Terminati i miei acquisti, parcheggiai nel posteggio di un ristorante nelle vicinanze, ordinai una birra, un'insalata di gamberi e delle cipolle fritte, e mangiai da solo in silenzio. I gamberi erano troppo freddi e le cipolle un po' troppo gonfie. Gettai uno sguardo circolare per il locale, ma non vedendo altri clienti che si lamentassero con la cameriera o battessero contro il piatto, decisi di finire tutto senza protestare. È perché si hanno delle aspettative che si resta delusi.
Dalle finestre del ristorante si vedeva l'autostrada. Vi sfrecciavano automobili di vari colori e modelli. Guardandole, ripensai al vecchio eccentrico da cui ero stato il giorno prima e alla sua grassa nipote. Mi ispiravano simpatia, ma sembravano vivere in un mondo surreale, al di là della mia comprensione. Quell'assurdo ascensore e quella cavità gigantesca che si apriva in fondo a un armadio... e poi gli Invisibili, e il fatto di togliere il suono... tutto era anormale. E come se non bastasse, quando me n'ero andato avevo ricevuto in dono il teschio di un animale.
Finito di pranzare, mentre aspettavo il caffè, per ammazzare il tempo cercai di ricordarmi ogni dettaglio fisico di quella ragazza grassa. I grossi orecchini quadrati, il tailleur rosa, i tacchi a spillo, e le caviglie, il collo, la forma del viso, tutto. Ogni particolare era impresso in maniera relativamente chiara nella mia memoria, ma se cercavo di rievocare la sua figura intera, l'immagine si sfocava. Doveva essere perché negli ultimi tempi non ero andato a letto con ragazze grasse, mi dissi. Per questo non riuscivo a ricordare come fossero fatte. Dall'ultima volta erano passati quasi due anni.
Però il vecchio aveva ragione: non basta dire che uno è grasso, ci sono molti modi di esserlo. Una volta - era l'anno dell'affare dell'Armata Rossa - ho fatto l'amore con una ragazza che aveva un sedere e delle cosce a dir poco eccezionalmente grassi. Era un'impiegata di banca con la quale avevo preso un po' di confidenza a forza di incontrarla allo sportello, tanto che eravamo andati a bere qualcosa insieme e poi eravamo finiti a letto. Fu solo quando feci l'amore con lei che mi resi conto di quanto fosse voluminosa la metà inferiore del suo corpo. L'avevo sempre vista dall'altra parte del bancone e non mi ero reso conto di come fosse fatta dalla vita in giù. Mi spiegò che era tutta colpa del ping-pong, gioco che aveva praticato a lungo quando era studentessa. Non afferravo il nesso tra le due cose, prima di allora non avevo mai sentito dire che giocare a ping-pong facesse sviluppare la metà inferiore del corpo.
Nella sua pinguedine la ragazza era molto attraente. Tenere la testa posata sulla sua anca era come stare sdraiati in un campo in primavera, in un pomeriggio di sole. Le sue cosce erano morbide come futon ben sprimacciati, e la loro curva rigonfia conduceva dolcemente al pube. Quando le confidai che trovavo seducente il suo modo di essere grassa - sono il tipo che quando qualcosa gli piace lo dice subito - lei fece soltanto: «Ah, davvero?» con l'aria di non credere troppo alle mie parole.
Naturalmente ho anche fatto l'amore con una ragazza interamente grassa, dalla testa ai piedi. E con un'altra robusta e tutta muscoli. La prima era un'insegnante di organo elettrico, la seconda una stilista free lance. È come vi dico, ci sono molti modi di essere grassi.
