22. La fine del mondo

 

 

 

Fumo grigio.

 

Come aveva previsto il Colonnello, ogni giorno si vedeva una colonna di fumo grigio salire dal bosco di meli e fondersi alle nubi spesse e lente nel cielo. Guardando a lungo quello spettacolo, si aveva l'illusione che le nuvole si generassero tutte in quel bosco. Il fumo cominciava a innalzarsi alle tre del pomeriggio esatte, per un tempo che dipendeva dal numero di bestie morte. Nei giorni che seguivano qualche forte nevicata o qualche notte particolarmente gelida, durava per ore, denso come se a causarlo fosse una montagna in preda alla fiamme.

Mi domandavo perché nessuno cercasse di salvare quei poveri animali dalla morte.

- Perché non viene costruita da qualche parte una stalla? - chiesi al Colonnello durante una partita a scacchi. - Perché non si cerca di proteggere le bestie dalla neve, dal freddo e dal vento? Basterebbe un rifugio rudimentale. Un tetto e un semplice recinto sarebbero sufficienti a salvarne parecchie.

- Sarebbe inutile, - disse il vecchio Colonnello sollevando gli occhi dalla scacchiera. - Anche se si costruisse una stalla, le bestie non vi entrerebbero. Hanno sempre dormito sul nudo terreno, fin dai tempi antichi. Vogliono dormire fuori, benché rischino di morire. Prendersi tutto il freddo, la neve e il vento.

Il Colonnello piazzò il suo Prete davanti al mio Re, formando una solida barriera. Ai due lati del Prete i due Corni rafforzavano la linea del fuoco. Attesi il suo attacco.

- Sembra quasi che siano le bestie stesse a cercare la sofferenza e la morte, - dissi.

- In un certo senso è proprio così. Per loro però è una cosa naturale, soffrire e morire. Può darsi che per loro rappresenti la salvezza.

Poiché il Colonnello taceva, feci scivolare la mia Scimmia accanto al suo Muro, nella speranza che lui lo spostasse. Il Colonnello stava per cascarci, ma all'ultimo momento ci ripensò e mosse indietro di una casella il Cavaliere, rafforzando la difesa.

- A poco a poco si sta facendo scaltro pure lei, - disse ridendo.

- Mai quanto lei, - risposi ridendo anch'io. - Ma cosa intendeva dire, con «salvezza»?

- Può darsi che morendo le bestie si salvino. Certo muoiono, ma in primavera rinascono, si reincarnano nei piccoli.

- I quali a loro volta invecchieranno e moriranno soffrendo allo stesso modo. Ma perché devono patire tanto?

- Perché così è stato deciso, - disse il Colonnello. - Tocca a lei. Non può vincere a meno di non sbarazzarsi del mio Prete.

 

Per tre giorni nevicò in maniera intermittente, poi finalmente il cielo tornò azzurro. Dopo tanto tempo il sole inondava nuovamente dei suoi raggi la città bianca e gelata, ora piena di luce accecante e del suono dell'acqua che si scioglieva. Sentivo ovunque il tonfo della neve che cadeva dai rami degli alberi. Per sfuggire alla luce mi rintanai nella mia stanza e chiusi le spesse tende alla finestra. Ma avevo un bel nascondermi, la luce non mi lasciava scampo. La città presa nella morsa del ghiaccio rifletteva da ogni angolo, come un gigantesco diamante sfaccettato, i raggi del sole, che stranamente riuscivano a filtrare nella stanza ferendomi la vista.

In quei pomeriggi restavo disteso sul letto, gli occhi coperti dal cuscino, l'orecchio teso al verso degli uccelli. Sul davanzale della mia finestra ne arrivavano di tutti i tipi e cantavano in mille maniere diverse, poi si spostavano su un altro davanzale, sapendo bene che i vecchi che abitavano nella residenza lasciavano loro delle briciole di pane. Sentivo quei vecchi chiacchierare fuori, seduti al sole. Soltanto io dovevo stare lontano dai suoi caldi raggi.

