40. Prospettiva ping-pong

È domenica. 17 maggio. Domani si riapre. Ora la chiamano riapertura, più che ripartenza. Non siamo più treni. Siamo porte, finestre, negozi, botole che si scoperchiano. Mi viene in mente un sommergibile. Emerge dai flutti la sua sagoma di ferro e da un piccolo cilindro centrale si apre una specie di coperchio (tipo scatola di pomodori pelati, quando sollevi il cerchio in latta che hai appena segato con l’apriscatole) e ne esce un omino piccolo, solo la testa, un braccio. Un po’ come noi talpe quando sbuchiamo da una galleria.

Riaprono i parrucchieri, le chiese, i ristoranti, i centri fitness, gli psicanalisti. Riapre anche Tiger, credo. E i bar.

Vedremo che ne è, dei nostri amati, irrinunciabili bar. Che ne è del nostro mondo, come lo abbiamo stravolto e trasfigurato, e quanto ci dovremo adattare.

Forse un modo ci sarebbe.

Dico un modo per non soffrire troppo dei bar che diventano non-bar, ristoranti non-ristoranti, scuole non-scuole, viaggi non-viaggi, aerei non-aerei e via dicendo.

Sarebbe di non incaponirsi. Di non restare abbarbicati a alberi che cadono e a rocce che si sgretolano, ma di andare su pianure, percorrere campi, guadare fiumi, solcare mari. Il mondo è così immenso e vario!

Se ci intestardiamo a rifare le cose com’erano, perderemo la partita.

Ma anche se ci rassegniamo a rinunciare al mondo com’era, perderemo. È il concetto stesso di rinuncia che è sbagliato. Noi non dobbiamo rinunciare: dobbiamo rinnovare. Fare cose nuove, mai fatte prima.

Solo così non proveremo rimpianto.

Vi racconto questa.

Pantaleo e io avevamo l’abitudine di vederci ogni mattina al bar sotto i platani, quello in piazzetta. Sederci a un tavolino all’ombra, salutare le talpe cameriere, una più graziosa dell’altra, far due ciance col barista, e goderci il cappuccino, lui vero e io di soia, con qualche dolcino. Lui brioche vuota, io fetta di torta di mele o crostatina vegana, quella senza uova, senza latte, senza niente. Leggere quattro o cinque giornali, chiacchierare, discutere di politica, economia, costume, attualità, quelle quattro cosucce che ci ravvivavano i pensieri. Mezz’oretta, anche meno, prima di andare al lavoro.

Bene. Non si potrà più fare a quel modo. Il modo in cui si potrà fare a noi non piace. Mettersi in coda con la mascherina uno alla volta, asportare uno squallido cappuccino di plastica e andarselo a bere camminando lontano, o sedersi distanziati di due metri, diffidando di chi si avvicina un passo di troppo. Ci sembra triste.

Ieri mi è capitata una cosa strana, imprevedibile e sorprendente: ho incontrato il mio vecchio tavolo da ping-pong. Se ne stava da anni in una mia galleria-garage dismessa e mi ero dimenticata di lui. Vado a scavare da quelle parti e lo trovo! Lo usavo quando mio figlio era piccolo, per fare una partitina io e lui ogni tanto, tra uno scavo e l’altro.

Lo estraggo, lo posiziono sul prato e inizio a spolverarlo per bene. Prendo un mio vecchio foulard e lo metto ben teso in mezzo, a mo’ di rete. Costruisco con la corteccia due piccole pale-racchette. E la pallina? Difficile ora trovare una pallina da ping-pong. Negozi chiusi. Potrei ordinarla su Internet, ma come ho detto non sono capace, mi si blocca la zampa digitale. Allora vagolo un po’ per il prato. E vedo un bambino con la sua mamma, pieno di giochi. Annoiato e frignante. Mi avvicino, adocchio una pallina e quatta quatta gliela rubo. Lo so che non si fa, ma lui era impegnato a fare i capricci con la mamma, perché gli comprasse non so cosa. Non se ne faceva niente di quella microscopica pallina.

Poi ho chiamato Pantaleo. È stata dura estrarlo dai suoi studi, cartelline, grafici e algoritmi. Io gli parlavo delle nostre povere anche anchilosate, e lui di un suo nuovo algoritmo, che aveva appena inventato per calcolare l’impatto della sanificazione su non so cosa. Quando mi parla di algoritmi mi si annebbiano le orecchie. Già solo la parola mi provoca un’immediata chiusura mentale. Ma non demordo. Alla fine ho vinto io.

E così, domani mattina ci troveremo lì sul prato, Pantaleo e io, e giocheremo a ping-pong.

Potremo farlo tutte le mattine, volendo. Mezz’oretta, anche meno, prima di andare al lavoro. Se lo avremo ancora un lavoro, e un posto dove andare a lavorare... Non sarà come bere un cappuccino al bar, ma potrebbe diventare un’abitudine. Una nuova, mattutina abitudine. A cui ci affezioneremo. E che non ci farà soffrire proprio perché è altro, tutt’altro rispetto al cappuccino al bar. Non è un surrogato di cappuccino e di bar, non gli assomiglia neanche lontanamente.

E se la soluzione fosse proprio questa, di abolire la comparazione? Perché se le cose saranno troppo simili, vincerà sempre il mondo di ieri. Incommensurabilità. Incomparabilità. Fare cose che non assomigliano a niente: questo sarebbe ideare un mondo nuovo.

Potrebbe funzionare anche con i lavori che stiamo perdendo, credo. Certo, ci vorrà un po’ di tempo, a inventarci tutti qualcosa di diverso. Ma si può tentare. Potremmo cambiare lavoro a poco a poco, ma cambiarlo drasticamente, in modo netto. Scoprire lavori nuovi, o riscoprire lavori vecchissimi.

Per esempio andarci a riprendere i lavori spariti, che erano lavori bellissimi. Saranno pur da qualche parte. Cercando bene, li possiamo ritrovare. È come con gli oggetti persi che poi non sono mai persi, magari li avevamo nascosti e non ci ricordiamo più dove.

Non penso soltanto a tornare in campagna e coltivare la terra, o andare sul mare con la barchetta a tirar su pesci. Questo sì, anche. Ma penso a grandiosi lavori che abbiamo dimenticato, e disimparato. Fare scarpe, intagliare il legno, lavorare il ferro, allevare animali, cucire abiti, scolpire il marmo, riparare rubinetti, costruire case, tane, ponticelli, barche, stufe, aquiloni. E poi metter su un banchetto e venderli a chi passa di lì.

Utopia? Be’, sì! Noi talpe, essendo cieche, vediamo mondi che non ci sono. Ma utopia individuale, prima che collettiva. Non penso al pianeta intero che di colpo si mette a vivere diversamente. Penso a qualcuno, che da solo a un certo punto comincerà, un bel mattino, a prendere un’altra strada. E poi magari altri poco per volta lo seguiranno. Piccoli inizi. Focolai. Focolai di utopia.

Mondi troppo piccoli? Non so, forse sì. Ma se anche fosse? La grandezza o piccolezza delle cose dipende dagli occhi che uno ha.

Parola di talpa.