Più aumenta il numero delle ragazze con cui si va a letto, più si sviluppa una tendenza all'analisi scientifica. Con la conseguenza che il piacere sessuale a poco a poco diminuisce. Ovviamente il desiderio sessuale in sé non ha nulla di scientifico. Però, quando imbocca un determinato canale, a un certo punto sfocia in una cascata - i rapporti sessuali - sotto la quale si forma un lago dove si sviluppa facilmente un certo spirito scientifico. È allora che, come per il cane di Pavlov, si crea un cortocircuito della coscienza che lega direttamente il desiderio sessuale al lago sotto la cascata. Ma può anche darsi che tutto questo sia soltanto dovuto al fatto che sto invecchiando.
Smisi di pensare ai corpi nudi delle ragazze grasse, pagai il conto e uscii dal ristorante. Poi andai fino alla biblioteca del quartiere e chiesi alla bibliotecaria - una ragazza snella, dai capelli lunghi, che stava seduta dietro il banco - se per caso non avevano qualcosa sul cranio dei mammiferi. Lei, che era immersa nella lettura di un libro in edizione tascabile, alzò la testa a guardarmi:
- Mi scusi? - disse.
- Qualcosa - sul - cranio - dei - mammiferi, - ripetei io staccando bene le parole.
- Il cranio dei mammiferi, - fece lei come se recitasse il ritornello di una canzone. O il titolo di una poesia. Sembrava un poeta che prima di leggere ad alta voce una sua opera ne annunci il titolo al pubblico. Mi domandai perplesso se quello fosse il tono che usava con chiunque venisse a chiederle informazioni.
Come se dicesse Storia del teatro delle marionette, oppure Iniziazione alla bellezza del gioco del «go»{1}, quelli sì che sarebbero stati titoli stupendi.
La bibliotecaria rifletté brevemente mordendosi il labbro inferiore.
- Aspetti un momento per favore, - disse poi. - Controllo subito -. Fece una giravolta con la sedia e sulla tastiera del computer batté la parola «mammiferi». Sullo schermo apparvero una ventina di voci. Ne cancellò i due terzi con la penna apposita, salvò le rimanenti, quindi batté la parola «scheletro». Apparvero sette o otto voci. Ne ritenne due e le salvò nella stessa casella. Anche le biblioteche non sono più quelle di una volta! Ormai sono lontani i tempi in cui dietro il libro che si prendeva in prestito veniva attaccata una busta nella quale si infilava un foglio di registrazione. Quando ero bambino, mi piaceva moltissimo guardare le date dei timbri allineate su quel foglio.
Mentre la bibliotecaria maneggiava la tastiera con l'abilità di chi ne ha l'abitudine, io rimasi a guardare la sua schiena sottile e i suoi lunghi capelli. Non sapevo decidere se mi piacesse o no. Era molto bella, gentile, sembrava intelligente, parlava come se leggesse il titolo di una poesia. Nemmeno una ragione che mi impedisse di trovarla seducente.
La ragazza accese la stampante, fece una copia di quanto era apparso sullo schermo e me la porse.
- Scelga tra questi nove volumi, per favore, - mi disse.
1. Guida ai mammiferi
2. Atlante illustrato dei mammiferi
3. Lo scheletro dei mammiferi
4. Storia dei mammiferi
5. Io, un mammifero
6. Anatomia dei mammiferi
7. Il cervello dei mammiferi
8. Lo scheletro degli animali
9. Le ossa parlano.
La mia tessera mi permetteva di prenderne in prestito tre. Scelsi i numeri 2, 3 e 8. Io, un mammifero o Le ossa parlano dovevano essere interessanti, ma non avevano una relazione diretta con il mio problema, avrei avuto altre occasioni di consultarli.
- Sono desolata, - disse la ragazza grattandosi la tempia con la penna biro, - ma l'Atlante illustrato dei mammiferi non può uscire dalla biblioteca, non posso prestarglielo.
- Senta, - risposi, - è una faccenda molto, molto grave, non può lasciarmelo anche soltanto per un giorno? Le giuro che glielo riporto entro domani mattina, lei non avrà nessuna noia.
- Già, ma gli atlanti illustrati sono molto richiesti, e se si viene a sapere che ho dato via un libro che è vietato prestare, poi chi lo sente, il capo?
