16. La fine del mondo

 

 

 

L'arrivo dell'inverno.

 

Quando mi svegliai, ero in un letto. Nell'odore familiare del mio letto. Della mia stanza. Però ogni cosa sembrava leggermente diversa. Come se la scena fosse stata ricreata basandosi sui miei ricordi. In tutti i dettagli, perfino le macchie sul soffitto o i graffi sulla calce dei muri.

Fuori dalla finestra vedevo piovere. Pioggia invernale, dura come ghiaccio, percuoteva il suolo. Sentivo anche il rumore che faceva sul tetto. Però non riuscivo a cogliere il senso della distanza: il tetto mi pareva trovarsi vicinissimo alle mie orecchie e al tempo stesso lontano un chilometro.

Accanto alla finestra vidi il Colonnello. Aveva portato lì una sedia, vi si era seduto con la schiena ben eretta come il suo solito, e guardava immobile la pioggia. Non capivo perché quello spettacolo lo appassionasse tanto. Era una normalissima pioggia. Picchiava sul tetto, bagnava il terreno e finiva col riversarsi nel fiume.

Cercai di alzare una mano per toccarmi la faccia, ma non ci riuscii. Il mio braccio era terribilmente pesante. Feci per dirlo al Colonnello, ma la voce non mi uscì. Una bolla d'aria mi opprimeva i polmoni e non potevo espellerla. Tutte le funzioni del mio corpo, nessuna esclusa, erano venute meno. Giacevo semplicemente a occhi aperti, a guardare la finestra, la pioggia e il Colonnello. Impossibile ricordare per quale ragione mi fossi ridotto in quello stato di impotenza. Quando cercavo di fare uno sforzo di memoria, la testa mi doleva tanto che sembrava dovesse spaccarsi.

- L'inverno, - disse il Colonnello, picchiettando con la punta delle dita sul vetro della finestra. - L'inverno è arrivato. E così anche lei ha capito quanto sia temibile.

Feci un lieve cenno di assenso.

Ecco... era l'inverno che mi faceva male. E poi io... uscendo dal bosco ero arrivato alla biblioteca. Di colpo mi tornò in mente la sensazione dei capelli di lei che mi sfioravano la guancia.

- È stata la ragazza della biblioteca a portarla qui. Con l'aiuto del Guardiano, s'intende. Aveva la febbre alta. Sudava tremendamente, da riempire dei secchi. È successo l'altro ieri.

- L'altro ieri...

- Già, ha dormito due giorni interi, - disse il Colonnello. - Temevo quasi che non si risvegliasse più. Non è mica andato nel bosco, per caso?

- Sono desolato, - dissi.

Il Colonnello prese un pentolino che aveva messo a scaldare sulla stufa e lo posò su un piatto. Poi mi abbracciò per tirarmi su e farmi sedere contro la spalliera del letto, che scricchiolò come vecchie ossa.

- Prima di tutto, deve mangiare qualcosa, - disse. - I pensieri, le scuse, dopo, dopo. Ha un po' d'appetito?

Dissi di no. Mi stancava perfino inspirare l'aria.

- Almeno questa la deve bere, però. Bastano tre sorsi. Tre, non uno di più. Butti giù tre sorsi e la lascio in pace. Ce la fa, vero?

Annuii.

La zuppa, che doveva contenere qualche erba medica, era amara da far vomitare. Bene o male riuscii a ingoiarne tre sorsi. Quando ebbi finito, sentii che la tensione mi abbandonava.

- Bravo, - disse il Colonnello posando di nuovo il pentolino sul piatto. - È un po' amara, ma caccerà dal suo corpo gli umori velenosi. Dorma ancora un po', vedrà che dopo si sentirà molto meglio. Dorma pure tranquillo. Al suo risveglio mi troverà ancora qui.

 

Quando aprii gli occhi, fuori dalla finestra era calato il buio. Un vento molto forte faceva battere la pioggia contro i vetri. Il Colonnello era al mio capezzale.

- Allora? Si sente meglio?

- Sì, molto meglio di prima. Che ore sono adesso?

- Le otto di sera.

Cercai di alzarmi dal letto, ma vacillavo ancora un po'.

- Dove vuole andare? - chiese il Colonnello.

- Alla biblioteca. Devo leggere i vecchi sogni, - risposi.

- Non dica sciocchezze! Nelle sue condizioni non farebbe nemmeno cinque metri.

- Non posso assentarmi.

Il Colonnello scosse la testa. - I vecchi sogni possono aspettare. E poi sia il Guardiano sia la ragazza sanno che non si può muovere di qui, e la biblioteca è chiusa -. Con un sospiro andò fino alla stufa, riempi una tazza e tornò da me. Il vento cessò per un attimo, poi riprese a colpire la finestra.

