10. La fine del mondo
La muraglia.
Un pomeriggio in cui il cielo era coperto, scesi fino alla baracca del Guardiano e vidi che la mia ombra lo stava aiutando a riparare un carro. Avevano portato la vettura nel centro dello spiazzo, tolto le assi deteriorate dal fondo e dai lati, e ora le stavano sostituendo con assi nuove. Il Guardiano le piallava con gesti esperti, e la mia ombra le inchiodava col martello. Il suo aspetto non era quasi cambiato da quando l'avevo lasciata. Fisicamente, cioè, non sembrava in cattive condizioni, ma i suoi movimenti avevano qualcosa di rigido e fra gli occhi le era apparsa una ruga corrucciata.
Quando mi avvicinai, smisero entrambi di lavorare e alzarono il viso.
- Desidera qualcosa? - chiese il Guardiano.
- Sì, vorrei parlarle un momento, - risposi.
- Tra poco facciamo una pausa, vada ad aspettarmi dentro, - disse lui tornando a osservare l'asse che stava piallando. La mia ombra mi lanciò di nuovo una breve occhiata, poi si rimise subito al lavoro. Mi sembrò molto arrabbiata con me.
Entrai nella baracca del Guardiano, mi appoggiai al tavolo e lo aspettai. Il ripiano del tavolo come al solito era ingombro di oggetti. Forse lo metteva in ordine soltanto quando lo usava per affilare le sue lame. C'era di tutto, un affastellamento di tazze e piatti sporchi, pezzi di tubo, caffè macinato, trucioli di legno. Soltanto le lame poggiate sugli scaffali lungo le pareti erano disposte con un ordine che aveva del prodigioso.
Il Guardiano si faceva attendere. Con le braccia appoggiate allo schienale di una sedia, lasciavo trascorrere il tempo guardando distrattamente il soffitto. In quella città di tempo ce n'era anche troppo, e ognuno si inventava una maniera diversa per farlo passare.
Fuori il rumore della pialla e del martello non cessava.
Finalmente la porta si aprì, ma non fu il Guardiano a entrare, fu la mia ombra.
- Non possiamo parlare con calma, - disse passandomi accanto. - Devo solo prendere dei chiodi nel ripostiglio -. Aprì la porta sulla parete di fondo e afferrò una scatola che si trovava sul lato destro.
- Senti, ascoltami bene, - disse mentre controllava la lunghezza dei chiodi. - Prima di tutto devi disegnare una mappa della città. Non devi basarti su quello che ti dicono gli altri, ma controllare ogni luogo con i tuoi occhi, misurare le distanze con le tue gambe. Devi disegnare tutto quello che vedi, senza tralasciare nulla. Fin nei minimi dettagli.
- Ci vorrà del tempo.
- Hai tempo fino alla fine dell'autunno per darmela, - disse la mia ombra in fretta. - In più voglio anche un resoconto scritto. Soprattutto che tu mi descriva in dettaglio la configurazione del muro di cinta, il bosco orientale, l'ingresso e l'uscita del fiume. Queste tre cose, intesi?
Dette queste poche parole, la mia ombra aprì la porta senza guardarmi in faccia e uscì. Rimasto solo, mi ripetei lentamente la sua richiesta. La configurazione del muro, il bosco orientale, l'ingresso e l'uscita del fiume. Disegnare una mappa non era affatto una cattiva idea. Avrei visualizzato grossomodo la topografia della città e utilizzato utilmente il tempo libero. E poi quello che soprattutto mi rendeva felice era il fatto che la mia ombra avesse ancora fiducia in me.
Poco dopo arrivò il Guardiano. Appena entrato nella baracca si asciugò il sudore con il grembiule, si pulì le mani, poi si sedette pesantemente di fronte a me.
- Allora, cosa voleva?
- Chiederle di incontrare la mia ombra.
Annuendo più volte, il Guardiano riempì di tabacco la pipa e l'accese con un fiammifero.
- No, per il momento non può. Mi dispiace, ma è troppo presto. Le ombre sono ancora molto forti in questa stagione. Aspetti che le giornate diventino più corte. Per evitare complicazioni.
Così dicendo l'uomo spezzò in due il fiammifero e lo gettò nel portacenere sul tavolo.
- Lo dico anche per lei, - proseguì. - Se adesso si lascia coinvolgere dalla sua ombra, dopo saranno guai. Ne ho visti parecchi di casi del genere. Porti pazienza ancora per un po', non se ne pentirà.
Io annuii in silenzio. Tanto, qualunque cosa avessi detto, non mi avrebbe ascoltato, e comunque con la mia ombra avevo già parlato. Non potevo far altro che aspettare un'altra occasione di incontrarla.
Il Guardiano si alzò in piedi, andò al lavandino e bevette parecchie tazze d'acqua.
- Come va il lavoro? - mi chiese.
- Me la cavo. A poco a poco mi sto abituando, - risposi.