- Un giorno, un giorno solo. Nessuno si accorgerà di nulla.
Lei esitò ancora per alcuni istanti, duranti i quali appoggiò la punta della lingua contro il bordo interno dei denti inferiori: una lingua rosa e carinissima.
- Okay, concesso. Ma solo per questa volta, eh? E lo riporti domani mattina entro le nove e mezza, mi raccomando!
- Grazie.
- Prego.
- Cioè, vorrei fare qualcosa per ringraziarla, cosa le farebbe piacere?
- Be', qui di fronte vendono dei gelati della Thirty One, perché non va a comprarmene uno? Un cono doppio, pistacchio e caffè. Sicuro che se lo ricorda?
- Un cono doppio, pistacchio e caffè, - ripetei.
Uscii dalla biblioteca e mi diressi verso la gelateria, mentre lei andava a prendermi i libri nelle sale interne. Quando tornai con il gelato non era ancora riapparsa, così rimasi ad aspettarla davanti al banco, il cono nella mano sinistra. Alcuni anziani che stavano leggendo il giornale guardavano ora la mia faccia ora il gelato con aria meravigliata. Per fortuna il gelato era un pezzo di ghiaccio, non si sarebbe sciolto subito. Starmene fermo con un gelato in mano senza mangiarlo mi metteva stranamente a disagio, mi sentivo come una statua di bronzo abbandonata.
Il libro che la ragazza stava leggendo era appoggiato a faccia in giù sul banco, accucciato come un coniglietto. Si trattava del secondo volume della Macchina del tempo, la biografia dello scrittore H. G. Wells. Non era un volume appartenente alla biblioteca, doveva essere suo. Accanto al libro erano posate tre matite ben appuntite. E sette o otto fermagli da carta. Non mi spiegavo cosa ci stessero a fare lì.
Forse tutt'a un tratto nel mondo i fermagli da carta si stavano moltiplicando. Oppure si trattava di un fatto puramente casuale, ero io che me ne preoccupavo più del necessario. Eppure c'era qualcosa di strano, di sbagliato. Dovunque andassi c'erano dei fermagli sparpagliati, come se qualcuno li avesse preparati apposta perché io li notassi. Qualcosa non quadrava nella mia mente. E di recente erano troppe le cose che non quadravano. Crani di animali, fermagli da carta... Avevo l'impressione che ci fosse un qualche nesso tra quegli oggetti, ma non riuscivo a immaginare quale potesse essere.
Finalmente la ragazza dai capelli lunghi tornò tenendo fra le braccia i tre volumi. Me li diede, in cambio prese il gelato, si sedette dietro il banco e si mise a mangiare, piegandosi in avanti in modo da non farsi notare. Vista dall'alto, la sua nuca indifesa era bellissima.
- Grazie mille, - mi disse.
- No, grazie a lei, - risposi. - A proposito, a cosa le servono questi fermagli da carta?
- I fermagli da carta? - ripeté lei come se cantasse. - A tenere insieme dei fogli di carta, suppongo. Li conosce, no? Ce ne sono ovunque, li usano tutti.
Aveva ragione. Salutai, presi i miei libri e uscii dalla biblioteca. Si trovavano ovunque, i fermagli da carta. Con mille yen se ne potevano comprare tanti da bastare per tutta la vita. Andai in cartoleria e ne comprai per mille yen. Poi tornai a casa.
Una volta rientrato, sistemai le provviste nel frigorifero. Avvolsi la carne e il pesce nella pellicola trasparente, misi nel congelatore il cibo che andava congelato, compreso il pane e il caffè in grani. Riempii d'acqua una ciotola e vi immersi i fagioli. Collocai nel frigo anche la birra e la verdura, spostando in avanti quella che c'era in precedenza. Appesi i vestiti nell'armadio, disposi i detersivi negli armadi della cucina. Poi sparpagliai un po' di fermagli da carta sopra il televisore, accanto al teschio.