Al tramonto mi alzavo dal letto, mi lavavo gli occhi gonfi con l'acqua fredda, inforcavo gli occhiali scuri, quindi mi incamminavo giù per la collina coperta di neve, diretto alla biblioteca. Riuscivo a lavorare meno del solito nei giorni in cui i miei occhi erano indolenziti dalla luce troppo forte. Finiti di leggere uno o due sogni, il chiarore che emanavano i teschi stessi mi feriva le pupille con la crudeltà di un ago. La bolla d'aria in fondo alle orbite si faceva pesante come se si fosse riempita di sabbia, con la conseguenza che le dita perdevano la loro sensibilità abituale.

In quei momenti la ragazza mi massaggiava gli occhi con un asciugamano bagnato nell'acqua fredda, scaldava un brodo leggero o del latte e me lo faceva bere. Sia il brodo sia il latte avevano una consistenza sgradevolmente granulosa e un gusto aspro, ma a forza di berli la mia bocca ci fece l'abitudine, tanto che alla fine li trovavo buoni.

Quando glielo dissi, la ragazza ebbe un sorriso felice.

- Questo significa che a poco a poco ti stai adattando a questa città, - disse. - Il cibo qui è un poco diverso da quello degli altri posti. Con un numero molto limitato di ingredienti riusciamo a produrre diversi alimenti. Quella che credi sia carne in realtà non lo è. Quelle che sembrano uova non lo sono. Anche il caffè non è caffè. Tutto è solo un'imitazione. Quel brodo ti fa molto bene. Come ti senti? Un po' riscaldato? La testa va meglio?

- Sì, è vero, va meglio, - risposi.

Dovevo ammettere che grazie al brodo mi sentivo un'altra persona, il mio corpo aveva ritrovato calore e la pesantezza alla testa si era dissolta. Ringraziai, chiusi gli occhi, e riposai il fisico e la mente.

- C'è qualcosa che desideri, adesso?

- Qualcosa che desidero? A parte te?

- Non so, tutt'a un tratto ho avuto quest'impressione. Che se tu potessi ottenere quello che vuoi, il tuo cuore, indurito dall'inverno, si schiuderebbe un pochino.

- Quello di cui avrei bisogno è la luce del sole, - dissi, quindi mi tolsi gli occhiali scuri, pulii le lenti con una pezzuola e me li rimisi. - Ma questo è impossibile. I miei occhi non sopportano la luce.

- No, intendevo dire qualcosa di più modesto. Una cosa da nulla in grado di rischiararti il cuore. Come il massaggio che ti ho fatto prima. Sono sicura che c'è un mezzo per rasserenarti. Non ti viene in mente nulla? Nel mondo dove vivevi prima, cosa facevi quando avevi il cuore oppresso?

Cercai a lungo nei frammenti di memoria che ancora mi restavano, uno per uno, ma non trovai nulla che rispondesse alla sua domanda.

- È inutile. Non ricordo niente. Ho perso quasi tutta la memoria che dovrei avere.

- Basta la minima cosa. Dimmi la prima che ti viene in mente. Proviamo a pensare insieme. Vorrei esserti utile, almeno un po'.

Annuii, poi mi concentrai nuovamente e riprovai a scavare nei ricordi del mio vecchio mondo sepolti dentro di me. Ma la scorza era dura come roccia, per quanti sforzi facessi non riuscii a scalfirla di un millimetro. La testa ricominciò a farmi male. Probabilmente quando mi ero separato dalla mia ombra avevo perso per sempre la memoria. Tutto quel che restava in me era il mio cuore incerto e incoerente. E anch'esso col freddo dell'inverno si era chiuso e indurito.

La ragazza mi poggiò i palmi delle mani sulle tempie.

- Basta così. Ci penseremo un'altra volta. Può darsi che nel frattempo ti torni in mente qualcosa, così, di colpo.

