4. La fine del mondo
La biblioteca.
Il centro della città era una piazza semicircolare che si apriva a nord del Ponte Vecchio. L'altra metà del cerchio si trovava sul lato sud. I due semicerchi venivano chiamati la piazza settentrionale e la piazza meridionale, tanto diverse l'una dall'altra da apparire specularmente opposte a chi le osservasse insieme. Nella parte nord regnava una strana pesantezza, come se dai quattro angoli della città vi confluisse un cupo silenzio. In confronto, la parte sud non procurava quasi sensazioni. Era soltanto impregnata di un vago senso di mancanza. C'erano meno edifici che nella parte nord, le aiuole e la pavimentazione non erano molto curate.
Nel centro della piazza settentrionale si ergeva la Torre dell'Orologio, che puntava verso il cielo come se volesse trafiggerlo. Non meritava il suo nome, sarebbe stato più esatto definirla un monumento a forma di Torre dell'Orologio. Le lancette sempre ferme nella stessa posizione, non svolgeva la funzione per cui era stata creata: misurare il tempo. Era costruita, in pietre quadrate - ogni facciata orientata verso i punti cardinali - e andava assottigliandosi verso l'alto. In cima, sui quattro lati, erano attaccati altrettanti orologi, che segnavano sempre le dieci e trentacinque. Un poco al di sotto dei quadranti c'erano delle feritoie dalle quali si intravedeva l'interno della Torre, uno spazio apparentemente vuoto, dove però non si poteva accedere per mancanza di una scala o qualcosa che permettesse di salire fin lì. La Torre era tanto alta e diritta che per leggere l'ora sarebbe stato necessario attraversare il ponte e andare nella parte meridionale della città.
Dalla piazza settentrionale si irraggiavano a ventaglio file di case in pietra e mattoni. Considerate singolarmente, le costruzioni non avevano alcuna particolarità, alcun segno o cartello che le distinguesse, le porte erano tutte ermeticamente chiuse, non si vedeva entrare o uscire nessuno. Chissà, forse erano edifici in disuso, un ufficio postale dove non arrivava più la posta, una società mineraria che aveva perso le miniere, una camera ardente senza cadaveri... Ad ogni modo le case, silenziose e tranquille, stranamente non davano l'impressione di essere state abbandonate. Ogni volta che attraversavo il quartiere, mi sembrava di percepire all'interno di esse la presenza di persone che non conoscevo, intente a svolgere, trattenendo il respiro, attività a me ignote.
Anche la biblioteca si trovava in un isolato di quel quartiere. In realtà non differiva dalle altre costruzioni, era un semplicissimo edificio in pietra. Nulla indicava a cosa fosse adibito, né un cartello né alcuna caratteristica visibile dall'esterno. Con i suoi vecchi muri scoloriti dall'aria malinconica, i cornicioni stretti, le sbarre di ferro alle finestre e la solida porta in legno, lo si sarebbe potuto prendere per un magazzino per cereali. Se il Guardiano non me l'avesse indicato su una pianta dettagliata, non avrei mai pensato che si trattava di una biblioteca.
- Appena si sarà un po' sistemato, ci vada subito, - mi aveva detto l'uomo il giorno stesso del mio arrivo. - Troverà di guardia una ragazza, le dica che la città le ha assegnato il compito di leggere i vecchi sogni. La ragazza le insegnerà tante cose utili.
- Vecchi sogni? - avevo chiesto interdetto. - E cosa mai sarebbero, questi vecchi sogni?
Il Guardiano stava intagliando un pezzo di legno con un piccolo coltello per ricavarne un piolo o una sorta di chiodo, e fermandosi aveva raccolto i trucioli che coprivano il tavolo e li aveva gettati nel cestino della spazzatura.
- I vecchi sogni sono vecchi sogni. Nella biblioteca ce ne sono fino alla nausea. Ne prenda quanti ne vuole e li legga dall'inizio alla fine.
Dopo aver osservato attentamente il pezzo di legno appuntito e rotondo che aveva fabbricato, il Guardiano, trovandolo di suo piacimento, lo aveva posato accanto a una decina d'altri del tutto simili, ben allineati sullo scaffale dietro di sé.