Un accostamento strano.
Strano come un cuscino di piume accanto a del ghiaccio, o dell'inchiostro con dell'insalata. Andai sul balcone per osservare la scena da lontano. Stessa impressione. Il teschio e i fermagli non avevano nulla in comune. Eppure tra loro doveva esserci un qualche legame segreto che io non conoscevo, o che non ricordavo.
Mi sedetti sul letto e rimasi a lungo a guardare gli oggetti posati sul televisore. Non mi venne in mente nulla. Solo il tempo trascorreva a tutta velocità. Un'ambulanza, poi una macchina che faceva propaganda per l'estrema destra passarono sotto la finestra della cucina. Mi venne voglia di bere un whisky, ma decisi di rinunciare. Per un certo periodo dovevo far funzionare il cervello in piena lucidità. Dopo qualche minuto, la macchina che faceva propaganda per la destra ripassò in senso inverso. Che avesse sbagliato strada? Le vie sono complicate in questo quartiere, fanno mille giri.
Rinunciai a riflettere, mi alzai, andai a sedermi al tavolo della cucina e cominciai a sfogliare i libri che avevo preso in prestito alla biblioteca. Prima di tutto cercai gli erbivori di taglia media, studiando la forma del cranio di ognuno. Ce n'erano molti di più di quanto avessi immaginato. Solo di tipi di cervo ne contai una trentina.
Andai a prendere sopra il televisore il teschio che avevo ricevuto in regalo, lo portai sul tavolo della cucina e lo confrontai con ogni singola immagine riportata sui libri. In un'ora e venti minuti passai in rivista il cranio di novantatré animali, ma non ce n'era uno che corrispondesse. A quel punto ero in un vicolo cieco.. Chiusi i libri e li spostai in un angolo del tavolo, poi sollevai le braccia e mi stirai. Bella fregatura.
Rassegnato, mi ero disteso sul letto a guardare Un uomo tranquillo di John Ford in videocassetta, quando suonò il campanello della porta d'ingresso. Andai a vedere dallo spioncino: sul pianerottolo vidi un uomo di mezza età che indossava l'uniforme degli impiegati del gas. Aprii la porta senza togliere la catena di sicurezza e domandai cosa volesse.
- È per controllare che non ci siano fughe di gas, - disse l'uomo.
- Aspetti un momento, - risposi. Tornai in cucina, presi il coltello che avevo lasciato sul tavolo, lo infilai nella tasca dei pantaloni e andai ad aprire. Era appena passato un ispettore il mese precedente. Inoltre l'atteggiamento di quell'uomo non mi convinceva.
Ad ogni modo feci finta di nulla e continuai a guardare Un uomo tranquillo. Il sedicente impiegato del gas controllò prima lo scaldabagno con uno strumento simile a quelli per misurare la pressione, poi andò in cucina, dove il teschio di mammifero era rimasto sul tavolo. Senza abbassare il volume della televisione mi avvicinai in punta di piedi, giusto in tempo per vederlo che cercava di infilare il teschio in un sacco di plastica nero. Estraendo la lama del coltello balzai nella stanza, afferrai l'uomo da dietro bloccandogli le braccia e gli misi il coltello sotto il naso. Lui mollò immediatamente il sacco di plastica sul tavolo.
- Non avevo cattive intenzioni, - si difese con voce tremante. - Quando l'ho visto non ho resistito alla tentazione di prenderlo e l'ho infilato nel sacco. Un impulso improvviso. Mi perdoni.
- Non perdono un bel nulla, - dissi. Figurarsi, un impiegato del gas che vede un teschio su un tavolo in una cucina e prova il desiderio irresistibile di averlo! - Se non mi dice la verità le taglio la gola, - aggiunsi, una minaccia che suonò del tutto falsa alle mie orecchie, ma non a quelle dell'uomo.
