19. Il paese delle meraviglie
Due hamburger - Una Skyline - La scadenza.
Prima di tutto decidemmo di fare uno spuntino da qualche parte. Io non avevo affatto appetito, ma il pasto seguente chissà quando sarebbe stato: mi conveniva mettere qualcosa nello stomaco. Una birra e un hamburger sarei forse riuscito a mandarli giù. La ragazza disse che a mezzogiorno aveva mangiato soltanto una tavoletta di cioccolato - i pochi spiccioli che aveva le erano bastati appena per comprare quella - e aveva una fame tremenda.
Infilai i jeans facendo molta attenzione a non toccare la ferita, indossai una maglietta, una camicia sportiva e un golf leggero. Per precauzione presi dall'armadio anche una giacca a vento di nylon. La ragazza non era certo abbigliata nella maniera giusta per una spedizione di speleologia, col suo tailleur rosa, ma per disgrazia nel mio guardaroba non c'erano camicie o pantaloni che potessero contenere la sua mole. Doveva pesare una decina di chili più di me, che ero alto una decina di centimetri più di lei. In realtà la cosa più semplice sarebbe stata recarsi in un negozio qualunque e comprare dei vestiti che le permettessero di muoversi agevolmente, ma dove trovarne uno aperto a quell'ora di notte? Le diedi un vecchio giubbotto militare di panno spesso, che avevo comprato per pochi soldi e che per miracolo le andava bene. Il problema erano i tacchi alti, ma lei mi spiegò che in ufficio aveva delle scarpe da jogging e degli stivali di gomma.
- Scarpe da ginnastica rosa e stivali rosa, - precisò.
- Ti piace il rosa, vedo.
- Piace a mio nonno. Dice che mi sta molto bene.
- È vero, ti dona, - convenni. Non era una bugia, le donava davvero. Le ragazze grasse, quando si vestono di rosa, spesso assumono il vago aspetto di enormi torte alla fragola, ma a lei per chissà quale ragione quel colore si addiceva.
- Tuo nonno pensa anche che le ragazze devono essere belle cicciottelle, vero? - chiesi per confermare quello che sapevo già.
- Sì, certo, - rispose lei. - Infatti io mi sforzo di restare grassa. Appena mangio un po' meno dimagrisco subito, così cerco sempre di rimpinzarmi di burro, di crema, quelle cose lì...
- Mmh... - feci.
Aprii l'armadio a muro, presi uno zaino, controllai che non fosse lacerato e ci ficcai dentro le nostre giacche, una lampada tascabile, un magnete, dei guanti, un asciugamano, un grande coltello, un accendino, una corda e del combustibile solido. Poi andai in cucina, e dal cibo sparpagliato al suolo presi due panini, una scatola di combeef, delle pesche, delle salsicce, delle lattine di succo di pompelmo, e misi tutto nello zaino. Riempii d'acqua la borraccia. Quindi infilai nelle tasche dei pantaloni tutto il denaro che avevo in casa.
- Mi sembra di andare a fare un picnic, - disse lei.
- Sì, proprio, - risposi.
Prima di uscire contemplai ancora una volta il mio appartamento ridotto a una discarica di immondizie allo stato grezzo. La vita si comportava sempre allo stesso modo. Per costruire qualcosa ci voleva un sacco di tempo, ma per distruggerlo bastava un attimo. In quel piccolo appartamento di tre stanze c'era tutta la mia esistenza, a suo modo anche soddisfacente, benché a volte ne fossi un po' stanco. Nel tempo che ci vuole a bere due lattine di birra, si era dileguata come foschia mattutina. Il mio lavoro, il mio whisky, la mia pace, la mia indipendenza, la mia collezione di Somerset Maugham e di John Ford, tutto era ormai un ammasso di rottami privo di senso.
The splendor of the fields, the glory of the flowers, recitai mentalmente. Poi protesi la mano e abbassai l'interruttore che si trovava nell'ingresso, spegnendo così tutte le luci in casa.