- Voglio leggere ancora un sogno, - dissi.

- Ma sembri molto stanco. Non è meglio rimandare a domani?

- No, preferisco leggere un vecchio sogno che stare senza far nulla. Perlomeno mentre leggo non ho bisogno di pensare ad altro.

Per qualche secondo lei mi guardò in viso, poi annuì, si alzò e sparì nel magazzino. Io rimasi seduto con i gomiti appoggiati al tavolo e il mento sulle mani. Chiusi gli occhi e mi immersi nell'oscurità. Quanto sarebbe durato l'inverno? Il Colonnello aveva detto che sarebbe stato lungo e rigido. Ed era appena incominciato. Sarebbe resistita la mia ombra? No, e nemmeno io, con quel mio cuore aggrovigliato e instabile.

La ragazza posò un teschio sul tavolo, come al solito lo spolverò con un panno umido e lo asciugò bene. Sempre col mento sulle mani, io seguivo i movimenti delle sue dita.

- Chissà se c'è qualcosa che posso fare per te... - mi chiese sollevando la testa.

- Fai già moltissimo, - risposi.

Lei staccò le mani dal teschio che aveva appena pulito, si sedette e mi guardò in faccia.

- Non sto parlando di questo genere di aiuto. Intendo dire qualcosa di speciale. Per esempio venire nel tuo letto.

- No, - dissi scuotendo la testa. - Non voglio fare l'amore con te. Anche se sono felice che tu l'abbia proposto.

- Perché? Non hai detto che mi desideri?

- Sì, ti desidero. Ma per il momento non voglio venire a letto con te. È una cosa che non ha nulla a che vedere col fatto di desiderarti o meno.

La ragazza rifletté un momento, poi riprese lentamente a pulire il teschio. Nel frattempo io alzai la testa a guardare l'alto soffitto e la lampada gialla che vi era appesa. Per quanto il mio cuore si indurisse, per quanto l'inverno mi strangolasse, fare l'amore con lei per il momento era escluso. Se lo avessi fatto sarebbe aumentata la mia confusione mentale, e il mio senso di perdita sarebbe diventato ancora più profondo. Avevo l'impressione che, al contrario, la città desiderasse che io andassi a letto con lei. In quel modo per loro sarebbe stato molto più facile impossessarsi del mio cuore.

Quando la ragazza posò il teschio bello pulito davanti a me, io non lo toccai e guardai invece le sue dita, cercando di leggervi qualche significato. Impossibile. Erano solo dieci dita affusolate.

- Vorrei che mi parlassi di tua madre, - dissi.

- Cosa vorresti sapere, di mia madre?

- Qualsiasi cosa.

- Come dire... - fece lei toccando il teschio con una mano. - Ciò che provavo nei suoi confronti era diverso da quello che provo per le altre persone. Naturalmente è passato tanto di quel tempo che non ricordo bene, ma ho quest'impressione. Con mio padre o le mie sorelle non è lo stesso, cioè. Anche se non so perché.

- Così funziona il cuore. Non è qualcosa di uniforme. È come il corso di un fiume. Si adatta alla forma delle cose.

Lei sorrise. - Ma allora non è giusto!

- Non è giusto ma è così. E poi, è vero o no che vuoi ancora bene a tua madre?

- Questo non lo so -. rispose lei osservando a lungo il teschio, spostandolo sul tavolo in diverse posizioni.

- La domanda è troppo vaga?

- Ecco, sì, forse è un po' vaga.

- Allora parliamo d'altro. A tua madre che cosa piaceva? Te lo ricordi?

- Sì, me lo ricordo benissimo. Le piaceva il sole, camminare, stare nell'acqua d'estate, e giocare con le bestie. Nelle belle giornate facevamo lunghe passeggiate. La gente della città non ne fa, invece. Anche a te piace passeggiare, vero?

