37. Il paese delle meraviglie
Una luce - Introspezione - Abluzioni.
Non so quanto tempo dormii. Qualcuno mi stava scuotendo per la spalla. La prima cosa che sentii fu l'odore del divano. Subito dopo l'irritazione per il fatto che stavano cercando di svegliarmi. Tutti volevano privarmi del mio magnifico, letargico sonno.
Ciononostante, qualcosa nel mio inconscio mi spingeva con urgenza a svegliarmi. Non era il momento di dormire. Dentro di me un grande vaso di ferro stava per colpirmi.
- Svegliati, per favore, svegliati! - stava dicendo la ragazza.
Mi alzai a sedere sul divano e aprii gli occhi. Indossavo un accappatoio arancione. Lei, con una maglietta bianca da uomo addosso, mi stava scuotendo per una spalla. Il suo corpo snello, coperto solo dalla maglietta bianca e da un paio di mutandine bianche, sembrava quello minuto e incerto di una bambina. Che si sarebbe sgretolato e spezzato al primo soffio di vento. Dov'era andata a finire la nostra pantagruelica cena italiana? E il mio orologio? Faceva ancora buio. A meno che i miei occhi non ci vedessero più, non era ancora l'alba.
- Guarda sul tavolo, - disse lei.
Feci come mi diceva. Vidi brillare una sorta di piccolo albero di Natale. Però era qualcosa di diverso. Era troppo piccolo per essere un albero di Natale, e poi eravamo ancora in ottobre. Non poteva essere un albero di Natale. Con le mani aggrappate al colletto dell'accappatoio, contemplai in silenzio la cosa. Era il teschio di unicorno che avevo messo lì io. Anzi no, ce l'aveva messo lei. Non ricordavo bene. Ma non aveva importanza. In ogni caso quello che brillava sopra il tavolo era il teschio di unicorno che avevo portato io. La luce sembrava una macchia sulla cima della scatola cranica.
Piuttosto debole, era formata da tanti punti luminosi che rilucevano sul teschio come stelle in mezzo al cielo. Una luce bianca e morbida. A ogni punto luminoso si sovrapponeva un alone dai contorni sfumati. Il che dava l'impressione che la luce, più che splendere sulla superficie del teschio, affiorasse dolcemente dall'interno. Seduti sul divano, per un po' osservammo senza fiatare quel piccolo lago di punti luminosi. Lei mi stringeva leggermente il braccio con entrambe le mani, io continuavo a tenere le mie aggrappate al colletto. Era notte fonda, e tutt'intorno c'era un profondo silenzio.
- Non sarà mica uno scherzo?
Scossi la testa. Avevo passato una serata con quel teschio, ma non aveva emesso alcun tipo di luce. Se era una sorta di fosforescenza o di schiuma che si manifestava col buio, sarebbe apparsa sempre, non una volta sì e una no. Inoltre prima che ci addormentassimo non l'avevo notata. Né poteva essere uno scherzo. Era un fenomeno eccezionale, che trascendeva l'operato umano. Nessuna forza umana poteva produrre una luce tanto soffice e quieta.
Liberai piano il braccio destro al quale lei si teneva stretta, presi con precauzione il teschio e me lo misi sulle ginocchia.
- Non ti fa paura? - chiese lei sottovoce.
- No, - risposi. Non avevo paura. Probabilmente si trattava di qualcosa che aveva un legame con la mia persona. E nessuno ha paura di se stesso. Posando i palmi delle mani sul teschio, sentii che conservava un poco di calore, simile a quello che lascia una fiamma quando si spegne. Perfino le mie dita sembravano avvolte da quella lieve schiuma luminosa. Chiusi gli occhi, immersi le dita in quel tepore, e allora sentii tanti vecchi ricordi affiorarmi nel cuore come nuvole lontane.
- Non mi sembra un'imitazione, - disse lei. - Dev'essere l'originale. Un vecchio teschio che porta ricordi remoti da un remoto passato...