Avevo troppo male alla ferita ed ero troppo stanco per poter riflettere seriamente sulla vicenda, decisi di non pensare a nulla. Sempre meglio che mettere insieme idee raffazzonate. Insieme alla ragazza entrai maestosamente nell'ascensore, scesi nel garage sotterraneo, aprii la portiera della mia macchina e buttai tutto l'armamentario sul sedile posteriore. Se c'era qualcuno di guardia, che ci vedesse pure, che ci seguisse pure, non poteva importarmene di meno. Ormai me ne infischiavo sovranamente. Punto primo: chi avrei dovuto avvertire? I Semiotici, il Sistema, i due del coltello? La cosa più furba sarebbe stata manovrare con destrezza tenendomi buone tutte e tre le parti, ma era al di sopra delle mie forze. Oltre ad avere un taglio di sei centimetri nella pancia, e un disperato bisogno di dormire, dovevo affrontare gli Invisibili nelle tenebre di un sotterraneo trascinandomi dietro una ragazza grassa: ce n'era più che abbastanza. Se gli altri volevano agire, si accomodassero pure.
Chiesi alla ragazza se poteva guidare, avrei evitato volentieri di farlo io. Mi rispose che non era capace.
- Mi dispiace. So andare a cavallo, però... - disse.
- Non fa niente, può darsi che prima o poi torni utile anche saper cavalcare.
Controllai l'indicatore del serbatoio, era quasi pieno. Uscii dal garage, percorsi le stradina tortuosa che attraversava il quartiere e sbucai su una grande arteria. Nonostante l'ora tarda, il traffico era sostenuto. Circa la metà delle vetture erano taxi, e c'erano molti camion. Non capivo che bisogno avesse tutta quella gente di andarsene in giro in macchina in piena notte. Perché non se ne tornavano a casa alle sei, quando finivano di lavorare? Perché non se ne andavano a letto prima delle dieci, non spegnevano la luce e non si addormentavano?
Ad ogni modo erano fatti loro. Potevo pensare quello che volevo, il mondo non avrebbe cambiato le sue abitudini. Poco importava la mia opinione, gli arabi avrebbero continuato a estrarre il petrolio, la gente a trasformarlo in elettricità e benzina e a inseguire i propri desideri la notte nelle città. E poi avevo altre gatte da pelare adesso, con tutti i problemi che dovevo affrontare e risolvere!
Posai le mani sul volante e feci un grande sbadiglio, aspettando che il semaforo diventasse verde.
Davanti a me c'era un grosso camion, il cui furgone era carico fino al tetto di fasci di carta. Alla mia destra, su una Skyline sportiva bianca, una giovane coppia. Non sapevo se andassero a divertirsi o tornassero a casa, ma entrambi avevano un'espressione piuttosto annoiata. La ragazza lasciava pendere fuori dal finestrino la mano sinistra, due braccialetti d'argento al polso. Mi lanciò una breve occhiata. Non che le interessassi io, semplicemente non aveva nient'altro da guardare. Un'insegna dei ristoranti Denny's, un cartello stradale o la mia faccia per lei era del tutto indifferente. Anch'io le gettai un'occhiata. Era abbastanza bella, ma molto comune. Il tipo di ragazza che in un serial televisivo fa la parte dell'amica della protagonista, quella che va a bere qualcosa con lei al bar e le chiede: «Cosa ti succede? Non mi sembri molto in forma, di questi tempi». Fa solo una breve apparizione e appena scompare dallo schermo nessuno si ricorda più che faccia avesse. Quando il semaforo diventò verde, mentre il camion si metteva faticosamente in moto, la Skyline bianca scomparve dal mio campo visivo con un forte rumore di marmitta, portandosi dietro la musica dei Duran Duran che proveniva dallo stereo.
- Senti, tieni d'occhio le macchine dietro di noi, - dissi alla ragazza grassa. - Se ce n'è una che ci segue dimmelo.
Lei annuì e si voltò a guardare indietro.
- Pensa che qualcuno lo farà?
- Non lo so. Ma la prudenza non è mai troppa. Ti va bene un hamburger? Così non perdiamo tempo.
- Mi va bene qualsiasi cosa.
Fermai la macchina davanti al primo drive-in-burger che mi capitò sotto gli occhi. Arrivò una ragazza con un minivestito rosso, appoggiò il vassoio al finestrino e prese le ordinazioni.
- Un doppio cheese-burger con patate fritte e una cioccolata calda, - disse la ragazza grassa.
