rumore dell'acqua. Forse aveva smesso di uscire dalle buche. Oppure il livello era ormai tanto alto da coprire ogni suono. Non poteva importarmene di meno. Se l'acqua voleva salire, che salisse pure. Avevo deciso che sarei sopravvissuto, qualunque cosa succedesse. E mi sarei ripreso i miei ricordi. Nessuno avrebbe più potuto sbatacchiarmi di qua e di là. Avevo voglia di gridarlo al mondo intero. «Nessuno potrà mai più sbatacchiarmi di qua e di lààà!!! »
Ma a cosa mi sarebbe servito mettermi a gridare nelle tenebre, accovacciato sulla roccia? Rinunciai e alzai la testa a guardare in alto. La ragazza era già arrivata molto più in su di quanto avessi previsto. Non sapevo quanti metri la separassero da me, più o meno tre o quattro piani delle scale di un grande magazzino. Si trovava al settore abbigliamento femminile o al settore stoffe. Ma quanto era alta quella montagna?, mi chiesi disgustato. Ci stavamo arrampicando già da un sacco di tempo, però sembrava che ce ne fosse ancora per molto, la vetta doveva trovarsi a un'altezza vertiginosa. Una volta per curiosità ero salito a piedi in cima a un grattacielo di ventisei piani, e adesso la scalata non mi pareva da meno.
Ad ogni modo era una fortuna che il buio mi impedisse di vedere cosa c'era sotto. Anche una persona abituata all'altitudine, trovandosi precariamente aggrappata alla roccia a una tale quota, senza alcun equipaggiamento e con le scarpe da ginnastica, è meglio che non guardi in basso. Come uno che pulisca i vetri di un grattacielo senza cintura di sicurezza né cabina. Finché si inerpica a caso senza pensare a nulla va tutto bene, ma basta che si fermi un attimo perché incominci ad avere paura del vuoto.
Alzai di nuovo la testa a guardare in su. La ragazza continuava a salire, mi pareva, facendo oscillare la luce a destra e a sinistra, molto più in alto di prima. Aveva ragione, era davvero brava ad arrampicarsi sulla fune. Si trovava a un'altezza considerevole. Un'altezza addirittura stupida. Perché diavolo quel vecchio si era rifugiato lassù? Se ci avesse aspettato tranquillo in un posto più ragionevole e di più facile accesso, ci saremmo risparmiati tutta quella fatica.
Mentre mi distraevo in questi pensieri, mi sembrò di udire una voce sopra di me. Guardando in alto vidi una piccola luce gialla che faceva dei lenti segnali, come i fanali di coda di un aereo. La ragazza bene o male era finalmente arrivata in cima. Afferrai la corda con una mano, con l'altra estrassi di tasca la pila elettrica e la rivolsi verso l'alto per inviare lo stesso segnale. Approfittai dell'occasione per rivolgerla anche verso il basso, per controllare fin dove era arrivata l'acqua, ma il raggio era troppo debole e non riuscii a distinguere nulla. Le tenebre erano tanto fitte che per vedere qualcosa bisognava avvicinarsi molto. Il mio orologio indicava la quattro e dodici minuti. Era ancora notte. I giornali del mattino non erano ancora stati distribuiti. I treni non si muovevano. La gente sulla faccia della Terra dormiva tranquilla, ignara di tutto. Afferrai la corda con entrambe le mani, feci un profondo respiro e cominciai lentamente ad arrampicarmi.