Io annuii in silenzio. Cosa ne sapevo, però? Cos'era quell'oggetto che emanava luce, quella luce nelle mie mani? Capivo soltanto che cercava di dirmi qualcosa. Lo sentivo. Mi si stava dando un'indicazione. Dal mondo nuovo dove stavo per passare, o da quello vecchio che avrei lasciato dietro di me. Difficile distinguere da quale dei due.
Aprii gli occhi e osservai di nuovo la luce che aveva tinto di bianco le mie dita. Non riuscivo ad afferrarne il significato, ma di una cosa ero certo: non vi leggevo alcun segno di malevolenza o di minaccia. Sembrava completamente adagiata nelle mie mani, del tutto soddisfatta di trovarsi lì. Seguii lievemente con i polpastrelli le tracce di quei punti luminosi. Non avevo nulla da temere, mi dissi. Non avevo ragione alcuna di avere paura di me stesso.
Posai di nuovo il teschio sul tavolo e appoggiai le dita sulle guance della ragazza.
- Sono calde.
- Perché è calda la luce.
- Posso toccarla anch'io?
- Certamente.
Per un po' lei tenne le mani posate sul teschio, a occhi chiusi. Le sue dita, come le mie, vennero coperte dalla spuma di luce bianca.
- Sento qualcosa, - disse. - Non so cosa sia, ma è qualcosa che ho già sentito tanto tempo fa, non so dove. Aria, o luce, o rumore, questo genere di sensazione. Non so spiegarmi bene.
- Nemmeno io, - risposi. - Senti, mi è venuta sete.
- Ti va bene della birra?
- Benissimo.
Lei andò a prendere nel frigo due birre e le portò in soggiorno insieme ai bicchieri. Io raccolsi il mio orologio che era caduto dietro il divano e guardai l'ora. Le quattro e sedici minuti. Entro un'ora e qualcosa avrebbe cominciato a far giorno. Presi il telefono e composi il numero di casa mia. Era la prima volta in assoluto che lo facevo, e ci misi un po' prima di ricordarmelo. Nessuno rispose. Lasciai squillare quindici volte, misi giù e richiamai subito. Altri quindici squilli. Stesso risultato. Non c'era nessuno. Chissà se la ragazza grassa era tornata da suo nonno che l'aspettava in quel sotterraneo... Oppure era stata catturata e portata via dai Semiotici, venuti nel mio appartamento? Ad ogni modo non dubitavo che se la sarebbe cavata benissimo. In qualunque circostanza reagiva sempre dieci volte meglio di me. E dire che aveva la metà dei miei anni. Dopo aver messo giù il telefono, al pensiero che forse non l'avrei vista mai più mi sentii un po' triste. Come uno che guardi portar via i divani e i candelabri da un albergo che sta per cessare l'attività. Le finestre vengono chiuse l'una dopo l'altra, le tende tolte.
Seduti vicini sul divano, restammo a guardare la luce che emanava dal teschio bevendo le nostre birre.
- È per darti una risposta che splende così? - domandò lei.
- Non lo so. Ma credo che tu abbia ragione. Sta rispondendo a qualcosa, anche se non è detto che si tratti di me.
Versai tutta la birra nel bicchiere e la bevvi lentamente. Il mondo prima dell'alba pareva immerso nella quiete di un bosco. Sulla moquette erano sparpagliati gli indumenti che ci eravamo tolti. La mia giacca, la camicia, la cravatta e i pantaloni, il vestito di lei, i collant, la sottoveste. Quella roba per terra, mi dissi, raffigurava perfettamente la conclusione dei miei trentacinque anni di vita.
- Cosa stai guardando? - chiese lei.
- I vestiti, - risposi.
- E perché guardi i vestiti?
- Fino a poco fa erano una parte di me. E i tuoi vestiti erano una parte di te. Ora però non lo sono più. Mi sembrano quelli di altre persone. Non i nostri.