- Un hamburger normale e una birra, - aggiunsi io.
- Mi spiace, ma non vendiamo alcolici, - disse la cameriera.
- Allora un hamburger normale e una Coca-Cola -. Perché mi ero immaginato che in un drive-in vendessero birra?
Mentre aspettavamo che ci portassero quanto ordinato, controllammo se qualche auto veniva a mettersi dietro la nostra, ma non ne arrivò nessuna. Se qualcuno ci stava davvero seguendo, d'altronde, non sarebbe mai entrato nello stesso parcheggio. Si sarebbe acquattato in un angolo che non dava nell'occhio e avrebbe aspettato che uscissimo. Smisi di guardarmi intorno e buttai giù macchinalmente l'hamburger, le patatine chips, la foglia d'insalata grande quanto un biglietto dell'autostrada e la Coca-Cola che mi avevano portato. La ragazza grassa masticò lentamente, con cura, con amore, il suo cheese-burger, mangiando una patata fritta ogni tanto, sorseggiando la sua cioccolata.
- Perché non prende qualche patata? - mi chiese.
- No, grazie.
Quando ebbe ripulito completamente il piatto, bevve in un sorso quel che restava della cioccolata, leccò il ketchup e la mostarda che aveva sulle dita, si strofinò le mani e la bocca con un fazzoletto di carta. Lo spuntino le era davvero piaciuto, a quanto pareva.
- Allora, veniamo a tuo nonno, - le dissi. - Prima di tutto credo che dovremmo andare a cercarlo nel suo laboratorio sottoterra.
- Infatti. Può darsi che lì troviamo qualche indizio. L'aiuto anch'io.
- Come facciamo però a passare vicino al covo degli Invisibili? Avranno distrutto tutti i sistemi di difesa.
- Niente paura. C'è un piccolo apparecchio d'emergenza per tenerli lontani. Non è molto potente, ma tenendolo in mano quando si cammina si riesce a scacciare gli Invisibili dalle immediate vicinanze.
- Allora non ci sono problemi, - dissi rassicurato.
- Be', non è poi così tanto semplice. L'apparecchio d'emergenza ha una batteria con una trentina di minuti di autonomia, dopo trenta minuti si spegne e bisogna ricaricarla.
- Mmh... - feci. - E per ricaricarlo quanti minuti ci vogliono?
- Quindici. Trenta minuti di attività, quindici di riposo. Comunque mezz'ora è più che sufficiente per andare e venire tra l'ufficio e il laboratorio, per questo l'apparecchio è stato progettato con una capacità limitata.
Rinunciai a fare commenti. Dovevo accontentarmi di quello che c'era, sempre meglio di niente. Uscii dal parcheggio e strada facendo mi fermai a un supermercato aperto tutta la notte a comprare due lattine di birra e una fiaschetta tascabile di whisky. Prima di rimettere in moto bevvi le due birre e un quarto del whisky. Mi sentivo un po' meglio. Chiusi bene la fiaschetta e la passai alla ragazza dicendole di metterla nello zaino.
- Perché beve tanto? - chiese lei.
- Forse perché ho paura, - risposi.
- Anch'io ho paura però non bevo.
- La tua paura e la mia sono di due generi diversi.
- Non capisco.
- Col passare degli anni aumentano le cose che non riusciamo più ad aggiustare, - dissi.
- Ci si stanca?
- Sì, ci si stanca.
Lei tese una mano verso di me e mi toccò il lobo dell'orecchio.
- Stia tranquillo, io le starò sempre vicino, non si preoccupi, - disse.
- Grazie, - risposi.
Posteggiai la macchina nel parcheggio del palazzo dove si trovava l'ufficio di suo nonno, scesi e mi misi lo zaino sulla schiena. La ferita mi procurava fitte lancinanti, avevo l'impressione che un carro di fieno ci passasse lentamente sopra. È soltanto un dolore, cercai di pensare per farmi coraggio. Soltanto un dolore superficiale, senza alcuna relazione con la mia vera natura. Come la pioggia che cade. Passerà. Raccolsi quel poco di autorispetto che mi restava, scacciai dalla mente il pensiero della ferita e mi affrettai dietro la ragazza.