- Da quel che ho capito, mi pare che le piaccia quella ragazza, - continuò il Colonnello. - Non avevo intenzione di chiederglielo, ma non ho potuto fare a meno di sentire. Per forza, standole accanto tutto il tempo! La gente quando ha la febbre delira e dice tante cose. Nulla di cui vergognarsi, intendiamoci. È normale che i giovani si innamorino. O mi sbaglio?

Io annuii in silenzio.

- È una brava ragazza. Ed era molto preoccupata per lei, - disse il Colonnello sorseggiando il suo tè. - Però cerchi di non innamorarsene, sarebbe una situazione senza sbocco. Non mi fa piacere dirle tutto ciò, ma ci sono alcune cose che devo spiegarle a questo proposito.

- Perché è meglio che non mi innamori di lei?

- Perché lei non può ricambiare il suo sentimento. Non è colpa di nessuno. Né della ragazza né sua. Se proprio vogliamo, è colpa di come è fatto il mondo. Però non lo si può cambiare. Come non si può invertire il corso di un fiume.

Mi alzai a sedere nel letto e mi strofinai la fronte con le mani. Avevo l'impressione che la faccia mi si fosse ristretta, fosse diventata un po' più piccola.

- Vuol dire che quella ragazza non ha un cuore?

Il Colonnello annuì.

- Cioè, dato che io ho un cuore e lei no, - proseguii, - per quanto la ami non sarò mai ricambiato. È così?

- Esattamente. Non sarebbe mai ricambiato. Come ha appena detto, la ragazza non ha un cuore. Io nemmeno. Non ce l'ha nessuno in questa città.

- Eppure, Colonnello, lei è estremamente gentile con me. Si preoccupa per me, è rimasto sveglio per curarmi. Non è l'espressione di un sentimento, questo?

- No, non è così. La gentilezza non è un sentimento. La gentilezza è una funzione indipendente. Una funzione superficiale, per la precisione. Una semplice abitudine, nulla a che fare con i sentimenti, con il cuore. Il cuore è qualcosa di più profondo, di più forte. E di più contraddittorio.

Chiusi gli occhi cercando di raccogliere a uno a uno i miei ricordi sparpagliati in tutte le direzioni e dar loro coesione.

- Sa cosa penso? - dissi. - Che se la gente non ha più il cuore è perché ha lasciato morire la propria ombra. Non crede?

- È esattamente così.

- Il che significa che quella ragazza non potrà mai riavere il suo cuore perché la sua ombra ormai è morta?

Il Colonnello annuì. - Sì, ho controllato all'anagrafe, il decesso è stato registrato. Per questo ne ho la certezza. L'ombra è morta quando la ragazza aveva diciassette anni ed è stata seppellita nel bosco di meli, secondo il regolamento. Anche questo è stato registrato. Se vuole informazioni più dettagliate può chiedere direttamente a lei. Forse sentendole dalla sua bocca si convincerà meglio. Vorrei aggiungere solo una cosa. A quella ragazza è stata strappata l'ombra prima che arrivasse all'età della ragione, di conseguenza è probabile che non si ricordi nemmeno di aver avuto un cuore, una volta. È un caso molto diverso dal mio, io ho abbandonato la mia ombra di mia volontà, quando ero già anziano. La gente come me nonostante tutto è in grado di immaginare i moti del cuore, quella ragazza no.

- Però si ricorda benissimo della madre. Mi ha detto che sua madre il cuore l'aveva ancora. Anche dopo che lei, la ragazza, aveva perso la sua ombra. Perché le cose siano andate cosi non lo so, ma non potrebbe essermi d'aiuto, questa circostanza? Può anche darsi che abbia ricevuto parte dei sentimenti della madre.

Il Colonnello fece girare alcune volte il tè che restava nella tazza, poi lo bevve lentamente.

- Mi ascolti bene, - disse. - La muraglia non si lascia sfuggire il minimo frammento di cuore. Anzi, se ne restasse anche una minima traccia, la risucchierebbe completamente. Oppure caccerebbe via chi la possiede. Come ha fatto con la madre della ragazza.

- Mi sta dicendo di non farmi alcuna illusione?

- Non voglio che in seguito resti deluso. Questa città è forte, e lei è debole. Dovrebbe saperlo, considerato quello che le è successo.

Per qualche momento il Colonnello fissò in silenzio l'interno della tazza vuota.

- Però può avere quella ragazza, se vuole.

- La posso avere?

- Sì. Può andare a letto con lei, anche vivere insieme a lei. Può realizzare qualunque desiderio, qui.

