Cara talpa,
i primi giorni sono stati i più difficili. Tu sei arrivata dopo e non li hai visti. Dico i giorni subito dopo il 21 febbraio, quando abbiamo saputo dei primi casi e abbiamo capito che la situazione era grave. Non era ancora lockdown, né pandemia. Eravamo liberi. Ma spersi. Non sapevamo i numeri, le dimensioni del pericolo; capivamo che era grave, ma lo capivamo in un modo oscuro e confuso, che moltiplicava l’ansia.
Abbiamo cominciato, in quei giorni, a fare la spesa con circospezione, a camminare rallentando se ci veniva incontro una persona, o passare sull’altro marciapiede, a non stringerci più la mano né abbracciarci tra amici e parenti. Anche prendere il caffè al bar e comprare i giornali erano gesti che di colpo ci chiedevamo se fare o no, abbiamo cominciato a pensare che non erano indispensabili, che con molto rincrescimento potevamo farne a meno.
Ecco, farne a meno è l’espressione che cominciava ad accompagnarci. Di quante cose potevamo fare a meno?
Ricordo l’ultima volta che siamo andati al ristorante, Luca e io. Eravamo stanchi, spossati dall’ansia. Quella sera dovevamo andare al nostro solito, amato ristorante, tenuto da un caro amico: avevamo prenotato da una settimana, per festeggiare una nostra ricorrenza.
Ci chiedemmo se disdire.
Passammo la giornata intera a farci questa domanda, muta. La ragione ci diceva che non era saggio andarci, i ristoranti sono luoghi affollati; eravamo ben lungi dall’immaginare che di lì a poco li avrebbero chiusi, ma così, per intuito, un rischio lo vedevamo. Decidemmo all’ultimo, mezz’ora prima: di andarci. Prevalse il piacere di vedere il nostro amico, e gustare i buoni piatti che sua moglie cucina. Credo che ci fu anche, inconscio, il desiderio di negare quel che stava capitando, far finta di niente, affermare che non era possibile, di colpo, perdere la nostra gioia di vivere.
Pioveva. Andammo a piedi, e per due chilometri non incontrammo un’anima. Il ristorante era vuoto, solo un tavolo occupato, da due persone. La vista di quella sala, che eravamo abituati a trovare sempre allegra e chiassosa, ora ci fece male. Ordinammo i nostri piatti preferiti, e per finire frittelle di mele e il liquore liquirizia e menta che fa il nostro amico. Ma nulla ci confortò. C’era nell’aria un senso di fine che non avevamo mai percepito prima.
Siamo riusciti ancora a sbrigare alcune faccende, in quei giorni, prima che ci chiudessero il mondo. Andare in banca, dal dentista. Ma sentivamo la morsa che stringeva, era come se avessimo un tempo limitato.
Soprattutto cominciava a serpeggiare in noi il pensiero sottile d’aver contratto la malattia. Sapevamo della finestra di tempo, che intercorre dal contagio ai primi sintomi. Quindici giorni.
È stato lì che è partito il tormento. Quando ci hanno chiusi nelle case, ormai era tardi, potevamo già esserci infettati. Sia io che Luca avevamo viaggiato molto, in febbraio, per lavoro. Io, che da mesi rifiutavo quasi tutti gli impegni per starmene tranquilla a scrivere, avevo fatto, proprio verso il 20 febbraio, un viaggio lungo e complicato, in cui avevo preso treni sovraffollati ed ero venuta a contatto con un sacco di gente.
Abbiamo passato quei quindici giorni ad aspettare i sintomi. Li sentivamo arrivare, ogni giorno un sintomo diverso: una volta era il naso chiuso, una volta gli occhi che bruciano, o mal di gola, un accenno di tosse, stanchezza, inappetenza, mal di testa. Tutto diventava un sintomo.
Il nostro medico di base, per una sfortunata casualità, non c’era. Telefonavamo ad amici medici chiedendo il favore di una diagnosi lampo, l’abbozzo di una cura, parole di conforto.
A un certo punto, in piena notte, convinta di avere tutti i sintomi, chiamai il numero verde della Regione. Ci avevano detto di fare quel numero, in caso di sospetta malattia. Rimasi appesa cinquantadue minuti. Mi rispose una voce maschile, gentile, ma quando cominciai a parlare cadde la linea. Dovetti fare tutto da capo. Altri quarantacinque minuti d’attesa, poi mi rispose una voce, femminile. Le raccontai tutto, del viaggio in treno dove avevo potuto entrare in contatto col virus e dei sintomi. Mi lasciò parlare fino in fondo, poi mi disse che lì da loro non c’erano medici, quindi non potevo avere un parere medico, che non era quello il numero da fare, e che dovevo parlare col mio medico di base.
Il numero verde della Regione faceva capo a una specie di call center...
Mi sentii perduta.
Per fortuna i sintomi galleggiavano inerti, non evolvevano. E noi stavamo lì, rinchiusi, impauriti. Avevamo una paura sospesa, ecco, che non scendeva e non saliva. Stava a mezz’aria. Eravamo convinti che uno dei due, o entrambi, ce lo fossimo preso, il virus. Era una convinzione del tutto irrazionale, triste e pacata.
E lì abbiamo cominciato una lenta e dolorosa operazione, a cui mai prima avevamo pensato: abbiamo cominciato a far ordine.