- Bene. È la cosa migliore, fare il proprio lavoro con scrupolo. Chi non lavora come si deve, finisce col mettersi in testa delle sciocchezze.
Fuori si sentiva il rumore delle martellate che dava la mia ombra.
- Senta, perché non viene a fare due passi con me? - disse il Guardiano. - Voglio farle vedere qualcosa di interessante -. Lo seguii all'esterno. Nello spiazzo la mia ombra, salita sul carro, stava inchiodando l'ultima asse laterale. Il carro, cui era stato cambiato tutto tranne la barra centrale e le ruote, era tornato come nuovo.
Il Guardiano superò lo spiazzo e mi portò ai piedi della torre di guardia. Era un pomeriggio grigio, caldo e umido. Nel cielo al di sopra della muraglia erano sospese delle nuvole nere provenienti da ovest, che lasciavano presagire pioggia da un momento all'altro. La camicia che indossava il Guardiano, inzuppata di sudore, gli stava appiccicata al corpo gigantesco ed emanava un odore sgradevole.
- Questo è il muro di cinta, - disse l'uomo, dandovi delle pacche col palmo della mano come se fosse il fianco di un cavallo. - È alto sette metri e corre tutt'intorno alla città. Solo gli uccelli possono scavalcarlo. L'unico accesso è questo cancello. Un tempo ce n'era un altro a oriente, ma adesso è stato murato. Come può vedere, il muro è fatto di mattoni, ma non sono mattoni ordinari. Nessuno può romperli o sbriciolarli. Nessuno, neanche un cannone, un terremoto, un tifone.
Così dicendo il Guardiano raccolse un pezzo di legno ai suoi piedi e cominciò a intagliarlo con il coltello. Un coltello incredibilmente affilato, che in men che non si dica trasformò il pezzo di legno in un piccolo cuneo.
- Mi segue? Osservi bene, - continuò l'uomo. - Fra un mattone e l'altro non c'è cemento. Perché non ce n'è bisogno. I mattoni combaciano perfettamente, non ci passerebbe nemmeno un capello.
Il guardiano fece scorrere la punta affilata del cuneo sulla linea di congiunzione tra due mattoni, ma non riuscì a infilarla nemmeno di un millimetro. Allora lasciò cadere il cuneo, e con la lama del coltello grattò la superficie di un mattone producendo uno sgradevole suono stridente. Sul mattone non rimase neanche un graffio. Il Guardiano controllò il coltello, poi se lo rimise in tasca.
- Nessuno può danneggiare questa muraglia. Né scalarla. Perché è perfetta. Se lo metta bene in testa: da qui nessuno può uscire. Di conseguenza non si faccia venire idee sciocche. Capisco anch'io che è dura, per lei, - aggiunse dandomi una pacca sulla schiena con la sua grossa mano, - ma ci sono passati tutti. Deve portare pazienza. Dopo verrà la salvezza. E allora anche lei non conoscerà più l'angoscia né il dolore. Sparirà tutto. Anche il senso del provvisorio non significherà più nulla. Dimentichi la sua ombra. Qui è la fine del mondo, da qui non si va da nessuna parte. Nemmeno lei può più andare da nessuna parte.
Con queste parole il Guardiano mi diede un'altra pacca sulla schiena.
Sulla strada di casa mi appoggiai al parapetto del Ponte Vecchio e guardando scorrere il fiume ripensai a quello che aveva detto il Guardiano.
La fine del mondo.
Il problema era che non riuscivo assolutamente a ricordarmi né la ragione né lo scopo per cui avevo abbandonato il mio vecchio mondo ed ero venuto in quel posto. Qualcosa, qualche forza mi ci aveva portato. Qualche straordinaria e assurda energia. Così avevo perso la mia ombra e i miei ricordi, e adesso stavo per perdere il mio cuore.
Sotto di me, il fiume scorreva con un piacevole sciabordio. Sulle sponde crescevano dei salici. I loro rami sporgenti sull'acqua ondeggiavano allegramente al ritmo della corrente. L'acqua era limpida e trasparente, e nei punti dove ristagnava, intorno alle rocce, si vedevano dei pesci. Guardando il fiume riuscivo sempre a calmarmi e sentirmi più tranquillo.
Dal ponte, dei gradini portavano alla riva, dove era stata messa una panchina all'ombra dei salici. Nei paraggi gironzolavano sempre alcune bestie. Scesi, spezzai del pane che mi ero portato in tasca e lo porsi loro. Dopo molte esitazioni, le bestie allungarono con precauzione il collo e mangiarono dalla mia mano i pezzetti di pane. Ma erano sempre e solo le bestie più anziane a farlo, o i piccoli.
Con l'avanzare dell'autunno, i loro occhi, che mi facevano pensare a un lago profondo, presero una sfumatura ancora più triste. Le foglie dei salici cambiarono colore, l'erba seccò annunciando alle bestie che stava arrivando la lunga e dura stagione della fame. E come aveva previsto il Colonnello, probabilmente anche per me l'inverno sarebbe stato lungo e duro.