- Può chiedermi tutto quello che vuole, - aveva proseguito incrociando le mani dietro la testa, - ma non è detto che io abbia voglia di risponderle. Può anche darsi che non possa farlo, dipende dalle sue domande. Comunque d'ora in poi si rechi ogni giorno alla biblioteca a leggere quei vecchi sogni. È questo il suo compito. Ci vada verso le sei di sera e ci resti fino alle dieci o alle undici. La cena gliela preparerà la ragazza. Per il resto del tempo è libero, può fare quello che vuole. Mi sono spiegato?
- Sì, certo. E fino a quando dovrò fare questo lavoro?
- Mah, non saprei... fino a quando verrà il momento di smettere -. Dette queste parole, il Guardiano aveva preso un altro pezzo di legno dalla catasta e si era messo a intagliarlo col coltello. - La città è piccola e piuttosto povera, non c'è posto per gente che perde tempo a bighellonare. Ognuno deve svolgere il compito che gli è stato assegnato. Il suo consiste nel leggere i vecchi sogni alla biblioteca. Non credo che sia venuto qui con l'idea di spassarsela e oziare tutto il giorno, vero?
- Lavorare non è un peso, per me. Anzi, preferisco fare qualcosa che starmene con le mani in mano.
- Bravo, - aveva detto il Guardiano annuendo, le dita sulla lama del coltello. - Allora si metta all'opera il più presto possibile. D'ora in poi lei sarà il Lettore di Sogni. Si dimentichi il suo vero nome, ormai si chiama così. Come io mi chiamo il Guardiano. È tutto chiaro?
- Chiarissimo.
- E come c'è un solo Guardiano, in questa città, così c'è un solo Lettore di Sogni. Perché per diventarlo bisogna averne le qualità. Qualità che adesso io le conferirò.
Così dicendo l'uomo aveva tirato fuori dalla credenza un piattino bianco e lo aveva posato sul tavolo. Vi aveva versato dell'olio, poi con un fiammifero vi aveva dato fuoco. Quindi dallo scaffale dov'erano allineati gli attrezzi aveva preso uno strano coltello dalla forma piatta, come quelli che si usano per spalmare il burro, e ne aveva scaldato la punta sulla fiamma per una decina di minuti. Dopodiché aveva spento il fuoco e lasciato raffreddare il coltello.
- Questo è solo per conferirle una peculiarità, non le farò assolutamente male, non deve avere paura. In un attimo sarà tutto finito.
Detto ciò, il Guardiano aveva tenuta aperta la palpebra del mio occhio destro, e con la punta del coltello mi aveva trafitto il globo oculare. Però, come mi era stato assicurato, non avevo provato alcun dolore, e stranamente nemmeno paura. Il coltello era penetrato nel mio occhio con facilità, in silenzio, come se sprofondasse nella gelatina. Dopodiché il Guardiano aveva sottoposto allo stesso trattamento il mio occhio sinistro.
- Quando avrà portato a termine il suo lavoro, la cicatrice sparirà da sola, - aveva detto riponendo il piattino e il coltello. - È solo il segno che lei è il Lettore di Sogni. Finché ne sarà marchiato, però, dovrà evitare la luce. Mi ascolti bene, guai se dovesse guardare la luce del sole. Sarebbe severamente punito. Quindi può uscire soltanto la sera o col cattivo tempo. Nelle belle giornate mantenga la sua stanza più buia che può, e ci si chiuda dentro.
Il Guardiano mi aveva poi dato un paio di occhiali dalle lenti scure dicendomi di portarli sempre, tranne quando dormivo. Ed era stato così che avevo perso la luce del sole.
Alcuni giorni dopo, la sera, spinsi la porta della biblioteca.
Il pesante battente di legno si aprì con un cigolio, lasciando intravedere un lungo corridoio diritto. L'aria sapeva di chiuso, di polvere e di umidità, come se ristagnasse da anni. Le assi del pavimento erano consumate dai passi delle persone, l'illuminazione elettrica aveva ingiallito i muri di stucco.