Davanti all'ingresso del palazzo c'era di guardia un giovanotto grande e grosso che le chiese di mostrargli la tessera di residente. Lei estrasse dalla tasca un tesserino di plastica e glielo porse. Il guardiano lo introdusse nell'apposita fessura del computer posto sulla scrivania, controllò il nome e il numero d'appartamento che comparvero sullo schermo, poi premette un pulsante e aprì la porta.
- È un palazzo molto particolare, - mi spiegò lei attraversando in diagonale la grande hall. - Tutte le persone che entrano qui hanno qualche segreto, per proteggere il quale sono state predisposte misure di sicurezza straordinarie. C'è chi fa ricerche importantissime, chi ha incontri segreti, gente così. Come ha visto, all'ingresso c'è un controllo, e una telecamera verifica che una volta entrate le persone vadano davvero dove hanno detto. Se qualcuno ci ha seguiti, stia tranquillo che non lo faranno entrare.
- E nel palazzo sono al corrente del fatto che tuo nonno qui dentro ha edificato una caverna sotterranea?
- Mah, non ne ho idea. Probabilmente no. Il nonno, quando hanno costruito il palazzo, si è fatto progettare un passaggio speciale in modo da poter scendere direttamente dall'ufficio nei sotterranei, ma devono essere in pochi a saperlo. Forse solo il proprietario dell'immobile e l'architetto. Agli operai che hanno eseguito i lavori hanno detto che si trattava della rete idrica, e sono riusciti a infinocchiare anche i tecnici dell'ufficio topografico.
- Ci saranno voluti un sacco di soldi.
- Sì. Il nonno però di soldi ne ha quanti ne vuole. Anch'io. Anch'io sono molto ricca. Ho l'eredità dei miei genitori e il denaro che ho ricevuto dall'assicurazione, che in Borsa è cresciuto.
La ragazza tirò fuori di tasca una chiave e aprì la porta dell'ascensore. Entrammo in quella strana scatola esageratamente grande.
- Tu giochi in Borsa? - chiesi.
- Sì, il nonno mi ha spiegato come si fa. In che modo selezionare le informazioni, leggere i dati del mercato, eludere le tasse, inviare capitali alle banche estere, tutto. È divertente, la Borsa. Ci ha mai provato?
- No, purtroppo, - dissi. Non avevo mai nemmeno investito denaro in un deposito amministrato.
- Prima di diventare uno scienziato il nonno era un operatore di Borsa, ma siccome aveva già accumulato troppi soldi ha smesso e ha cambiato mestiere. Pazzesco, non crede?
- Pazzesco, - convenni.
- Qualunque cosa faccia, è sempre il più bravo, il nonno.
Come la volta precedente, l'ascensore si muoveva con una lentezza tale che non si capiva se salissimo o scendessimo. Di nuovo impiegò secoli, e al pensiero che nel frattempo venivo controllato da una telecamera, non mi sentivo affatto a mio agio.
- Il nonno dice che per diventare i più bravi l'istruzione che si riceve a scuola non serve a niente. Lei cosa ne pensa? - mi chiese la ragazza.
- Sì, può darsi, - risposi. - Probabilmente ha ragione. Io sono andato a scuola per sedici anni e non mi è servito granché. Non parlo lingue straniere, non so suonare uno strumento, non conosco la Borsa e non so montare a cavallo.
- Allora perché non ha lasciato la scuola? Poteva, se voleva.
- Be', questo... - dissi. Ci riflettei un po' su. Sì, era vero, se avessi voluto smettere avrei potuto. - All'epoca questo pensiero non mi ha nemmeno sfiorato. La mia famiglia, contrariamente alla tua, era del tutto normale, ordinaria, nessuno aspirava a primati in qualche campo.
- È uno sbaglio. Chiunque ha le qualità per eccellere almeno in una cosa. Semplicemente non riesce a tirarle fuori. Perché nelle mani di persone che non capiscono nulla finisce col distruggerle, queste qualità. Per questo la maggior parte delle persone non ottiene granché.
- Come me, insomma.
- No, lei è diverso. Lei ha qualcosa di speciale, ne sono convinta. La sua scorza emotiva è molto dura, quindi dentro di sé ha conservato intatte molte cose.