- Forse è perché abbiamo fatto l'amore. Pare che la gente diventi più introspettiva, dopo.
- No, non è questo, - risposi senza posare il bicchiere vuoto. - Non si tratta di introspezione. Semplicemente mi sto accorgendo di tutti i piccoli dettagli di cui è fatto il mondo. Le lumache, le gocce di pioggia, le vetrine dei negozi di ferramenta... mi affascina questo genere di cose.
- Preferisci che raccolga quei vestiti?
- No, lasciali così. Mi sento più tranquillo. Non è necessario che tu metta in ordine.
- Parlami delle lumache.
- Ne ho vista una davanti a una tintoria. Non sapevo che ce ne fossero anche in autunno.
- Ci sono tutto l'anno.
- Già, certo.
- In Europa hanno un significato mitologico. Il guscio è il mondo delle tenebre, e la lumaca che esce dal guscio simboleggia lo sbocco alla luce. Per questo la gente quando vede una lumaca istintivamente batte sul guscio, per farla uscire. L'hai mai fatto?
- No. Quante cose sai, tu, però!
- Lavorando in una biblioteca si finisce per imparare un po' di tutto.
Presi dal tavolo una sigaretta e l'accesi con i fiammiferi che mi avevano dato alla birreria. Poi guardai di nuovo i vestiti sul pavimento. La manica della mia camicia era posata sui collant blu chiaro. Il vestito di velluto era piegato come se stesse facendo una flessione, e la sottoveste sottile giaceva lì accanto come una bandiera afflosciata. La collana e l'orologio di lei erano buttati sul divano. La sua borsa di pelle nera riposava sul fianco, su un tavolino in un angolo della stanza.
I vestiti che si era tolta sembravano più lei di lei stessa. E forse i miei sembravano più me di me stesso.
- Perché hai deciso di lavorare in una biblioteca? - chiesi.
- Perché le biblioteche mi piacciono. Sono quiete, piene di libri e di sapienza. Non volevo lavorare in una banca o in una ditta commerciale, e nemmeno diventare un'insegnante.
Soffiai il fumo della sigaretta verso il soffitto e lo seguii con lo sguardo.
- Vuoi saperne di più, di me? - chiese lei. - Dove sono nata, com'è stata la mia infanzia, quale università ho frequentato, quando ho perso la verginità, che colori mi piacciono...
- No, non adesso. Queste cose me le dirai poco per volta.
- Anch'io ti voglio conoscere a poco a poco.
- Da piccolo abitavo vicino al mare, - dissi. - Ogni volta che passava un tifone, la mattina dopo sulla spiaggia c'era di tutto. Oggetti portati dalle onde. Si trovavano cose che uno non si sarebbe mai immaginato. Bottiglie, geta1, cappelli, foderi di occhiali, perfino tavoli e sedie. Come faceva tutta quella roba ad arrivare sulla spiaggia, non lo sapevo. Però mi piaceva frugare lì dentro, e quando arrivava un tifone ero tutto contento. Probabilmente si trattava di oggetti che erano stati lasciati su qualche altra spiaggia e che le onde avevano portato fin lì.
1 Tradizionali zoccoli di legno con stringhe infradito.
Spensi la sigaretta nel portacenere e posai il bicchiere vuoto sul tavolo.
- Le cose portate dal mare erano tutte stranamente purificate. Si trattava di rottami inutilizzabili, ma puliti. Non c'era un solo oggetto sporco, che non si potesse toccare. Ha qualcosa di speciale il mare. Quando mi volto a guardare la mia vita fino a oggi, mi vengono sempre in mente quei rottami. Perché ho sempre fatto così anch'io. Raccolgo rottami, li pulisco a modo mio e poi li butto da un'altra parte. Non c'è modo di utilizzarli, possono solo marcire lì dove si trovano.
- Però è necessario un certo stile per farlo, no? Per pulirli.