- Mi scusi, le dirò tutto. Mi lasci andare, - fece lui. - In realtà mi hanno pagato per rubarlo. Stavo camminando per strada, quando mi si sono avvicinati due uomini che mi hanno dato cinquantamila yen chiedendomi se volevo fare un lavoretto per loro. Se gli avessi portato quello che volevano, dopo me ne avrebbero dati altri cinquantamila. Io non avevo nessuna voglia di accettare, ma uno dei due era grande e grosso: se avessi detto di no, di sicuro mi avrebbe ridotto male. Volente o nolente, non ho potuto rifiutare. La prego, non mi uccida. Ho due figlie ancora al liceo.
- Due figlie e tutt'e due liceali? - chiesi, poco convinto.
- Sì, una al primo anno e una al terzo, - rispose l'uomo.
- Mmh... - feci. - E in quale liceo vanno?
- La prima al comunale Shimura, la seconda al Futaba a Yotsuya, - rispose lui. L'abbinamento era un poco anomalo, ma non mancava di realismo. Decisi di credere alle sue parole.
Per precauzione, senza togliergli il coltello dalla gola, gli sfilai il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni e controllai all'interno. C'erano cinquantasettemila yen, i cinquantamila in banconote da dieci nuove di zecca. La licenza di ispettore dell'azienda del gas di Tokyo e una foto a colori della sua famiglia. Le due ragazze erano in kimono da cerimonia. Nessuna delle due era una bellezza. Alte uguali, difficile dire quale frequentasse il liceo Shimura, quale il liceo Futaba. Trovai anche una tessera delle Ferrovie statali, valida fra le stazioni di Sugamo e Shinanomachi. No, l'uomo non sembrava pericoloso. Allontanai il coltello e lo liberai.
- Se ne può andare, - gli dissi restituendogli il portafoglio.
- Grazie, la ringrazio infinitamente, - rispose lui. - Adesso, però, cosa mi succederà? Ho preso i soldi, ma se torno senza la roba...
Gli dissi che non ne avevo la minima idea. I Semiotici - i mandanti dovevano essere i Semiotici - si comportavano in maniera incoerente, dipendeva dalle situazioni. Lo facevano apposta, perché non si potesse mai indovinare la loro linea di condotta. Poteva darsi che gli facessero schizzare gli occhi fuori dalle orbite con un coltello, oppure che gli dessero i cinquantamila yen restanti ringraziandolo per il disturbo. Chi poteva saperlo?
- Uno di loro era grande e grosso, ha detto? - chiesi.
- Sì, uno dei due era enorme, l'altro minuscolo. Non più alto di un metro e mezzo. Quello piccolo era vestito bene. Ma dall'aspetto sembravano tutti e due dei delinquenti.
Spiegai all'uomo come uscire dal retro passando dal garage. È una porta che dà su un vicolo stretto, difficilmente visibile dalla strada principale. Con un po' di fortuna, sarebbe riuscito a svignarsela senza farsi vedere dai due compari.
- Grazie, grazie di cuore, - disse l'uomo col tono di chi è stato salvato. - Posso anche chiederle di non riferire l'accaduto alla mia agenzia?
Lo rassicurai, non avrei detto nulla. Poi lo mandai via, chiusi a chiave la porta e misi la catena. Andai a sedermi su una sedia in cucina, posai il coltello sul tavolo e tirai fuori il teschio dal sacco di plastica. Una sola cosa mi era chiara. I Semiotici volevano quel teschio. Il che voleva dire che per loro aveva un grande valore.
Per il momento eravamo pari. Io avevo il teschio ma non ne conoscevo il significato. Loro questo significato lo conoscevano - oppure grossomodo lo indovinavano - ma non avevano il teschio. Fifty-fifty. Adesso potevo scegliere tra due soluzioni: la prima era chiamare il Sistema e spiegare come stavano le cose, chiedendo che mi proteggessero dai Semiotici o che portassero il teschio da qualche altra parte. La seconda era mettermi in contatto con la ragazza grassa e chiederle il significato di quell'oggetto. Però ero riluttante a trascinare il Sistema in quella storia, probabilmente mi avrebbero sottoposto a un interrogatorio noiosissimo. Le vaste organizzazioni non mi vanno proprio a genio. Sono troppo rigide, sprecano tempo ed energie. E vi abbondano i cretini.