- La mia scorza emotiva?
- Esatto. Di conseguenza non è troppo tardi, sa? Senta, quando questa storia sarà finita, perché non andiamo a vivere insieme? Non le sto chiedendo di sposarmi o nulla del genere. Semplicemente di vivere con me. Potremmo viaggiare in Grecia, in Romania, in Finlandia, in tutti quei bei posti tranquilli... andare a cavallo, cantare canzoni... vivremmo così. Di soldi io ne ho quanti ne voglio, e nel frattempo lei avrebbe la possibilità di trasformarsi, di diventare davvero una persona di prima qualità.
- Mmh... - dissi. Niente male, come proposta. La mia attività di Cibermatico, a causa di quella faccenda, stava entrando in una fase pericolosa, e la prospettiva di vivere tranquillo all'estero era seducente. Però non ero affatto convinto che sarei diventato una persona di prima qualità. Quel tipo di persone di solito lo diventa proprio in forza della sua convinzione di potercela fare. Nessuno ci è mai riuscito pensando «tutta fatica sprecata» e affidandosi al corso degli avvenimenti.
Mentre seguivo vagamente questi pensieri, le porte dell'ascensore si aprirono. La ragazza uscì, e io dietro di lei. Come la prima volta che l'avevo vista, percorse a passo sostenuto il corridoio facendo ticchettare i tacchi a spillo, seguita da me. Davanti ai miei occhi ondeggiava il suo sedere dalla forma piacevole, gli orecchini d'oro luccicavano.
- Anche a supporre che le cose possano andare come dici, - proseguii rivolto alla sua schiena, - saresti soltanto tu a procurare a me dei benefici. Io a te non darei proprio nulla, il che mi sembra terribilmente iniquo e innaturale.
- Lo pensa davvero?
- Sì, certo. Innaturale e iniquo, - ripetei.
- Qualcosa che lei può darmi però c'è, - disse la ragazza.
- Per esempio? - chiesi.
- Per esempio... la sua scorza emotiva. Mi piacerebbe proprio conoscerla meglio. Sapere come è fatta, come funziona, tutto. Fino ad ora non mi sono mai avvicinata a nulla del genere, e mi interessa moltissimo.
- Ma non è nulla di eccezionale! Chiunque, con differenze più o meno grandi, si forma una scorza nei confronti delle emozioni: se uno la cerca la trova. Tu non sei mai uscita nel mondo esterno, è per questo che non capisci come funzionino i sentimenti delle persone ordinarie.
- È proprio un bell'ingenuo, lei, - replicò la ragazza grassa. - Ha la capacità di effettuare uno shuffling, no?
- Sì, certo. Ma è soltanto una tecnica professionale, una capacità che mi è stata conferita dall'esterno. Mi hanno operato e sottoposto a un training. La maggior parte delle persone, se bene allenate, sarebbero capaci di fare uno shuffling. Più o meno è come sapere usare un pallottoliere, o suonare il piano.
- No, la questione non è così semplice. Questo è ciò che pensavano tutti all'inizio. Che chiunque - tra le persone selezionate dai test, cioè - facendo come lei il dovuto allenamento, potesse acquisire tale capacità. Lo pensava anche il nonno. Così ventisei persone hanno subito la sua stessa operazione e il suo stesso training, e sono state messe in grado di fare uno shuffling. In quella fase non ci sono stati problemi. I problemi sono cominciati dopo.
- Non ne ho mai sentito parlare, - replicai. - Mi è stato detto che il progetto era andato a gonfie vele...
- Ufficialmente. La realtà è ben diversa. Delle ventisei persone sottoposte al trattamento, dopo un anno-un anno e mezzo al massimo dalla fine dell'esperimento venticinque sono morte. È rimasto in vita soltanto lei. Soltanto lei dopo tre anni è vivo e vegeto, e continua a fare operazioni di shuffling senza problemi o complicazioni. Pensa ancora di essere una persona ordinaria? Ormai lei è diventato un soggetto della massima importanza.
Continuai per un po' a percorrere il corridoio in silenzio, le mani in tasca. La faccenda stava superando i limiti delle mie capacità individuali, andava prendendo una dimensione sempre più vasta. Non riuscivo a immaginare dove si sarebbe fermata.
