28. La fine del mondo

 

 

 

Strumenti musicali.

 

Il giovane custode della Centrale Elettrica ci fece entrare nella sua casetta. Una volta dentro, controllò che il fuoco fosse acceso nella stufa, poi prese il bollitóre dell'acqua calda, andò in cucina e preparò il tè. Nel bosco faceva un tale freddo che noi due eravamo intirizziti, e non ci pareva vero di bere una tazza di tè caldo. Intanto il rumore del vento continuava a fischiarci nelle orecchie.

- Questo tè lo raccolgo nel bosco, - disse il custode. - Durante l'estate lo faccio seccare all'ombra, e mi basta per tutto l'inverno. È nutriente e riscalda.

- È buonissimo, - disse la ragazza.

Infatti era profumato, e aveva una dolcezza discreta.

- Che tipo di pianta è? - chiesi.

- Mah, il nome non lo so, - rispose il giovane. - Cresce nel bosco. Mi piaceva il profumo e così ho provato a usarla per il tè. È una pianta bassa dal fusto verde che fiorisce in luglio. In quella stagione raccolgo le foglie e le faccio seccare. Alle bestie piace mangiarne i fiori.

- Le bestie vengono fin qui? - chiesi.

- Sì, fino all'inizio dell'autunno. Quando sentono arrivare l'inverno si tengono lontane dal bosco, ma quando fa caldo arrivano a gruppi di quattro o cinque, e giocano con me. Perché io distribuisco loro un po' di cibo. D'inverno però non si avvicinano: pur sapendo che riceverebbero del cibo, non c'è verso. Per questo durante i mesi invernali sono sempre solo.

- Se le fa piacere, - disse la ragazza, - può pranzare con noi.

Abbiamo dei sandwich e della frutta, ma per noi è troppo. Le andrebbe?

- La ringrazio di cuore, - disse il custode. - È da un sacco di tempo che non mangio qualcosa preparato da un'altra persona. Da parte mia ho cucinato dei funghi che ho raccolto in montagna, ne volete?

- Con piacere, - dissi.

Mangiammo i sandwich portati dalla ragazza, i funghi saltati in padella e poi la frutta, sorseggiando il tè. Durante il pranzo non ci parlammo quasi. Il rumore del vento riempiva il silenzio inondando la stanza come acqua trasparente. Mescolandosi al tintinnio delle posate e dei piatti prendeva una risonanza irreale.

- Lei non esce mai dal bosco? - chiesi.

- No, mai, - rispose il custode quietamente, scuotendo la testa. - È la regola. Devo stare sempre qui e occuparmi della Centrale Elettrica. Ma può darsi che un giorno o l'altro venga qualcuno a darmi il cambio. Non so quando sarà, ma allora potrò lasciare il bosco e tornare in città. Fino a quel giorno però è impossibile. Non posso fare nemmeno un passo fuori dal bosco. Posso solo rimanere qui e aspettare il vento che arriva ogni tre giorni.

Feci un cenno di assenso e bevvi quel che restava del mio tè. Il rumore del vento, che non era cominciato da molto, sarebbe continuato ancora per due ore-due ore e mezza. Stando fermo ad ascoltarlo, a poco a poco provai la sensazione che il mio corpo venisse trascinato in quella direzione. Mi immaginai quanto dovesse essere duro restare solo nella Centrale deserta, in mezzo al bosco, a sentire quel rombo.

- A proposito, lei non è venuto soltanto per ispezionare la Centrale Elettrica, vero? - mi chiese il giovane. - Come le ho già detto, in teoria la gente di città non dovrebbe venire fin qui.

- Siamo venuti a cercare degli strumenti musicali, - risposi. - Mi hanno detto che lei ci avrebbe spiegato dove trovarli.

Lui annuì più volte guardando la forchetta e il coltello posati sul piatto.

- È vero, qui qualche strumento musicale c'è. Sono tutti molto vecchi, forse fuori uso, ma se ne trova uno che può ancora servire lo prenda pure. Tanto io non li so suonare. Posso solo stare a guardarli. Vuole che glieli mostri?

- Mi farebbe piacere.

Lui si alzò spostando la sedia, e io feci altrettanto.

- Prego, da questa parte. Li tengo in camera da letto.

- Io resto qui, - fece la ragazza. - Lavo i piatti e faccio il caffè.

Il custode aprì la porta che dava nella camera da letto, accese la luce e mi fece entrare.

- Eccoli qui, - disse.

