24. Prima camminata sul Po

Va bene, usciamo. Oggi che è il primo giorno della ripartenza, decido di ripartire anch’io. Titubo un po’, all’inizio. Non so se ne ho così voglia. Se vale la pena. Se è proprio il caso. Cosa riparto a fare? O meglio, devo uscire per ripartire? Non potrei ripartire stando dentro?

Nessuno ha capito bene, ma pare che da oggi si possa uscire non solo per andare a far la spesa, ma anche così, a vuoto: solo per muoversi, per sgranchirsi. O almeno, è quel che si può desumere, intuire, interpretare, congetturare, dalla nuova ordinanza, sotto la dicitura: “attività motoria”. Da oggi ci concedono la libertà di fare attività motoria.

Decido di andare a camminare un po’. Farà bene alle mie zampe, e alle mie anche anchilosate.

Ma mi sorge una domanda: camminare, per esempio camminare lungo Po, può rientrare nel concetto di attività motoria? Passeggiare di sicuro no, c’è scritto: vietato passeggiare. Ma camminare? Siamo sicuri di non confonderci? Di saper vedere il discrimine tra i due verbi, passeggiare e camminare?

Interpreto. Intuisco. Decido che si può fare. Magari camminare a passo molto veloce, così veloce che quel camminare somigli quasi a un correre.

Così che se mi fermano posso dire che stavo quasi-correndo.

L’ordinanza apre anche a un’altra gioiosa e insperata possibilità: vedersi con altre talpe. La dicitura è: congiunti, affini o affetti stabili. Dunque si può uscire non più soltanto rigorosamente singoli, ma anche accompagnati.

Decido quindi di coinvolgere Pantaleo, perché camminare in due è più bello, e lui secondo me rientra nella categoria degli affini e anche in quella degli affetti stabili: è una talpa molto affine a me, e mi conosce da una trentina d’anni, periodo che può far pensare a una certa stabilità.

Lo chiamo per proporglielo. Mi risponde: Sto lavorando. Siccome insisto, mi chiede: Perché mai dovremmo uscire? E fin qui mi sembra facile, lapalissiano: gli dico che c’è il sole, che ci farebbe bene prendere una boccata d’aria. Sento che farfuglia qualcosa d’indistinto, comincia a destabilizzarsi, chiede come, quando, dove. Con Pantaleo è sempre così, bisogna aver pazienza, poi in genere cede. Adesso è ancora perplesso, prova a dire che non ne ha così voglia, cosa andiamo a camminare a fare. Gli dico che lo capisco ma siamo stati rintanati fin troppo, prima o poi dovremo pur ricominciare a uscire. Non è convinto, ma alla fine cede. Quando cede non convinto, so che lo fa per me. S’immola. E io sento tutto il peso del suo immolarsi. E mi dispiace forzarlo, ma nello stesso tempo sento che è un mio dovere; se non lo facessi lui proseguirebbe l’inerzia delle sue giornate tutte uguali, di lavoro, di studio. Io devo essere per lui il traino, la corda che lo trascina via. Non so. Sento di fare il suo bene, anche se a volte mi sorgono dubbi: non sarà che faccio il mio, di bene? Sono io quella che sente l’urgenza di uscire, dovrei farlo da sola senza tante storie, e non trascinare talpe riottose in avventure dove non vogliono essere trascinate.

Prendiamo l’auto, che è in garage ferma da due mesi, come tutti. Chissà se si ricorda di noi. E se sa ripartire, o non è, persino lei, anchilosata. Già. Anche per lei è una ripartenza.

E sull’arte della ripartenza, di persone, animali e cose, andrebbe detto molto, non darei affatto per scontato che tutti indistintamente sappiano esercitarla. Alcuni potrebbero aver bisogno di corsi di ripartenza, o ricostituenti, o spinte.

La nostra auto riparte subito. Siamo noi, non più abituati ad andare in auto, che facciamo più fatica. Ci sentiamo a disagio, nell’abitacolo umido, che sa di muffa: oppressi e inscatolati. E pensare che la prendevamo tutti i santi giorni, l’auto, per scendere a lavorare in città... Già. Perché andavamo a lavorare in città, quando era ovvio che il nostro lavoro si poteva tranquillamente fare dentro la tana?