- Perché sono morti? - chiesi.
- Non si sa. La causa della morte non è chiara. Si è riusciti a capire che è avvenuta in seguito a un cattivo funzionamento del cervello, ma perché questo sia avvenuto nessuno ne ha idea.
- Devono aver fatto qualche ipotesi.
- Sì, il nonno ha dato questa spiegazione: una persona ordinaria non può sopportare le irradiazioni del nucleo della propria coscienza. Per neutralizzarle, le cellule cerebrali producono degli anticorpi. Ma è una reazione troppo forte e improvvisa, che probabilmente finisce col provocare la morte della persona stessa. Credo che in realtà le cose siano più complicate, ma in parole povere l'ipotesi del nonno è questa.
- Allora perché io sono ancora vivo?
- Forse lei ha degli anticorpi naturali. Quella che io chiamo la sua scorza emotiva. Per qualche ragione questi anticorpi nel suo cervello esistevano già, e sono quelli che le hanno permesso di restare in vita. Il nonno ha cercato di produrli in laboratorio e immetterli a protezione dei cervelli delle altre persone, ma evidentemente non è bastato.
- Vuoi dire una protezione simile alla scorza di un melone?
- Più o meno.
- Ma questi miei anticorpi, - continuai, - questa protezione o scorza di melone che sia, è qualcosa di congenito, o di acquisito?
- In parte congenito e in parte acquisito, probabilmente. Il nonno però non mi ha spiegato nulla di più in merito. Diceva che se sapevo troppe cose mi sarei trovata in pericolo. Ad ogni modo, sulla base della sua ipotesi, si può calcolare che di persone dotate dalla nascita di tali anticorpi ne esista una ogni milione-milione e mezzo. Per capire quali siano queste persone, però, si può solo provare a dar loro la capacità di fare uno shuffling, non c'è altro mezzo.
- In questo caso, supponendo che l'ipotesi di tuo nonno sia esatta, il fatto che tra quei ventisei soggetti ci fossi io è stato un colpo di fortuna straordinario.
- Per questo lei è un campione prezioso, la chiave della porta.
- Ma in pratica cosa voleva fare di me, tuo nonno? Che senso avevano, i dati che mi ha fatto sottoporre a shuffling e il teschio di unicorno?
- Se lo sapessi, potrei venirle in aiuto subito, adesso...
- In aiuto a me e al mondo.
L'ufficio era tutto sottosopra, non l'avevano ridotto proprio come il mio appartamento, ma avevano rovistato in ogni angolo. I libri sparpagliati sul pavimento, la scrivania capovolta, la cassaforte forzata, i cardini della porta divelti, i vestiti di ricambio del Professore e della nipote presi dall'armadio e buttati sul divano letto, anch'esso lacerato. I vestiti da donna erano tutti rosa. Ogni sfumatura di rosa, dal rosa pesca al rosa shocking.
- Delinquenti! - disse lei. - Forse sono venuti dal sottosuolo.
- Pensi che siano stati gli Invisibili?
- No, non loro. Gli Invisibili non salgono fin quassù, tanto per cominciare. E anche se l'avessero fatto, avrebbero lasciato il loro odore.
- Il loro odore?
- Un odore sgradevolissimo, come di pesce, e di fango. Questa non è opera degli Invisibili. Mi chiedo se non siano stati gli stessi che hanno saccheggiato il suo appartamento. Lo stile è quello.
- Può darsi, - dissi. Mi guardai di nuovo intorno. Davanti alla scrivania capovolta erano sparpagliati dei fermagli, una scatola intera, che luccicavano alla luce della lampada al neon. Era già da un po' che non mi convincevano, quei fermagli, e fingendo di controllare il pavimento mi chinai, ne raccolsi una manciata e me la misi in tasca.
- Tenevate qualcosa di importante, in quest'appartamento? - chiesi.
- No, solo cose senza valore. Registri, ricevute, materiale di ricerca di poco interesse, roba del genere. Anche se ci hanno rubato qualcosa, non sarà un gran danno.
- L'apparecchio scaccia-Invisibili è intatto?