- Sì, ma a cosa serve lo stile? Anche una lumaca ha stile. Non faccio altro che spostarmi da una spiaggia all'altra. Mi ricordo benissimo quello che è successo nel frattempo, ma il fatto di ricordarmene non ha alcun nesso con ciò che io sono in quel momento. Semplicemente me ne ricordo. Tutte cose pulite, ma inutilizzabili.
Lei mi mise una mano sulla spalla, si alzò e andò in cucina. Aprì il frigo, prese la bottiglia di vino, si riempi un bicchiere, poi lo posò su un vassoio insieme a un'altra birra per me e portò tutto in soggiorno.
- Mi piacciono i momenti bui prima dell'alba, - disse. - Sicuramente perché sono puliti e inutilizzabili.
- Però passano subito. Appena fa giorno vengono distribuiti i giornali e il latte, e i treni incominciano a muoversi.
Lei si rannicchiò accanto a me, tirò su la coperta fino al petto e bevve il suo vino. Io mi versai la birra nel bicchiere e di nuovo osservai il teschio sul tavolo, che non aveva perso il suo tenue lucore. Lo proiettava sugli oggetti vicini: la bottiglia, il portacenere, la scatola di fiammiferi. La testa di lei venne a posarsi sulla mia spalla.
- Prima ti guardavo mentre venivi qui dalla cucina, - dissi.
- Che effetto ti ho fatto?
- Hai delle gambe stupende.
- Ti piacciono?
- Molto.
- Vuoi che ti dica una cosa? Adoro sentirmi fare dei complimenti.
Man mano che si faceva giorno il teschio perdeva gradualmente la sua luce, offuscata da quella del sole, finché non tornò al suo stato originario di banali ossa bianche. Abbracciati sul divano, noi guardavamo al di là delle tende il mondo che la luce del mattino veniva a privare delle tenebre. Sentivo sulla spalla l'umidità del fiato caldo di lei, i suoi seni erano piccoli e morbidi.
Quando ebbe finito di bere il suo vino, lei si raggomitolò e si addormentò tranquillamente. La luce del sole illuminava in pieno il tetto della casa vicina, degli uccellini arrivarono nel giardino, poi se ne andarono. Udii la voce dello speaker di un telegiornale, il rumore di una macchina che qualcuno stava mettendo in moto chissà dove. Ero lucidissimo. Non ricordavo quante ore avessi dormito, ma ormai il sonno se n'era andato, e anche i fumi dell'alcol. Scostai piano piano la testa di lei posata sulla mia spalla, mi alzai dal divano, andai in cucina, bevvi parecchi bicchieri d'acqua e fumai una sigaretta. Poi chiusi la porta fra la cucina e il soggiorno e accesi a basso volume la radio portatile sul tavolo. Avrei voluto sentire Bob Dylan, ma purtroppo non trasmettevano sue canzoni, Roger Williams cantava Les feuilles mortes. In fin dei conti eravamo in autunno.
Quella cucina assomigliava molto alla mia. C'erano un lavabo, una ventola, un frigorifero con il congelatore, dei fornelli a gas. La grandezza, la funzionalità, il modo d'uso, la quantità degli utensili, più o meno erano gli stessi. La differenza era che invece del forno a gas ce n'era uno a microonde. E una macchina elettrica per fare il caffè. Parecchi coltelli da cucina erano allineati in funzione dell'uso, ma non erano molto affilati. Sono poche le donne che sanno affilare bene i coltelli. Le pentole erano tutte in pirex utilizzabile nel forno a microonde, le padelle belle pulite. Il cestello della spazzatura nel lavabo era vuoto.