- Però, in tutto questo, quella cosa che si chiama cuore non esiste, vero?

- Non esiste. Ad ogni modo prima o poi anche il suo cuore sparirà. E quando sarà scomparso, lei non proverà più senso di perdita o delusione. E se ne andrà anche l'amore senza speranza. Resterà soltanto la vita. Una vita quieta e tranquilla. In cui voi due proverete attrazione l'uno per l'altra. Se è questo che vuole, lo può avere. E nessuno glielo potrà portare via.

- Che cosa strana! Ho ancora un cuore, ma ogni tanto mi sembra di perderlo di vista. Anzi, sono pochi i momenti in cui non mi succede. Eppure sono convinto che un giorno lo ritroverò, ed è questa convinzione che mi aiuta a conservare la coesione del mio essere. Perciò non riesco a immaginare bene cosa significhi perdere il cuore.

Il vecchio Colonnello annuì più volte in silenzio.

- Rifletta bene, - disse poi. - Le resta ancora molto tempo per riflettere.

- Rifletterò, - risposi.

 

Per molti giorni il sole non si fece vedere. Quando la febbre mi passò, mi alzai, andai alla finestra e inspirai l'aria esterna. Ero in grado di lasciare il letto, ma per un paio di giorni le forze non mi tornarono, al punto che non riuscivo a stringere la ringhiera delle scale o il pomo della porta. Per tutto quel periodo il Colonnello mi fece bere ogni sera il solito brodo amaro e mi fece mangiare una zuppa di riso bollito che preparava lui. Dopodiché si sedeva accanto al letto e mi raccontava vecchi ricordi di guerra. Io non gli chiesi più nulla riguardo alla ragazza o alla muraglia, né lui mi pose domande. Tutto ciò che doveva spiegarmi me l'aveva spiegato.

Il terzo giorno lo pregai di prestarmi la sua canna da passeggio e feci qualche giro intorno alla casa, per quanto le forze me lo permisero. Appena provai a camminare mi resi conto che il mio corpo era diventato molto leggero, probabilmente avevo perso peso a causa della febbre, tuttavia qualcosa mi diceva che la ragione non era soltanto quella. L'inverno dava a ogni cosa intorno una strana gravità. Soltanto io non rientravo in quel mondo appesantito.

Dalla collina su cui si ergeva la casa potevo vedere in diagonale la metà occidentale della città. Il fiume, la Torre dell'Orologio, la muraglia, e molto lontano, vagamente, il cancello principale. Dietro gli occhiali scuri, i miei occhi indeboliti non potevano distinguere nient'altro nel paesaggio, eppure mi rendevo conto che l'aria invernale portava la benedizione di una luminosità che la città non aveva mai avuto. Come se il vento stagionale che soffiava dalla catena settentrionale avesse spazzato via la polvere di colore indefinibile aderente a ogni mattone.

Contemplando il panorama, mi tornò in mente la mappa che dovevo consegnare alla mia ombra. A causa della malattia ero in ritardo di quasi una settimana rispetto alla data convenuta. La mia ombra doveva essere preoccupata per me, o forse aveva perso ogni speranza credendo che io l'avessi abbandonata. Quel pensiero mi rattristò parecchio.

Chiesi al Colonnello un paio di quei vecchi stivali che usava per lavorare, ne staccai la suola interna, vi infilai la mappa piegata piccola piccola e rimisi a posto il rivestimento. Ero sicuro che la mia ombra l'avrebbe trovata, che avrebbe fatto a pezzi gli stivali. Pregai il Colonnello di portarglieli lui, di consegnarglieli direttamente.

- Ha solo un paio di scarpe da ginnastica leggere: quando cadrà la neve si congelerà i piedi, - spiegai. - Non ho nessuna fiducia nel Guardiano, ma credo che a lei non farà difficoltà, non si opporrà all'incontro.

- Questo genere di cose non dovrebbe porre problemi, - rispose il Colonnello prendendo gli stivali.

Tornò sul far della sera dicendo che li aveva consegnati direttamente alla mia ombra.

- Era inquieta per lei, - aggiunse.

- Come le è sembrata?

- Mi pare che patisca un po' il freddo. Comunque nulla di preoccupante, sta ancora benone.

 

La sera del decimo giorno da quando mi ero ammalato, finalmente potei scendere dalla collina e recarmi alla biblioteca.

Appena aprii la porta, istintivamente pensai che l'aria all'interno fosse più viziata di prima. Come se la stanza fosse rimasta a lungo chiusa e nessuno vi avesse messo piede da molto tempo. La stufa era spenta, il bricco freddo. Sollevando il coperchio vidi che il caffè all'interno era ammuffito. Il soffitto mi parve più alto del solito. Anche le luci erano spente, l'unico rumore che si sentiva nell'oscurità era quello stranamente polveroso dei miei passi. La ragazza non si vedeva da nessuna parte, il banco era coperto da uno spesso strato di polvere.