Lei prese a frugare nel mucchio delle cose ammassate davanti all'armadio - pile elettriche, cassette per stereo, una sveglia, un taglianastri, un barattolo di pasticche per la tosse - ne estrasse un piccolo apparecchio che assomigliava a un indicatore UV e spostò più volte l'interruttore in su e in giù.
- Tutto a posto, - disse, - funziona. Di sicuro l'hanno preso per una carabattola qualunque. E poi è uno strumento rudimentale che si basa su un principio piuttosto semplice, non si rompe per qualche colpo.
La ragazza grassa andò in un angolo della stanza, si accovacciò sul pavimento, tolse il coperchio della presa di corrente, schiacciò un pulsante all'interno, poi si rialzò e con la mano aperta fece una leggera pressione in un punto della parete. Si aprì un pannello della grandezza di una guida telefonica, al di là del quale apparve una cassaforte.
- Sfido chiunque a trovarla, - disse lei con un certo orgoglio. Poi compose un numero di quattro cifre e aprì lo sportello.
- Potresti tirare fuori tutto quello che c'è e metterlo sul tavolo?
Stringendo i denti per sopportare il dolore della ferita, raddrizzai la scrivania capovolta e allineai sul ripiano il contenuto della cassaforte. C'era un fascio spesso cinque centimetri di libretti di risparmio legati da un nastro di gomma, dei certificati - forse di azioni e Buoni del Tesoro - due o tre milioni in contanti, un oggetto molto pesante in una borsa di stoffa, un'agenda di cuoio nero, una busta marrone che la ragazza svuotò sul tavolo. Conteneva un vecchio orologio da polso Omega e un anello d'oro. L'orologio, il cui vetro era incrinato, era tutto annerito.
- È tutto quel che ho di mio padre, - disse la ragazza. - L'anello era di mia madre. Il resto è andato bruciato.
Annuii, al che lei rimise tutto nella busta, poi afferrò alcune mazzette di biglietti di banca e se le infilò nella tasca della giacca.
- È vero, avevo completamente dimenticato che qui c'erano dei soldi, - disse. Poi aprì la borsa di stoffa e ne estrasse un oggetto avvolto in una vecchia camicia. Scostò la camicia e me lo mostrò. Era una piccola pistola automatica. Non conoscendo bene le armi non avrei saputo dirne con esattezza la marca, ma doveva essere una Browning o una Beretta. Ne avevo viste di simili al cinema. Insieme alla pistola c'erano un caricatore di riserva e una scatola di cartucce.
- Lei è bravo a sparare? - chiese la ragazza.
- Figurati! - dissi sorpreso. - Non ho mai posseduto una pistola.
- Io invece sono bravissima. Mi sono esercitata per più di un anno. Quando ero nella nostra villa nell'Hokkaido andavo a sparare sulle montagne, da sola. Da una distanza di dieci metri riesco a colpire una cartolina postale. Eccezionale, non crede?
- Eccezionale. Ma dove te la sei procurata quella pistola?
- È proprio ingenuo, lei, - disse la ragazza con aria rassegnata. - Se uno ha soldi si può procurare qualunque cosa. Non lo sapeva? Ad ogni modo, visto che non sa sparare, questa la tengo io. D'accordo?
- Prego, prego. Cerca di non sbagliarti però, nel buio, di non colpire me. Un'altra ferita e non starò più in piedi.
- Ma stia tranquillo, non c'è alcun pericolo! Sono una persona prudente, io, - protestò lei mettendo la pistola nella tasca destra della giacca. La cosa strana era che per quanto si riempisse le tasche, il suo tailleur non sembrava più gonfio, né cambiava forma. Forse era dotato di qualche scomparto speciale, o semplicemente era molto ben tagliato.
Sistemata la pistola, la ragazza aprì l'agenda di cuoio nero a una pagina verso la metà e la osservò attentamente, per molto tempo, alla luce della lampada. Vi gettai un'occhiata anch'io. Vidi soltanto file di numeri e di lettere dell'alfabeto latino, prive di senso per me, forse un codice: non c'era una sola parola che avesse significato.