Perché mai mi interessavo tanto alla cucina di un'altra persona? Non me lo sapevo spiegare nemmeno io. Non avevo intenzione di mettermi a fiutare i dettagli della vita di lei, ma gli oggetti che si trovavano nella cucina mi colpivano naturalmente lo sguardo. Quando Les feuilles mortes finì, la Frank Chesterfield Orchestra attaccò Autumn in New York. Nella luce di quella mattina autunnale, guardavo le pentole, i vasi e le bottigliette di condimenti allineati sulle scansie. Quella cucina era il mondo stesso. Come le tragedie di William Shakespeare. Il mondo è in una cucina.
Il pezzo finì. «Siamo in autunno», attaccò una disc-jockey, e si mise a parlare dell'odore dei golf tirati fuori dai cassetti all'inizio della stagione. Disse che in un romanzo di John Updike c'era una bella descrizione di quell'odore. La canzone seguente era Early Autumn, cantata da Woody Herman. La sveglia sul tavolo segnava le sette e venticinque. Le sette e venticinque del mattino del 3 ottobre. Un lunedì. Il cielo era di un azzurro intenso, come se fosse stato scavato fino in fondo da una lama affilata. La giornata si annunciava bella, perfetta per uscire dalla vita.
Misi a scaldare dell'acqua in una pentola, scottai dei pomodori che trovai nel frigo per pelarli più facilmente, poi feci andare in padella delle verdure all'aglio, ci aggiunsi i pomodori schiacciati e dei wurstel. Mentre i wurstel cuocevano, tagliai fini fini del cavolo e dei peperoni per mangiarli in insalata, preparai il caffè con la macchinetta elettrica, spruzzai d'acqua delle fette di pane, le avvolsi nella carta d'alluminio e le misi a tostare nel tostapane. Quando la colazione fu pronta, svegliai la ragazza e tolsi dal tavolo del soggiorno le bottiglie e i bicchieri vuoti.
- Che buon odore!
- Posso rivestirmi? - chiesi. Ho la fissazione che rivestirmi prima della donna porti scalogna. Ma può darsi che sia soltanto una questione di educazione e civiltà.
- Certo, vestiti pure, - rispose lei togliendosi la maglietta. La luce del mattino le metteva un'ombra sui seni e sul ventre, e faceva brillare i suoi peli pubici. Per un po' rimase così com'era a guardarsi.
- Non sono male, - disse alla fine.
- No, niente male, - convenni.
- Non ho grasso superfluo o pieghe sulla pancia, e la mia pelle è ancora elastica. Ancora per un po', - aggiunse appoggiando le mani sul divano e voltandosi verso di me. - Tutto questo però un giorno sparirà. È così, no? Finirà, come un filo che si spezza, e non tornerà più come prima. Non posso fare a meno di provare questa sensazione.
- Be', ora mangiamo, - dissi.
Lei andò nella stanza accanto, si infilò dalla testa una felpa gialla e indossò dei jeans scoloriti e duri. Io mi rimisi i pantaloni e la camicia. Poi ci sedemmo l'uno di fronte all'altra al tavolo della cucina, mangiammo i wurstel e l'insalata con il pane, bevemmo il caffè.
- Sei sempre così, tu? Ti senti subito a casa tua in qualunque cucina? - mi chiese lei.
- Sostanzialmente le cucine sono tutte uguali. Vi si prepara e vi si mangia del cibo. Non ci sono grandi differenze.
- Non ti viene a noia, a volte, vivere da solo?
- Non saprei. Non l'ho mai pensato. Sono stato sposato per cinque anni, ma adesso non ricordo più che tipo di vita facessi. Mi sembra di aver sempre vissuto da solo.
- E non ti vuoi risposare?
- È la stessa cosa. Non ha importanza. Come una cuccia per cani con un'entrata e un'uscita. Che differenza fa da dove si entra e da dove si esce?
Lei rise e si asciugò la bocca con un fazzoletto di carta.
- Sei la prima persona che sento paragonare la vita matrimoniale a una cuccia per cani, - disse.
Quando avemmo finito di fare colazione, io scaldai il caffè che restava nella caffettiera e ne riempii una tazza per uno.