- Sì, molto. E mi piace anche il sole e stare nell'acqua. Non ti viene in mente nient'altro?

- Be', spesso la mamma a casa parlava da sola. Non so se si può dire che le piacesse, ma le capitava sovente.

- E di cosa parlava?

- Questo non lo ricordo. Ma non parlava da sola nel senso solito. Non so spiegarlo bene, ma forse per lei quel modo di parlare aveva un significato speciale.

- Come «speciale»?

- Sì, prendeva un accento molto strano, allungava e contraeva la parole. Come il vento quando soffia più o meno forte...

Guardando il teschio che lei teneva fra le mani, provai di nuovo a cercare nella mia memoria offuscata. E questa volta qualcosa colpì il mio cuore.

- Erano canzoni! - dissi.

- Anche tu puoi parlare in quel modo?

- Le canzoni non si parlano, si cantano.

- Allora canta!

Respirai a fondo e provai a cantare, ma non riuscii a ritrovare nemmeno una melodia. Anche le canzoni mi avevano abbandonato. Chiusi gli occhi e feci un sospiro.

- Non ce la faccio, - dissi. - Ho dimenticato tutto.

- E non c'è un modo per ricordare?

- Sì, se avessi un giradischi e dei dischi. Ma credo che sia impossibile. Anche uno strumento musicale andrebbe bene. Se provassi a suonarne uno, almeno una canzone forse mi verrebbe in mente.

- Che forma hanno gli strumenti musicali?

- Ne esistono centinaia di tipi, non posso spiegartelo in due parole. A seconda della forma e del modo di usarli, il suono che ne esce è diverso. Anche la grandezza varia, ce ne sono alcuni che per sollevarli ci vogliono quattro persone, altri invece stanno sul palmo della mano.

Dette quelle parole, mi accorsi che dentro di me il filo della memoria, poco per volta, poco per volta, si stava dipanando. Forse le cose stavano procedendo nella direzione giusta.

- Chissà, magari in questo palazzo, in fondo a qualche ripostiglio, troviamo qualcosa del genere, - disse la ragazza. - Nei ripostigli c'è ammassata roba vecchia, d'altri tempi. Vi ho solo dato un'occhiata. Cosa ne dici, andiamo a vedere?

- Andiamo, - feci. - Tanto oggi non credo che riuscirei a leggere più di così.

Attraversammo il magazzino dove erano disposti in fila i teschi, sbucammo in un altro corridoio e aprimmo una porta a vetri smerigliati uguale a quella d'ingresso. Sul pomo d'ottone si era depositata un po' di polvere, ma non era chiusa a chiave. Quando la ragazza girò l'interruttore, una luce gialla e sporca illuminò una stanza lunga e stretta, proiettando contro le pareti bianche la forma di diversi oggetti ammassati sul pavimento.

Si trattava soprattutto di sacche e valigie. C'erano anche delle macchine da scrivere nelle loro custodie e delle racchette da tennis, ma erano un'eccezione, la maggior parte dello spazio era riempito da borse grandi e piccole. Ce n'erano un centinaio. Tutte sepolte sotto strati di polvere, in maniera definitiva. Seguendo quale percorso quelle borse erano finite lì? Non lo sapevo, ma controllarle tutte a una a una mi pareva una fatica improba.

Accovacciato sul pavimento, provai ad aprire la custodia di una macchina da scrivere. Si sollevò una nuvola di polvere bianca che sembrava provocata da una valanga. La macchina da scrivere era di forma antiquata, grande come un registratore di cassa, con tasti rotondi. Non doveva essere stata usata da molto tempo, perché in molti punti la vernice nera era scrostata.

- Che cos'è questa roba, lo sai? - chiese la ragazza, in piedi a braccia conserte di fianco a me. - Non ho mai visto nulla di simile. È uno strumento musicale?

- No, - risposi. - È una macchina da scrivere. Per imprimere le lettere. È molto vecchia.