Tuttavia non sapevo come fare per mettermi in contatto con la ragazza grassa. Il numero di telefono del suo ufficio non lo conoscevo. Potevo sempre recarmi direttamente sul posto, ma per il momento uscire di casa era pericoloso, e d'altronde non era pensabile che senza un appuntamento mi lasciassero entrare in un palazzo fornito di tali dispositivi di sicurezza.
Così alla fine decisi di non fare nulla.
Presi nuovamente in mano le molle da fuoco e riprovai a battere leggermente sul teschio. Il suono che ne uscì era lo stesso rantolo roco di prima, ma facendo bene attenzione mi resi conto che sembrava venire da un punto preciso.
Ripetei l'operazione parecchie volte, finché non riuscii a individuarne l'origine esatta: la leggera cavità di circa un paio di centimetri di diametro che si trovava sulla fronte. La carezzai leggermente col polpastrello, tutt'intorno. Una sensazione un po' ruvida, diversa da quella che si prova di solito toccando un osso. Come se qualcosa ne fosse stato estirpato con violenza. Qualcosa... un corno, per esempio?
Un corno?
Se si trattava davvero di un corno, quello che avevo tra le mani era il teschio di un unicorno. Mi rimisi a sfogliare l'Atlante illustrato alla ricerca di un mammifero che avesse un corno solo sulla fronte. Ma per quanto cercassi, niente, un tale animale non esisteva. Al limite il rinoceronte, ma a giudicare dalla forma e dalla grandezza, quello che avevo davanti non poteva essere il teschio di un rinoceronte.
Rassegnandomi all'evidenza, tirai fuori dal frigo dell'acqua e mi preparai un Old Crow con ghiaccio. Ormai il sole era al tramonto, non c'era niente di male se mi concedevo un whisky. Poi aprii una scatola di asparagi. Vado pazzo per gli asparagi bianchi. Quando li ebbi mangiati tutti, mi preparai un sandwich alle ostriche affumicate. E bevvi un altro whisky.
Il cranio dunque era appartenuto a un unicorno. Era la spiegazione più pratica, decisi. Altrimenti non c'era modo di avanzare.
Avevo in mano il cranio di un unicorno.
Roba da matti, mi dissi. Perché certe assurdità capitavano sempre a me? Cosa mai avevo fatto per meritarlo? Ero soltanto un Cibermatico indipendente, dotato di senso pratico, senza particolari ambizioni né avidità. Non avevo famiglia, non avevo amici, non avevo una fidanzata. Quando avessi messo da parte un bel po' di soldi, dopo essermi ritirato dalla professione, avrei imparato a suonare il violoncello, o magari a parlare greco, e avrei passato una vecchiaia tranquilla. Questo era il mio ideale di vita. Per quale ragione al mondo dovevo avere a che fare con unicorni, suoni soppressi e altre balordaggini del genere?
Finito il mio secondo whisky, andai in camera da letto, cercai sulla guida del telefono il numero della biblioteca, chiamai e chiesi della persona alla reception. Dopo dieci secondi mi passarono la ragazza dai capelli lunghi.
- Qui l'Atlante illustrato, - dissi.
- Ah, grazie per il gelato, - rispose lei.
- Non c'è di che. A proposito, avrei un altro favore da chiederle, se posso permettermi.
- Un favore? Dipende da cosa.
- Vorrei che lei mi cercasse delle notizie sugli unicorni.
- Sugli unicorni?
- Chiedo troppo?
Ci fu un breve silenzio. La immaginai mentre si mordeva il labbro inferiore.