- Era buona, la salsa di pomodoro.
- Ci fosse stato dell'origano sarebbe stata migliore. E non era sufficientemente amalgamata.
- A me è piaciuta. Era da molto che non facevo una colazione preparata con tanta cura. E il tuo programma per la giornata qual è?
Guardai l'orologio. Le otto e mezza.
- Alle nove usciamo, - dissi. - Andiamo in un parco, prendiamo il sole insieme e ci beviamo una birra. Poi alle dieci e mezza ti accompagno in macchina dove vuoi tu, e lì ci salutiamo. Tu come pensi di impiegare il tuo tempo?
- Torno a casa, faccio il bucato, un po' di pulizia, poi mi metto a pensare a quando abbiamo fatto l'amore. Niente male come programma, vero?
- No, niente male -. Proprio così, non era affatto un programma disprezzabile.
- Non credere però che io vada subito a letto con chiunque.
- Questo lo so, - dissi.
Mentre io lavavo i piatti nel lavabo, lei si fece una doccia, e intanto cantava una canzone. Pulii bene piatti e pentole con un detersivo vegetale che non faceva quasi schiuma, li asciugai con uno strofinaccio e li misi sul tavolo. Poi mi lavai le mani, presi in prestito lo spazzolino che trovai in cucina e mi lavai i denti. Andai in bagno e le chiesi se non avesse un rasoio.
- Apri la scansia in alto a destra, dev'esserci quello che usava mio marito.
Nella scansia trovai infatti della schiuma da barba Gillette e un bel rasoio. Il flacone era pieno a metà, e sulla capsula era rimasta attaccata della spuma bianca secca. Morire significa lasciare un flacone di schiuma da barba metà pieno.
- Hai trovato? - chiese lei.
- Sì, - dissi. Tornai in cucina con il flacone, il rasoio e un asciugamano pulito, scaldai dell'acqua e mi feci la barba. Una volta finito, lavai bene rasoio e lametta. I peli miei e quelli del morto si mischiarono nel lavabo, vennero inghiottiti nel buco.
In attesa che lei si vestisse, mi sedetti sul divano del soggiorno a leggere il giornale del mattino. Un tassista aveva avuto un infarto, era andato a sbattere contro il pilastro di un ponte ed era morto. Le passeggere, una donna di trentadue anni e una bambina di quattro, avevano riportato gravi ferite. Da qualche parte in una mensa municipale avevano servito vongole fritte avariate causando due morti. Il ministro degli Esteri aveva espresso insoddisfazione nei riguardi del tasso di interesse delle banche americane, l'associazione dei banchieri americani stava studiando la questione del tasso sui prestiti ai paesi dell'America Centrale, il presidente del Perù aveva criticato la politica economica americana nei confronti del Sudamerica, il ministro degli Esteri della Germania Federale domandava un migliore equilibrio negli scambi commerciali con il Giappone. La Siria criticava Israele, Israele criticava la Siria. C'era un commento su un ragazzo di diciott'anni che aveva preso a botte il padre. Insomma, sul giornale non trovai nulla che potesse tornarmi utile nelle ultime ore della mia vita.
In piedi davanti allo specchio, in un paio di pantaloni di cotone beige e una camicetta sportiva a quadri marrone, lei si stava spazzolando i capelli. Io mi misi la cravatta e la giacca.
- Cosa vuoi fare di quel teschio di unicorno? - mi chiese.
- Te lo regalo, - dissi. - Mettilo in mostra da qualche parte.
- Sopra il televisore ti pare che vada bene?
Presi il teschio che non emanava più luce e andai a metterlo sul televisore in un angolo della stanza.
- Come sta? - mi chiese lei.
- Niente male, - risposi.
- Pensi che si illuminerà ancora?
- Di sicuro, - le dissi. Poi l'abbracciai di nuovo, cercando di imprimermi bene nella mente la sensazione del suo calore.