Lungo la parete della camera da letto erano allineati diversi strumenti musicali. Erano tutti talmente vecchi che li si poteva tranquillamente definire dei pezzi d'antiquariato. La maggior parte erano strumenti a corda: mandolini, chitarre, un violoncello, una piccola arpa. Le corde erano arrugginite, spezzate, oppure mancavano del tutto. Di sicuro era impossibile trovare parti di ricambio in città.

Alcuni di quegli strumenti li vedevo per la prima volta in vita mia. Uno aveva la forma di un asse per lavare di legno, con una fila di aculei di metallo che sembravano delle unghie. Lo presi in mano e provai a suonarlo, ma non ne uscì alcun suono. C'erano dei piccoli tamburi, completi delle loro bacchette, ma come tirar fuori una melodia di lì? Vidi anche un grande strumento a fiato che assomigliava a un fagotto, al quale non sarei mai riuscito a far emettere una nota.

Il custode si sedette sul suo piccolo letto in legno, con il copriletto ben rimboccato e il cuscino in ordine, e mi guardò mentre esaminavo gli strumenti a uno a uno.

- C'è qualcosa che le sembra di poter usare? - disse.

- Mah, non saprei. Sono tutti vecchissimi. Dovrei provare.

Lui si alzò, andò fino alla porta, la chiuse e tornò a sedersi.

Non essendoci finestre, bastava chiudere la porta perché il rumore del vento si attutisse molto.

- Non si chiede perché io tenga questa collezione? - mi chiese. - In questa città nessuno si interessa a questo genere di cose. Nessuno si interessa agli oggetti. Naturalmente tutti hanno quelli necessari per vivere. Pentole, coltelli, lenzuola e vestiti. Ma non occorre loro altro. Solo quello di cui hanno immediato bisogno. A me invece piacciono moltissimo, gli oggetti. Il perché non lo so nemmeno io. Mi affascinano. Gli oggetti belli, dalla forma elaborata. Infatti, a essere veramente sincero, - continuò, una mano sul cuscino, l'altra nella tasca dei pantaloni, - anche questa Centrale Elettrica mi piace. Il meccanismo a ventola, gli strumenti per misurare e variare la pressione... Può darsi che mi abbiano mandato qui perché ho quest'inclinazione naturale. Oppure l'ho sviluppata a forza di vivere da solo. È da tantissimo tempo che sono qui, e ho del tutto dimenticato quel che facevo in precedenza. Per questo a volte mi dico che non tornerò mai più in città. Perlomeno finché avrò quest'inclinazione, la città non mi accetterà.

Io presi in mano un violino al quale restavano solo due corde e provai a pizzicarle con le dita. Si udì uno staccato secco e breve.

- Dove li ha trovati tutti questi strumenti? - chiesi.

- In diversi luoghi. Li ho chiesti all'uomo che mi porta le provviste, e lui li ha trovati per me. Succede che nei ripostigli e nei granai delle vecchie case ne restino ancora, a volte. La maggior parte sono inservibili, vengono usati come legna da ardere, ma qualcuno c'è. Lui li trova e me li porta. Hanno tutti una forma bellissima. Io non so come si suonino, né ho voglia di farlo, ma mi basta guardarli per sentirne la bellezza. Sono elaborati, però senza parti inutili. Mi siedo sempre qui a contemplarli. Mi basta per sentirmi soddisfatto. Pensa che sia una cosa strana?

- No, non c'è nulla di strano, - dissi, - gli strumenti musicali sono in effetti molto belli.

Posai gli occhi su una minuscola fisarmonica incastrata fra un violoncello e un tamburo, e la presi. Era di foggia antica, con dei pulsanti al posto dei tasti. La parte centrale era rigida, indurita, incrinata qua e là, ma a prima vista non sembrava avere strappi da cui potesse fuoriuscire l'aria. Infilai le mani nelle stringhe ai due lati e provai ad aprirla e a chiuderla. Dovevo metterci più forza di quanto avessi pensato, ma azionando i pulsanti nel modo giusto funzionava. Una fisarmonica, purché non perda aria, è uno strumento che presenta pochi problemi, e anche nel caso sia bucata la si può riparare facilmente.

- Posso provare a suonarla? - chiesi.

- Prego, faccia pure. Serve a quello, - disse il giovane.

Aprendo e chiudendo il mantice della fisarmonica, provai a schiacciare l'uno dopo l'altro i pulsanti in basso. Alcuni davano solo un suono molto flebile, altri rispondevano nella maniera che mi attendevo. Rifeci la stessa cosa in senso inverso.