Lungo il corridoio si aprivano diverse porte chiuse da catenacci, le maniglie bianche di polvere. L'unica priva di lucchetto si trovava in fondo, un battente leggero, provvisto di vetri smerigliati oltre i quali brillava la luce di una lampada. Vi bussai più volte, ma non ottenni risposta. Allora posai la mano sulla maniglia di ottone ossidato e provai a girarla piano piano: la porta si aprì silenziosamente verso l'interno. Nella stanza non c'era nessuno. Un locale disadorno e quasi vuoto, grande come la sala d'aspetto di una stazione, senza finestre, senza la minima decorazione. Vidi soltanto un tavolo piuttosto rozzo, tre sedie, una stufa a carbone di quelle che si usavano una volta, un grande orologio a muro e un bancone. Sulla stufa era posato un bricco di smalto nero, scrostato qua e là, da cui usciva del vapore bianco. Dietro il bancone c'era un'altra porta con i vetri smerigliati, identica alla prima, oltre la quale brillava un'altra lampada. Per qualche secondo mi chiesi se dovessi bussare anche a quella, ma decisi di restare dove mi trovavo e aspettare che qualcuno si facesse vivo.
Sul bancone erano sparpagliati dei fermagli per la carta. Ne presi in mano uno e ci giocherellai un po', poi mi sedetti al tavolo.
La ragazza apparve sulla porta dietro il bancone dieci o quindici minuti più tardi. Teneva in mano un fascio di fogli. Quando mi vide sembrò un po' stupita e le guance le si arrossarono leggermente.
- Mi scusi, - disse, - non sapevo che ci fosse qualcuno. Perché non ha bussato? Ero occupata nella stanza in fondo a fare un po' d'ordine, è tutto sottosopra.
Osservai a lungo il suo viso, senza parlare. Mi ricordava qualcosa. Smuoveva quietamente qualche morbido sedimento in fondo alla mia coscienza. Però non sapevo spiegarmi quella sensazione, le parole restavano impastoiate in una lontana oscurità.
- Come saprà, qui non viene più nessuno. Qui ormai ci sono soltanto dei vecchi sogni, nient'altro, - disse la ragazza.
Io annuii leggermente, senza distogliere lo sguardo dal suo viso. Cercavo di leggere qualcosa nei suoi occhi, nelle labbra, nell'ampia fronte, nei capelli neri legati sulla nuca, ma più osservavo i dettagli più sentivo allontanarsi e svanire l'immagine globale. Rinunciai e chiusi gli occhi.
- Mi perdoni, ma non si sarà mica sbagliato con un altro edificio? Le case in questo quartiere si assomigliano tutte, - disse la ragazza posando il fascio di fogli sul bancone, di fianco ai fermagli. - Soltanto il Lettore di Sogni può venire qui a leggere i vecchi sogni, nessun altro può entrare.
- È proprio quello che sono venuto a fare, - risposi, - ho ricevuto l'incarico dalla città.
- Mi scusi, potrebbe togliersi gli occhiali?
Obbedii e voltai gli occhi nella sua direzione. Lei osservò a lungo le mie pupille sbiadite, che erano il marchio del Lettore di Sogni. Ebbi l'impressione che il suo sguardo mi penetrasse fino al midollo.
- Va bene, si rimetta pure gli occhiali, - disse. - Gradisce un caffè?
- Volentieri, - risposi.
La ragazza andò a prendere due tazze nella stanza accanto, vi versò il caffè che era nel bricco e si sedette dall'altra parte del tavolo.
- Oggi non ho preparato niente, cominciamo domani. Come sala di lettura questa le va bene? O preferisce che gliene apra un'altra?
Dissi che quella andava benissimo. - Lei mi aiuterà? - chiesi.
- Sì, certo. Il mio lavoro consiste nel custodire i vecchi sogni e aiutare il Lettore.
- Non è che ci siamo già incontrati da qualche altra parte, per caso?
La ragazza alzò gli occhi e mi guardò fisso in volto. Sembrò frugare nella sua memoria, alla ricerca di qualcosa da associare a me, ma alla fine rinunciò e scosse la testa.