Parcheggiamo, c’infiliamo la mascherina regolamentare e c’incamminiamo sulla stradina sterrata che costeggia il Po per qualche chilometro. All’inizio tutto bene. Io elogio l’arte di muovere le zampe, il passo cadenzato, il respiro ritmico, l’aria buona, il panorama, il tepore. Sono euforica, continuo a ripetere: Vero che ho avuto una buona idea? Cosa faresti senza di me? Ti sgranchisci? Respiri?

Pantaleo annuisce, muto. O si esprime con accondiscendenti mugugni.

Poi ammutoliamo. Basiti. Sconcertati. Stiamo notando quel che non si può non notare ma non abbiamo voglia di esprimere, io perché dovrei ammettere di aver torto, lui perché dovrebbe farmi pesare che aveva ragione: in giro c’è il mondo intero!

L’atroce visione che ci appare è un numero strabordante e sconsiderato di persone. Talpe e non talpe. Bambini che urlano, giocano, corrono, gente che cammina, fa la corsetta, va in bici. Un quarto con mascherina, un quarto senza, e metà con mascherina tirata giù sul collo, o inerpicata sulla fronte, o penzolante da un orecchio.

La stradina è ampia, ma non abbastanza. Quando ci si incrocia, il metro di distanza va a farsi benedire. Ed è qui che sotterraneo, persistente e doloroso ci nasce un pensiero: Ma come? Abbiamo fatto due mesi di clausura, ci siamo autoprotetti da ogni anche lontanissima idea di contatto, e ora, nel primo giorno di riapertura, ci esponiamo al contagio? Per il piacere effimero di camminare?

Un piacere che era evidente volessero tutti riprovare, in una giornata che, per giunta, è così inondata di tepore primaverile.

Tutti. Una moltitudine... Parole il cui reale senso numerico mi folgora adesso per la prima volta. Non mi sono mai sentita parte di un universo così tanto affollato.

Volevamo arrivare fino al secondo ponte. Non arriviamo neanche al primo. Facciamo dietrofront. Lo decidiamo insieme senza neanche dircelo. Abbiamo, nella tristezza, una sintonia perfetta.

Non solo. Decidiamo di non rifare la stessa deliziosa ma affollatissima stradina sterrata e ombrosa che costeggia l’acqua verdazzurra del fiume. Tagliamo per le vie assolate e grigie della città, andiamo tra le case, tra i negozi serrati. E lì troviamo il deserto totale. Finalmente nessuno in giro! Camminiamo spediti nel vuoto, senza più incontrare un’anima. Popolazione interamente sparita – evacuata o nascosta o mai esistita. E finalmente lì, in quella desolazione da day after, ci sentiamo bene, nel posto giusto, tranquilli, al riparo. Recuperiamo un barlume di serenità.

A quel punto ci raggiunge un tarlo, il serpeggiante sospetto di fare ciò che non dovevamo fare, di trasgredire la regola, o almeno una delle sue tante, ambiguissime, sfaccettature: si può fare da oggi attività motoria, sì, ma solo nelle aree verdi!

Per le strade cittadine no, non si può. Per le strade si può solo andare verso qualcosa: verso un negozio per fare la spesa, verso una farmacia per comprare farmaci, verso la casa di un parente, congiunto o affine, che abbia urgente bisogno di noi.

Ci incupisce il pensiero di essere fuorilegge, trasgressori. E ci assale una nuova paura: di essere colti in flagrante, e multati.

Certo, se ci beccasse un agente potremmo dire che preferiamo sgranchirci le zampe sull’asfalto, che abbiamo una spiccata e irrefrenabile passione per l’asfalto, e che solo lì i nostri muscoli si attivano e si irrobustiscono, solo su un marciapiede e tra i grumi crostosi di catrame, non certo su un morbido terriccio costellato di erbetta. Ma ci crederebbe? Non so. Forse saremmo costretti a dire la verità: Ci scusi, agente, abbiamo avuto paura...

Perché questo è: abbiamo avuto paura dei nostri simili. Ma si può dire una verità del genere?

Raggiungiamo il parcheggio e torniamo a casa.

La nostra tana ci sembra, di colpo, una reggia. Tutto quel verde, quel silenzio, quel nulla intorno. Quell’assenza completa di altri esseri viventi. Ah, che meraviglia!

Giuriamo che mai più usciremo dalla nostra buia, deserta e rassicurante tana.