Non sapendo cosa fare, decisi di sedermi sul sedile di legno e aspettare che lei arrivasse. La porta non era chiusa a chiave, segno che sarebbe certamente venuta. Tremando per il freddo, rimasi fermo ad attenderla. Ma il tempo passava e lei non compariva. Soltanto il buio si faceva sempre più fitto. Avevo l'impressione che ogni cosa al mondo fosse scomparsa, lasciando lì me e la biblioteca. Ero rimasto solo nella fine del mondo. Potevo protendere la mano quanto volevo, non avrei trovato nulla.

La stanza era pervasa dalla pesantezza dell'inverno. Ogni oggetto sembrava saldamente inchiodato al pavimento e al tavolo. Seduto da solo nell'oscurità, sentivo diverse parti del mio corpo perdere il loro giusto peso, espandersi e restringersi a loro capriccio. Come quando si sta davanti a uno specchio deformante e si fanno piccoli movimenti.

Mi alzai dal sedile e girai l'interruttore della luce. Poi presi qualche palata di carbone dal secchio, lo gettai nella stufa e strofinai un fiammifero per accendere il fuoco. Tornai a sedermi. Dopo aver illuminato la stanza e acceso il fuoco, mi parve che facesse ancora più buio e più freddo.

 

Probabilmente ero troppo assorto in me stesso. Oppure il torpore che mi restava ancora in corpo mi aveva indotto a un breve sonno. Tutt'a un tratto però mi accorsi che lei era davanti a me e mi guardava in silenzio. Poiché la luce della lampada la colpiva di schiena come pulviscolo giallo, la sua figura era avvolta da un'ombra vaga. Alzai gli occhi e rimasi un momento a fissarla. Indossava il solito cappotto azzurro, aveva infilato nel colletto i capelli legati sulla nuca. Il suo corpo portava l'odore del vento invernale.

- Pensavo che non saresti più venuta, - dissi. - È da un sacco di tempo che ti sto aspettando.

Lei gettò via il caffè vecchio, sciacquò il bricco, vi mise altro caffè e lo posò sulla stufa. Poi tirò fuori dal colletto i capelli, si tolse il cappotto e lo appese all'attaccapanni.

- Perché hai pensato che non venissi più? - chiese.

- Non lo so, - risposi. - Era solo una mia impressione.

- Finché avrai bisogno di me io sarò qui. Tu hai bisogno di me, vero?

Feci un cenno di assenso. Sì, era vero, avevo bisogno di lei.

Più la vedevo più il mio senso di perdita si acuiva, eppure mi era necessaria.

- Vorrei che tu mi parlassi della tua ombra, - dissi. - Non è escluso che fosse lei, quella che ho conosciuto nel vecchio mondo.

- Sì, forse. Anch'io all'inizio l'ho pensato. Quando hai detto che poteva darsi che ci fossimo già incontrati.

La ragazza si sedette davanti alla stufa e per un po' rimase a guardare il fuoco al suo interno.

- Quando avevo quattro anni, la mia ombra mi è stata strappata ed è stata gettata al di là della muraglia. Ha vissuto nel mondo esterno, io invece in questo qui, all'interno. Non so cosa abbia fatto là fuori. Come lei non sapeva nulla di me. È tornata in questa città ed è morta quando io avevo diciassette anni. E il Guardiano l'ha seppellita nel bosco di meli. Le ombre fanno sempre ritorno in punto di morte.

- E così tu sei diventata un'abitante della città al cento per cento, giusto?

- Sì. Quel che restava del mio cuore è stato sepolto insieme alla mia ombra. Tu hai detto che il cuore è come il vento, ma non credi che siamo noi, invece, simili al vento? Passiamo soltanto, senza pensare a nulla. Senza mai invecchiare, senza mai morire.

- Quando la tua ombra è tornata, l'hai vista?

La ragazza scosse la testa. - No, non l'ho vista. Che ragione avevo d'incontrarla? Era un'entità del tutto separata da me.

- Invece può darsi che quella fossi proprio tu.

- Può darsi. Ma in ogni caso ormai fa lo stesso. Ormai il cerchio si è chiuso.

Il bricco sopra la stufa cominciò a borbottare. Alle mie orecchie suonò come un vento che soffiasse a chilometri di distanza.

- Nonostante quello che ti ho detto, hai ancora bisogno di me? - chiese lei.

- Sì, - risposi.