- Cosa dovrei cercare, riguardo agli unicorni?
- Tutto.
- Senta, sono le quattro e cinquanta, prima della chiusura abbiamo un sacco di cose da fare, non posso accontentarla. Perché non viene domani appena la biblioteca apre? Così potrà cercare tranquillamente informazioni sugli unicorni, sui tricorni, su tutto quello che vuole.
- Ho una fretta tremenda, ed è una faccenda spaventosamente importante.
- Mmh... quanto importante?
- C'è di mezzo l'evoluzione.
- L'evoluzione? - ripeté la ragazza. Pareva un po' sorpresa. Doveva dirsi che ero pazzo, oppure un puro di cuore che sembrava pazzo. Pregai che optasse per la seconda soluzione, magari avrebbe avuto nei miei confronti un minimo di interesse umano. Un breve silenzio scandito da un pendolo immaginario.
- Con «evoluzione» intende forse quel fenomeno che è in atto da milioni di anni? Perché in tal caso non capisco il motivo di tanta fretta. Può anche aspettare un giorno in più.
- C'è l'evoluzione che ci mette milioni di anni e c'è quella che ci mette solo tre ore. Non è una cosa che si possa spiegare in due parole per telefono. Però la prego, mi creda, è veramente una cosa della massima urgenza. Ne va dell'evoluzione umana nell'immediato futuro.
- Come in 2001 : Odissea nello spazio?
- Esattamente L'avevo visto e rivisto un sacco di volte in videocassetta quel film.
- Senta, lo sa quello che penso di lei?
- Sì, che sono o un pazzo fondamentalmente buono, o un pazzo fondamentalmente cattivo, e non sa quale delle due cose sia giusta. Mi sbaglio?
- No, non sbaglia.
- Non tocca a me dirlo, ma non sono tanto cattivo, - affermai. - E se proprio vuole sapere la verità, non sono nemmeno pazzo. Forse sono un po' eccentrico, un po' ostinato, e detesto la gente troppo sicura di sé, ma non sono pazzo. Probabilmente a tante persone non piaccio, ma nessuno ha mai dubitato della mia integrità mentale.
- Mmh... be', ad ogni modo si esprime con proprietà di linguaggio. E non sembra neanche un mostro di perfidia, mi ha pure comprato un gelato... D'accordo, vediamoci stasera alle sei e mezza al caffè vicino alla biblioteca. Le porterò il libro. Per lei va bene?
- Le cose non sono tanto semplici. Mi trovo in circostanze particolari, che ora non posso spiegarle così su due piedi, ma il fatto è che non posso allontanarmi da casa. Non so come scusarmi.
- Il che significa, - fece la ragazza mettendosi a picchiettare con l'unghia contro un incisivo, o perlomeno così mi parve, che mi sta chiedendo di portarle il libro a casa sua? Forse ho capito male.
- A essere franco, è esattamente quello che vorrei, - risposi.
- È ovvio però che non è una richiesta, è solo una preghiera.
- Fa proprio affidamento sulla mia cortesia.
- Esatto. Gliel'ho detto che mi trovo in circostanze particolari.
Ci fu un lungo silenzio. Non perché fosse stato tolto il suono, lo capii dal fatto che nella biblioteca risuonò la melodia che indicava la chiusura. Semplicemente lei stava zitta.
- Sono cinque anni che lavoro qui, - disse poi, - ma una persona con la sua faccia tosta non l'ho mai incontrata. Mi chiede di portarle i libri a casa. E non ci eravamo mai visti prima. Si rende conto, vero, della sua impudenza?
- Me ne rendo conto benissimo. Ma in questo momento non posso fare diversamente. Sono bloccato da tutti i lati. Ha ragione, posso solo contare sulla sua gentilezza.
- Incredibile, - fece lei. - Be', mi dica come posso arrivare a casa sua.
Tutto contento, glielo spiegai.