- Che strano rumore, - disse il giovane. - Come se il suono cambiasse colore.

- Perché schiacciando questi pulsanti si producono suoni di lunghezza d'onda diversa. Tutti l'uno diverso dall'altro. E a seconda della lunghezza d'onda, ci sono suoni che si accordano e altri che non si accordano.

- Non capisco bene cosa significhi, «si accordano» e «non si accordano». In che modo «si accordano»? Stanno bene insieme?

- Per l'appunto, - dissi. Schiacciai un accordo a caso. Il risultato non fu meraviglioso, ma nemmeno dissonante. Però non riuscivo a ricordarmi la melodia di qualche canzone. Soltanto degli accordi.

- Quelli sono suoni che stanno bene insieme, vero? - chiese il giovane.

Assentii.

- Però non capisco, - continuò lui spostando lo sguardo dalla mia faccia alla fisarmonica, le mani sulle ginocchia. - Per me è soltanto una risonanza strana. È la prima volta in vita mia che sento una cosa del genere, e non saprei dire che effetto mi fa. È diverso dal rumore del vento, e anche dal canto degli uccelli. Ad ogni modo glielo regalo, quello strumento. Lo tenga pure, se le fa piacere. È meglio se ce l'ha qualcuno che lo sa usare. Cosa me ne faccio io? - Dette quelle parole, il custode tese l'orecchio al rumore del vento. - Vado a vedere ancora una vol- ta il meccanismo. Devo controllarlo ogni trenta minuti. Assicurarmi che la ventola giri come si deve, che gli apparecchi per variare la pressione funzionino senza problemi. Può aspettarmi nell'altra stanza?

Quando il giovane uscì, io tornai nel soggiorno e bevvi il caffè che aveva preparato la ragazza.

- Quello è uno strumento musicale? - chiese lei.

- Uno dei tanti strumenti. Ce ne sono di molti tipi, che producono suoni diversi.

- Si direbbe un mantice.

- Il principio è lo stesso.

- Posso toccarlo?

- Certo, - dissi porgendole la fisarmonica. Lei la prese nelle mani con estrema precauzione, senza staccarne gli occhi, come se si trattasse di un cucciolo appena nato e delicatissimo.

- Che strano oggetto, - disse sorridendo a disagio. - Ad ogni modo uno strumento l'hai trovato, per fortuna. Sei contento?

- Be', valeva la pena di venire fin qui.

- Quel ragazzo è uno che non è riuscito ad abbandonare del tutto la sua ombra. Gliene è rimasto attaccato ancora un pochino, - mi sussurrò. - Per questo sta qui. Non ha più un cuore tanto forte da venir mandato in fondo al bosco, ma non può nemmeno tornare in città. Poverino.

- Pensi che anche tua madre viva nel bosco?

- Può darsi. Ma può anche darsi di no. Non ne sono certa. È un'idea che mi è venuta in mente all'improvviso.

 

Dopo sette o otto minuti il giovane tornò. Io lo ringraziai per la fisarmonica, aprii la sacca, tirai fuori i regali e li posai sul tavolo. Un piccolo orologio da viaggio, un gioco di scacchi, un accendino. Tutte cose che avevo trovato alla biblioteca, nelle valigie.

- Questi sono per ringraziarla. Li accetti, per favore, - dissi.

All'inizio lui protestò, poi finì con l'accettare. Guardò l'orologio, l'accendino, i pezzi degli scacchi a uno a uno.

- Sa come si usano? - gli chiesi.

- No, ma non è necessario, non si preoccupi, - rispose. - Mi basta guardarli, sono bellissimi, e prima o poi troverò anche un modo per usarli. Ho tutto il tempo che voglio.

Dissi che era ora di togliere il disturbo.

- Ha fretta? - chiese lui con aria costernata.

- Devo tornare in città prima che faccia buio, dormire qualche ora e rimettermi al lavoro, - risposi.

- Già, è vero. Capisco. Esco con voi. Vorrei accompagnarvi fino all'uscita del bosco, ma quando lavoro non posso assentarmi.

Ci separammo fuori dalla casetta.

- Torni ancora, per favore. Così mi farà sentire il suono di quello strumento, - disse il giovane. - È sempre il benvenuto.

- La ringrazio.

Man mano che ci allontanavamo dalla Centrale il rumore del vento si indeboliva. Non si sentiva più quando uscimmo dal bosco.