- Questa è l'agenda del nonno, - disse lei. - È scritta in un codice che conosciamo soltanto noi due. In quest'agenda il nonno annota il programma e gli avvenimenti di ogni giornata. Mi ha detto che se gli fosse successo qualcosa dovevo leggerla subito. Eh? Un momento, per favore! Il 29 settembre lei ha fatto il lavaggio dei dati, vero?
- Esatto, - confermai.
- Qui è contrassegnato con un (1). Forse voleva dire che era la prima tappa. Poi la sera del 30 o il mattino del 1° ottobre, oggi, lei doveva fare lo shuffling. Giusto?
- Giustissimo.
- Che corrisponde al (2), la seconda tappa. Poi... ecco qua, il 2 di ottobre a mezzogiorno. Questa data è contrassegnata con un (3). Cancellare programma, c'è scritto.
- Dovevo incontrare tuo nonno il 2 a mezzogiorno. Forse aveva intenzione di cancellare un programma speciale che aveva inserito dentro di me. Per non provocare la fine del mondo. Però la situazione è cambiata, può darsi che tuo nonno sia stato ucciso, o che sia stato portato via, chissà dove. Questo è il problema principale, adesso.
- Aspetti un attimo. Voglio controllare le pagine seguenti. Sono scritte molto fitte.
Mentre lei studiava l'agenda io rimisi in ordine il contenuto dello zaino e misi delle pile nuove nella lampada tascabile. Le mantelline per la pioggia e gli stivali di gomma erano stati buttati fuori dall'armadio e giacevano alla rinfusa sul pavimento, ma per fortuna non erano danneggiati al punto da non poterli usare. Se fossimo passati sotto la cascata senza mantelline, ci saremmo bagnati fino alle ossa e ci sarebbe venuto un freddo tremendo. E la ferita avrebbe ricominciato a farmi male. Presi anche le scarpe da ginnastica rosa di lei e le misi nello zaino. Guardai il mio orologio digitale, era quasi mezzanotte. Mancavano giusto dodici ore all'annullamento del programma.
- No, sono tutti calcoli molto elaborati, - disse lei. - Cariche elettriche, velocità di liquefazione, valori di resistenza ed errori... non ci capisco niente.
- Le cose che non capisci saltale. Non abbiamo molto tempo. Decodifica solo quello che puoi comprendere.
- Non è necessario decodificare.
- Perché? - chiesi.
Lei mi passò l'agenda indicandomi il punto nella pagina. Non c'era scritto niente in codice, soltanto una grande X, la data e il tempo limite. In confronto agli altri caratteri, tanto piccoli che per leggerli bisognava usare una lente d'ingrandimento, la X era enorme, talmente sproporzionata da rafforzare l'impressione già funesta.
- Questo significa che è il tempo limite? - chiese la ragazza.
- Probabilmente. Questo dev'essere il punto (4). Se il (3), l'annullamento del programma, si svolgerà regolarmente, non si arriverà al (4). Nel caso invece che per qualche ragione l'annullamento non avvenga, il programma seguirà il suo corso, fino ad arrivare a questa X.
- Il che significa che dobbiamo assolutamente trovare il nonno prima delle dodici di domani.
- Se le mie congetture sono esatte.
- Pensa che lo siano?
- Forse, - mormorai.
- In tal caso, quanto tempo ci resta? Fino alla fine del mondo, fino al boom finale?
- Trentasei ore, - dissi. Non avevo bisogno di guardare l'orologio. Era il tempo che impiegava la Terra a fare un giro e mezzo su se stessa. Durante il quale i giornali avrebbero pubblicato due edizioni del mattino e una della sera. Le sveglie sarebbero suonate due volte, gli uomini si sarebbero fatti due volte la barba. I più fortunati avrebbero fatto l'amore due o tre volte. Questo significavano trentasei ore. Supponendo che una persona viva settant'anni, un diciassettemilatrentatreesimo della sua esistenza. E dopo quelle trentasei ore sarebbe successo qualcosa, forse la fine del mondo.
- Cosa facciamo ora? - chiese la ragazza.
Cercai un analgesico nella scatola dei medicinali di pronto soccorso che giaceva rovesciata davanti all'armadio, lo ingoiai con un sorso d'acqua della borraccia e mi misi lo zaino sulla schiena.
- Andiamo giù, cos'altro possiamo fare? - risposi.