18. La fine del mondo

 

 

 

Lettura dei sogni.

 

Pur conservando le idee confuse riguardo al mio cuore, mi rimisi al lavoro di Lettore di Sogni. L'inverno avanzava, e non potevo rimandare oltre il momento di riprendere. Concentrandomi nella lettura, perlomeno dimenticavo temporaneamente il senso di perdita che mi portavo dentro.

Più sogni leggevo, però, più cresceva in me una sensazione di impotenza di natura diversa. Per quanto mi sforzassi, non capivo quale messaggio avrebbero dovuto trasmettermi. Riuscivo a decifrarli, ma non a interpretarli. Era come recitare giorno dopo giorno delle frasi di cui non coglievo il significato. Come guardare l'acqua del fiume scorrere via. Non arrivavo a nessun risultato. Anche perfezionare la tecnica di lettura non mi era servito a nulla. Avevo aumentato il numero dei sogni che riuscivo a leggere, ma l'inanità di continuare in quell'impresa era cresciuta in proporzione. Normalmente una persona, quando vuole ottenere un progresso, è in grado di compiere lo sforzo necessario, ma io no, non avanzavo in nessuna direzione.

- Non capisco proprio che significato possa avere tutto questo, - mi sfogai con la ragazza. - Una volta mi hai detto che leggere i vecchi sogni nei teschi era il mio compito. Ma è un'azione che passa soltanto attraverso il mio corpo. Non riesco a comprenderne nemmeno uno di quei sogni, anzi, più ne leggo più mi sento logorato.

- Dici così, però continui come se fossi sotto l'influsso di qualche incantesimo. Mi chiedo perché.

- Non lo so, - risposi scuotendo la testa. Era vero che mi concentravo nel lavoro per soffocare il senso di perdita, però mi rendevo conto io stesso che questo non poteva essere il solo motivo. Aveva ragione lei, sprofondavo nella lettura di quei sogni come stregato da qualcosa.

- Mi domando se non sia un problema tuo, - aggiunse la ragazza.

- Un problema mio?

- Penso che tu debba aprire di più il tuo cuore. Io non ci capisco granché, in fatto di cuore, ma ho l'impressione che il tuo sia ostinatamente chiuso. I vecchi sogni chiedono di essere letti da te, quindi tu dovresti cercare di comunicare con loro.

- Perché pensi così?

- Perché leggere i vecchi sogni significa proprio questo. Come gli uccelli se ne vanno a sud o a nord quando viene la stagione di farlo, il Lettore di Sogni deve continuare a leggere i sogni.

La ragazza protese la mano attraverso il tavolo e la posò sulla mia. Poi sorrise. Il suo sorriso mi sembrò una tenera luce primaverile che filtrasse attraverso le nuvole.

- Apri di più il tuo cuore, non sei prigioniero. Sei un uccello che vola nel cielo alla ricerca di sogni.

 

In conclusione, non potevo far altro che prendere fra le mani l'uno dopo l'altro i vecchi sogni e dedicarmici con attenzione. Sceglievo un teschio fra quelli che stavano allineati a perdita d'occhio sugli scaffali e lo portavo con cautela sul tavolo. Facendomi aiutare dalla ragazza, lo strofinavo con un panno appena inumidito per ripulirlo dalla polvere e dalla sporcizia, poi lo lucidavo bene, senza fretta, con un panno asciutto. Una volta terminata quest'operazione, la superficie era diventata bianca come neve appena caduta. In certe condizioni di luce le due orbite vuote sembravano due pozzi di cui non si vedeva il fondo.

Coprivo con le mani la calotta superiore del teschio e aspettavo che per reazione alla temperatura del mio corpo cominciasse a emettere calore. Quando il calore raggiungeva una determinata intensità - non molto forte, il tepore di una macchia di sole invernale - il teschio, bello bianco e pulito, cominciava a raccontarmi il sogno che conteneva. Io chiudevo gli occhi, inspiravo profondamente, aprivo il mio cuore e con la punta delle dita cercavo il sogno che mi veniva raccontato. La sua voce però era troppo flebile, e le immagini che emetteva erano bianche e sfocate come lontane stelle nel cielo serale. Tutto ciò che riuscivo a leggere lì dentro erano frammenti poco chiari, e per quanto cercassi di metterli insieme, non riuscivo a coglierne l'immagine globale.

C'erano in quei teschi paesaggi che non avevo mai visto, risuonavano musiche che non avevo mai sentito, venivano sussurrate parole che non capivo. Tutte sensazioni che affioravano di colpo, e altrettanto improvvisamente sprofondavano di nuovo nelle tenebre. Tra un frammento e l'altro non c'era alcun tipo di nesso. Era come far ruotare la manopola di una radio a tutta velocità da una stazione emittente all'altra. Cercavo con tutto me stesso di concentrare l'attenzione sulle mie dita, ma per quanto mi sforzassi il risultato non variava. Mi rendevo conto che i vecchi sogni cercavano di raccontarmi qualcosa, ma io non riuscivo a percepirlo come racconto.