Chiusi la custodia, rimisi quell'oggetto dove l'avevo preso e questa volta aprii una cesta di vimini che si trovava lì accanto. Conteneva degli utensili da picnic. Coltelli, forchette, piatti, tazze e una serie di tovaglioli che dovevano essere stati bianchi, ormai ingialliti, accuratamente piegati l'uno sull'altro. Roba d'altri tempi anche quella. Chi mai andava in giro con degli arnesi del genere, da quando erano stati inventati i piatti e i bicchieri di carta?

In una grossa sacca di cuoio c'erano soprattutto vestiti - giacche, pantaloni, camicie, cravatte, calzini, biancheria intima - la maggior parte dei quali rosi dalle tarme e inservibili. Tra i vestiti c'erano anche una busta da toilette e una fiaschetta piatta da whisky. Lo spazzolino da denti e il pennello da barba erano induriti, e dalla fiaschetta, quando aprii il coperchio, non esalò alcun odore. La sacca non conteneva nient'altro. Niente libri o agende.

In ogni sacca o valigia che aprii c'erano più o meno le stesse cose: vestiti e qualche oggetto personale - il minimo indispensabile - come se qualcuno le avesse riempite a casaccio in fretta e furia per un viaggio improvviso. In tutte mancavano alcune delle cose che normalmente si portano quando ci si sposta, il che dava un'indefinibile sensazione di anomalia. Nessuno viaggia con solo i vestiti e gli oggetti da toilette. Non c'era nulla, nelle valigie, che fornisse la minima indicazione sulla personalità o la vita del proprietario.

Anche i vestiti erano piuttosto ordinari. Né particolarmente belli né del tutto scadenti. Ce n'erano di tutte le epoche e per tutte le stagioni, da uomo e da donna, indumenti adatti a persone anziane e altri più fantasiosi, ma nessuno lasciava un'impressione particolare. Avevano tutti lo stesso odore. La maggior parte era rosa dalle tarme. Scomparsi marchi ed etichette, come se qualcuno si fosse dato la pena di staccare da ogni singolo capo ogni traccia di identità o personalità. Tutto quel che restava era il sedimento senza nome che ogni epoca necessariamente produce.

Dopo aver aperto cinque o sei sacche, lasciai perdere. Erano troppo impolverate, e non era verosimile che potessi trovarvi qualche strumento musicale. Supponendo che nella città ne esistessero, dovevano essere stati messi in tutt'altro posto, non lì.

- Andiamo via, - dissi. - La polvere mi fa molto male agli occhi.

- Sei deluso di non aver trovato strumenti musicali?

- Sì. Ma possiamo cercare ancora da qualche altra parte.

 

Dopo essermi separato dalla ragazza, stavo tornando da solo su per la collina occidentale, col vento forte che mi inseguiva da dietro le spalle, quando dal bosco sentii arrivare un suono tanto acuto da forare il cielo. Mi voltai, una mezzaluna quasi perfetta sostava tranquillamente sopra la Torre dell'Orologio, mentre tutt'intorno spessi strati di nuvole si spostavano veloci. Alla luce della luna l'acqua del fiume luccicava nera come catrame.

Tutt'a un tratto mi tornò in mente una sciarpa che avevo visto in una delle valigie nella biblioteca, una sciarpa che doveva essere molto calda. Le tarme vi avevano fatto qualche grosso buco, ma avvolgendomela bene intorno al collo mi avrebbe protetto dal freddo. Mi veniva un male tremendo alle orecchie a stare senza sciarpa nel vento tagliente come un coltello. Se l'avessi chiesto al Guardiano, pensai, mi avrebbe detto chi erano i proprietari di quei bagagli e se potevo usarne il contenuto. Decisi che il giorno seguente sarei andato a parlargli. E dovevo anche avere notizie della mia ombra.

Voltai di nuovo le spalle alla città e ripresi a salire lungo la strada gelata, diretto alla residenza.