Ordine tra le carte bancarie e i documenti, prima di tutto. Poi tra le foto, le lettere, le pagelle di scuola. Tra i libri. Tra le nostre infinite cartelline, di appunti, schemi, scritti abbozzati, articoli fotocopiati, poesie dimenticate. Poi tra gli oggetti, quali buttare e quali tenere, quali potevano avere un significato per nostro figlio e quali invece ne avevano uno solo per noi, e a lui sarebbero risultati muti.
Era una specie di testamento, era evidente. Non tanto per dire a chi lasciare (era facile, avendo un figlio solo), quanto per dire cosa e come e perché lasciare. Per esempio mi misi a fare un lavoro strano: mi misi ad attaccare etichette e bigliettini sugli oggetti, dove spiegavo la provenienza e le ragioni per cui quegli oggetti li avevo conservati. Per esempio una vecchia e brutta teiera: se non scrivevo su un bigliettino che era l’unico regalo di nozze che i miei avevano ricevuto, per qual motivo mai mio figlio avrebbe potuto decidere di tenerla, brutta com’era?
Ci rendemmo conto che era a lui, a nostro figlio, che pensavamo. Nostro figlio che vive da molti anni lontano. Per la prima volta pensavamo a lui in un tempo dopo di noi, quando sarebbe entrato in questa nostra casa, al fatto che non avrebbe saputo da che parte iniziare e si sarebbe messo le mani nei capelli.
Volevamo aiutarlo, come se mettere ordine fosse l’ultima cosa buona che facevamo per lui.
Abbiamo passato quindici giorni così, cara Talpa. Senza dirlo a nessuno. In quei giorni abbiamo “visto” la nostra vita, dall’inizio alla fine.
Che potesse essere la fine era un’eventualità non così remota. Comunque era un pensiero. A volte quasi una certezza, dipendeva dai giorni, dalle ore, da quanto eravamo speranzosi o disperati. E sai, bastava un niente a cambiarci la prospettiva, l’umore...
In quei giorni abbiamo saputo – saputo con lucidità, capisci? – a chi eravamo davvero legati. Era semplice: bastava pensare chi non avremmo voluto lasciare mai. Lo sapevamo già chi era, certo; ma in quei giorni lo abbiamo saputo in un modo diverso, più assoluto.
Abbiamo anche capito a che cosa eravamo legati, a quali lavori, quali ruoli, quali posti. Il mare, per esempio. Mi è stato chiaro come non mai, quanto mi sia necessario il mare. Guardare il mare, stare sul mare, entrare nel mare. Il lavoro invece, tutto quel che ho fatto, appariva un’inezia. L’ho visto chiarissimamente, che non era niente, che si dissolveva in una graziosa nuvoletta di fumo.
Poi a poco a poco abbiamo smesso. Abbiamo ritrovato una pace. Non so se è stato perché l’ordine ormai lo avevamo fatto, e l’aver messo a posto tutte quelle carte, foto e soprammobili, e aver appeso tutte quelle etichette ai nostri ricordi ci ha in qualche modo tranquillizzati. Oppure è che semplicemente abbiamo smesso di avere quei pensieri funesti, e ci siamo piano piano abituati alla situazione.
Il lockdown ci ha aiutato. Paradossalmente quello star rinchiusi tutti quanti, insieme e separati, ci ha rasserenati. È a quel punto che sei arrivata tu. Noi avevamo toccato il fondo. O meglio, avevamo visto il fondo. Del pozzo, o chiamalo come vuoi. Non era la prima volta, ci era già successo qualche anno fa. Sai, ad alcuni capita di vederlo più volte, il fondo, nella vita; ad altri non capita mai, nemmeno alla fine: se ne vanno via senza aver visto un bel niente. Non so cosa sia meglio. Credo sia uguale, perché poi, non è che a chi capita di vedere il fondo succeda di avere più forza o più chiarezza. Non impariamo mai niente.
Comunque, quel che volevo dirti è che tu appartieni al dopo, al tempo successivo che poi è stato: più mite, più avvolgente, meno cupo, direi quasi sereno, il tempo in cui ci siamo abituati all’idea che la vita, seppure in questo modo così strano e surreale, potesse anche continuare.
Allora, all’ombra riparata di quell’idea, abbiamo ripreso a fare le cose che abbiamo sempre fatto. Per esempio scrivere. Ed ecco che sei nata tu. Appartieni al tempo mite e quasi sereno.
E i disegni, be’, sono proprio il segno di quel che ti ho appena detto. Disegnare è per me liberare uno spiritello giocoso, il quale si diverte a liberare, a sua volta, le figurette animate che mi saltellano nella mente mentre scrivo.
Non saresti mai nata, senza questi disegnini saltellanti.
A te però non avrei mai affidato i pensieri dei giorni più cupi, potevo solo confidarteli per lettera, come sto facendo. Con te mi sono concessa il lusso di esprimere opinioni, anche polemiche, supposizioni, commenti, dubbi, pensieri dritti ma anche storti, puntuti e sciocchi, frivoli e fondi... Mi sono concessa di scrivere come se fosse prima. Perché tu sei la parte giocosa di noi, che è sopravvissuta.
Un abbraccio
Paola