Poteva darsi che il mio modo di leggere fosse sbagliato. Oppure che le loro parole, logorate dagli anni, si fossero erose. O magari tra la loro idea di racconto e la mia c'era una differenza incolmabile di tempo e di contesto.

Ad ogni modo, tutto quello che potevo fare era osservare in silenzio i frammenti di natura diversa che affioravano per poi risprofondare. Ovviamente ce n'erano alcuni che mi apparivano normali, familiari. Erba verde che ondeggiava al vento, nuvole bianche che vagavano nel cielo, raggi di sole che si muovevano sull'acqua... scene del genere, del tutto abituali. Che però, pur non avendo nulla di speciale, mi riempivano il cuore di una strana, ineffabile malinconia. Quali elementi in grado di provocare una tale malinconia quelle visioni contenessero, era al di là della mia comprensione. Come navi che vedessi passare fuori dalla finestra, apparivano e sparivano senza lasciare tracce.

Quando l'operazione era durata a sufficienza, i vecchi sogni a poco a poco cominciavano a perdere il loro calore, come la marea che si ritira, e tornavano a essere dei semplici teschi, bianchi e freddi. Ritornavano al loro lungo sonno. E dalle mie dita trasudava acqua che gocciolava al suolo. La mia attività di Lettore di Sogni non era altro che il ripetersi di quest'atto che non dava risultati.

Appena i teschi ritrovavano la temperatura normale, li passavo alla ragazza, che andava a metterli sul bancone. Nel frattempo io mi riposavo e mi rilassavo, le mani sul tavolo. In un giorno riuscivo a leggere cinque o sei vecchi sogni. Se cercavo di aumentarne il numero la mia capacità di concentrazione si indeboliva, le mie dita percepivano soltanto un vago sussurro. Quando l'orologio nella stanza segnava più o meno le undici, ero già stanco morto. Tanto che per un po' non riuscivo nemmeno ad alzarmi dalla sedia.

Alla fine la ragazza mi preparava sempre un caffè caldo. Succedeva anche che portasse da casa un pasto leggero, un dolce o una focaccia alla frutta che aveva preparato durante la giornata. Di solito bevevamo e mangiavamo senza quasi scambiarci una parola, l'uno di fronte all'altra. Per la stanchezza io non riuscivo a parlare, e lei rendendosene conto restava in silenzio.

- Forse è colpa mia, se non riesci ad aprire il tuo cuore, - mi disse una volta. - Si è chiuso perché io non posso ricambiare quello che senti per me.

Stavamo seduti come facevamo spesso sui gradini che dal Ponte Vecchio portavano alla riva del fiume, e guardavamo la corrente. Una luna bianca e fredda, simile a un coccio, ondeggiava sull'acqua. Una sottile barca di legno, che qualcuno aveva legato a un palo sulla sponda, alterava leggermente lo sciabordio. Poiché eravamo seduti l'uno accanto all'altra sullo stretto gradino, potevo sentire contro la spalla il calore del corpo di lei. «Che strano, - pensai, - la gente paragona il cuore al calore. Però non c'è relazione alcuna tra il calore del cuore e quello del corpo».

- Ti sbagli, - le risposi. - Se il mio cuore resta chiuso, credo dipenda da me. Non è colpa tua. Io stesso non sono più tanto sicuro dei miei sentimenti, e sono confuso.

- Anche tu non riesci a capire bene cosa sia, il cuore?

- Ogni tanto mi succede, - dissi. - Ci sono volte in cui riesco a capirlo solo dopo che è passato molto tempo, altre volte è troppo tardi. Nella maggior parte dei casi siamo costretti a prendere delle decisioni e ad agire quando non siamo ancora sicuri dei nostri sentimenti, il che disorienta noi stessi e gli altri.

- A me sembra una cosa del tutto imperfetta, il cuore, - disse lei sorridendo.

Tirai fuori le mani dalle tasche e le guardai alla luce della luna. Imbiancate dal chiarore lunare sembravano statue proporzionate a un mondo in miniatura, che avessero perso la loro destinazione.

- Lo penso anch'io, - dissi. - È una cosa estremamente imperfetta. Però lascia delle tracce. E noi possiamo ritrovarle, seguirle. Come si seguono le impronte lasciate sulla neve.

- E portano da qualche parte, quelle tracce?

- A noi stessi, - risposi. - Così funziona il cuore. Se non ci fosse il cuore, si vagherebbe senza fine.

Alzai lo sguardo verso la luna invernale. Galleggiava nel cielo sopra la città circondata dall'altissima muraglia, diffondendo una luce esageratamente chiara.

- Tu non hai colpa di niente, - ripetei.