21. Tanti saluti, care talpe temporanee!

A me dispiace per le talpe temporanee. Le perderò, ora che si riparte. Se ne stanno andando tutte via. Una dopo l’altra, lasciano le loro tane precarie e transitorie come uno chalet in affitto, chiudono ricoprendo di terra l’entrata della galleria, e si portano via tutto quel che in fretta e furia s’erano portate dietro per l’emergenza.

Le vedo. Dal mio buco nella terra, le vedo spogliarsi una dopo l’altra delle loro provvisorie pelliccette da talpa, e correr via trascinandosi valigie, trolley, zaini. Schiamazzano, si salutano da lontano, si sbracciano, si promettono cene, aperitivi, party, grigliate.

Si son tutti rimessi giacca e cravatta, la camicia con le iniziali, i jeans finto-sdruciti, il vestitino attillato, il giro di perle, i tacchi dodici...

Contemplo quelle pelliccette vuote, appese all’attaccapanni. Come palloncini sgonfiati.

Non eravate vere talpe, si sapeva. Mi era chiaro fin dall’inizio che eravate diventate talpe, per un tempo più o meno breve. Transeunti. Effimere. Di passaggio. Talpe a termine.

Ce l’avevate messa tutta, per assumere lo stile di vita di una talpa. Se non stavo attenta ci cascavo. Tutti così buoni e rinchiusi, silenziosi, obbedienti, e... solitari. Uh, com’eravate tutti solitari! Ve ne stavate a guardarvi un filmetto, a chattare, a concimare i gerani e contemplare orizzonti. Non ci potevo credere che eravate le stesse persone che un mese prima prenotavano un tour in Indonesia e affittavano un campo da calcio per il compleanno del figlioletto. Persone che nell’arco di una giornata inanellavano: il parrucchiere, otto ore di lavoro, la palestra, il sushi a pranzo con i colleghi, la partita di calcio in tivù, la pizza la sera con gli amici, e se era domenica anche la messa e la gita al mare con i figli.

Avete finto di essere talpe. O meglio, vi siete adeguate e avete accettato la mutazione a tempo. Due mesetti di vita da talpe e chiusa lì. Tanti saluti e baci. Lo sapevo. Certo che lo sapevo.

Eppure adesso mi fa male. Non so come spiegarmi. Sono contenta che tornerete a essere gli animali che eravate prima: leoni, gazzelle, rane, passerotti... Questo l’ho già detto, mi fa piacere che si ripristini la varietà del mondo. Ma io adesso resto sola. Prima invece eravamo soli insieme. Soli, e insieme. Un esperimento di solitudine collettiva meraviglioso! Una società solitaria di massa, direbbe Pantaleo.

Aver goduto della vostra presenza intorno mi aveva allargato la vita. Non vi vedevo, ma vi sentivo intorno, riuscivo a immaginarvi, ognuno di voi nella sua galleria individuale, parallela alla mia. Eravamo i binari di una stazione ferroviaria immensa, tutti allineati e composti, in fila uno accanto all’altro: paralleli, appunto. Binario 16, 17, 18, 19... Una meraviglia di ordine e molteplicità, le stazioni. Ogni binario destinato a un treno diverso, ma pur sempre binari insieme, solidali.

Ora invece torno a essere sola da sola, non so come dire. Torno alla mia solitudine solitaria. E patisco molto di più, adesso; mi sento più sola perché ho provato l’ebbrezza di una comunanza, di essere presi tutti insieme in una medesima sorte.

Non vorrei arrivare a quell’orrendo detto “Mal comune mezzo gaudio”, all’idea che uno sopporta meglio l’angustia della sua tana, se sa che anche gli altri vivono in tane anguste. Però un po’ sì...

Ora noi talpe durature continueremo a essere quel che siamo. Stabili. Stanziali. Non caduche e ballerine come le talpe momentanee che l’emergenza epidemia ha prodotto e adesso libera, detalpizza. Si può dire detalpizzare? Credo di sì. In questi due mesi si sono inventate infinite parole nuove...

Noi saremo talpe, e voi talpe detalpizzate.

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Va bene, per non morire di tristezza mi metto a far ordine nella tana. Quando proprio non ce la faccio più e il magone mi attanaglia secco, telefono a Pantaleo, per trovare conforto. Sta studiando, non s’è accorto di niente. Gli dico: Ma lo sai che adesso il mondo si riapre? Risponde pacato: Ah sì, già...

Mi sa che per lui è tutto uguale. È così impermeabile, Pantaleo! Le gocce del mondo gli cadono sulla pelliccia e lui mai una piega: non si bagna, nulla mai lo infradicia. Allora insisto, gli chiedo come la vede. E dato che insisto mi dice: Aspetta un attimo. Sento che scartabella tra i suoi fogli, mi dice che deve esaminare un suo diagramma, o non so che, poi finalmente si esprime: Non ti preoccupare – mi dice, – se i calcoli sono giusti, mi sa che torneranno...

Chi?

Le tue amiche talpe provvisorie!

E non so se rallegrarmi o meno. Non capisco mai se quel che mi rivela Pantaleo è una notizia buona o cattiva.

Torniamo ai nostri lavori. Sbattiamo fuori dal balcone i tappetini incrostati di fango, puliamo col Vetril le lampade a petrolio, diamo una spolveratina ai libri (che non abbiamo letto, è vero, ma che ci sono mancati e ora non vediamo l’ora di riprendere), lustriamo i ninnoli, le padelle appese, le maniglie di ottone.

Ci prepariamo anche noi, pur nella nostra chiusura di sempre, alla nuova “vita aperta” che sarà. Dicono che riaprono, quindi si tratta di apertura, quindi il mondo tornerà a essere molto aperto, no? Non tanto come prima, d’accordo, ma abbastanza. Basta locali soffocanti, zone ristrette e buie, prigioni fisiche e mentali. Andremo tutti fuori, saremo tutti aperti.

Ho già lucidato le scarpe, così sono pronte per domani. Le ho messe all’aria, sulla terra accanto alla mia galleria. Uscirò anch’io, domani.

È quasi sera. Guardo le pareti terrose e cupe, ma anche calde e protettive, della mia tana.

Andremo dove?

Riapriremo cosa?

Non lo so cosa faremo, da domani. Forse noi talpe pianteremo una bandierina fuori dalla tana, che sventoli all’aria e vi indichi le nostre buche. Lo faremo per dire: Non dimenticatevi di noi.

E anche: Non dimenticatevi di voi: di quando, anche se per poco, siete state talpe.

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