- In questa città, credo che lo sappia anche lei, la memoria è qualcosa di molto instabile e confuso. Alcune cose le ricordo, altre no. Purtroppo lei si trova fra queste ultime. Mi scusi.
- Non fa niente. Non è grave.
- Ad ogni modo non è escluso che ci siamo già visti. Ho sempre vissuto in questo posto, che non è certo una metropoli.
- Io invece ci sono arrivato solo qualche giorno fa.
- Solo qualche giorno fa? - chiese lei sorpresa. - Allora mi scambia certamente con un'altra persona, perché in tutta la mia vita non sono mai uscita dalla città. Dev'essere qualcuno che mi assomiglia.
- Probabilmente, - risposi, e bevvi un sorso di caffè. - Però, sa, qualche volta penso che noi tutti in tempi precedenti siamo vissuti in un altro posto e abbiamo avuto un'altra esistenza. Poi per qualche ragione ce la siamo dimenticata, e viviamo ignari di quel che è stato, senza dubitare di nulla. Non le capita mai di pensare così?
- No, mai. Ma forse a lei vengono di queste idee perché è il Lettore di Sogni. Un Lettore di Sogni pensa e sente in maniera molto diversa dalla gente comune.
- Mah, chissà... - dissi.
- Allora lei ricorda dove si trovava prima e cosa faceva?
- No, non me lo ricordo, - risposi. Poi andai al bancone, presi uno dei fermagli sparpagliati sul ripiano e lo guardai per qualche secondo. - Però qualcosa c'è stato, ne sono sicuro. E ho l'impressione di avere incontrato lei, là dove mi trovavo.
Il soffitto della biblioteca era alto, e la stanza silenziosa come il fondo del mare. Con il fermaglio in mano, senza pensare a nulla, mi guardai distrattamente intorno. La ragazza si sedette al tavolo e continuò a bere il suo caffè senza parlare.
- Non so nemmeno io perché sono venuto qui, - proseguii. Alzai gli occhi a guardare il soffitto, particelle di luce gialla provenienti dal lampadario sembravano contrarsi ed espandersi. Probabilmente un'illusione delle mie pupille ferite. I miei occhi erano stati trasformati dal Guardiano in maniera da poter vedere cose straordinarie. Il vecchio e grande orologio attaccato al muro scandiva in silenzio il tempo. - Forse una ragione c'è, ma me la sono scordata.
- Questo è un posto molto tranquillo, - disse la ragazza. - Se è venuto qui in cerca di pace, si troverà bene.
- Sì, lo credo anch'io, - risposi. - Allora oggi cosa devo fare?
Lei scosse la testa, si alzò lentamente e prese le due tazze ormai vuote.
- Per oggi nulla. Inizierà domani. Ora torni a casa e si riposi.
Di nuovo alzai gli occhi al soffitto, poi guardai la ragazza.
Non c'era dubbio, il suo viso era strettamente legato a qualcosa che conservavo nel cuore. Qualcosa che mi turbava. Chiusi le palpebre e scandagliai il fondo del mio animo offuscato. Sentii il silenzio ricoprirmi come pulviscolo impalpabile.
- Allora vengo domani sera alle sei, - dissi.
- Arrivederci, - rispose la ragazza.
Quando uscii dalla biblioteca mi appoggiai alla ringhiera del Ponte Vecchio, e ascoltando il mormorio dell'acqua contemplai la città, dalla quale le bestie si erano ritirate. Osservai la muraglia che la circondava, la Torre dell'Orologio, le case lungo le sponde del fiume e la catena di montagne a nord, con il bordo dentellato come una sega. Cominciava a calare l'oscurità azzurrata della sera. L'unico rumore che arrivasse alle mie orecchie era quello dell'acqua. Anche gli uccelli se n'erano andati chissà dove.
Forse ero arrivato fin lì in cerca di pace, aveva detto la ragazza. Ma non avevo alcun modo di verificarlo.
Quando si fece buio e i lampioni che si susseguivano lungo il fiume si accesero, mi incamminai per le strade deserte verso la collina occidentale.