25. Riparti, ma non ripartire!

La chiamano ripartenza, d’accordo. Ci annunciano pomposi e soddisfatti che ripartiamo, che ci consentono di ripartire, ma si affrettano a consigliarci di non ripartire poi così tanto, e se si può di continuare a stare molto fermi.

La chiamano anche riapertura. Salvo poi affannarsi a dire che è parziale, provvisoria, cauta, ridotta. Hanno riaperto a poco a poco tutto, ma non fanno altro che raccomandarci di non pensare che sia tutto riaperto.

Mi viene in mente un gioco che facevo da piccola, quando mi mandavano in colonia. Uno di noi stava contro un muro, le zampe sugli occhi, senza guardare; e dietro di lui tutti noialtri, dieci o venti bambini, dovevamo avanzare, ma senza farci vedere: quando lui si voltava, ci dovevamo bloccare e restare immobili, magari col passo per aria. Come statue. Così che quello al muro, voltandosi, ci vedeva tutti fermi. Se ne beccava uno in movimento, lo additava e quello aveva perso, mi pare venisse eliminato. Vinceva chi riusciva per primo ad arrivare al muro, chi si era mosso in avanti senza essere mai visto, mai beccato, bloccandosi ogni volta che l’altro si voltava, immobile come se mai avesse fatto un passo. Fino a che arrivava al muro così, che pareva un miracolo.

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Non me lo ricordo benissimo, questo gioco. Come si chiamava? E poi c’era una storia, forse c’entrava un castello, e c’era una tiritera da ripetere avanzando.

Comunque è chiaro quel che volevo dire, no?

Stiamo facendo tutti quel gioco lì?

Non mi sento soddisfatta. Chiamo talpa Pippi. Siamo coetanee e chiedo a lei se si ricorda di quel gioco.

Certo! Talpa Pippi ci ha giocato molto, da piccola, e ha una memoria formidabile, a differenza di me che sono una talpa smemorata e approssimativa.

Era così: chi stava voltato verso il muro era una regina, e gli altri le chiedevano in coro: Regina reginella, quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello tutto d’oro e tutto bello?

La regina rispondeva: Tre passi da elefante! Oppure: Due passi da formica! Oppure: Sei passi da gambero! E tutti camminavano da elefante, da formica e da gambero. Ecco com’erano le parole.

Ora mi sento meglio. Bisogna sempre riempire i vuoti. Gli amici servono anche a questo.

Amici... Riempire i vuoti... Ripartire... Parole difficili. Macigni. Grossi pietroni che ostruiscono il passaggio, arrestano ogni scavo.

Molti non ripartiranno, perché non ci sono più.

E molti non li hanno più, gli amici. Non hanno più amici, mogli, mariti, mamme, papà, figli, nonni, zii. E quei vuoti ora non sanno come riempirli, perché sono stati vuoti improvvisi e crudeli. Voragini, baratri che gli si sono aperti davanti senza preavviso, senza che se ne accorgessero. E adesso sono increduli e smarriti, e non sanno nemmeno dove andare a piangere i loro morti.

Queste sono le cose che non diciamo. O diciamo poco, con frasi smozzicate e voci troppo basse. Le cose che, se le dicessimo, ostruirebbero il cammino della cosiddetta ripartenza, ma che forse sono le uniche vere, di cui dovremmo parlare. E se parliamo d’altro, è perché non riusciamo a dirle, quelle cose vere. Si dovrebbero vedere in trasparenza, noi lo speriamo, dietro le parole. C’è come un velo, una coltre che tutti quanti abbiamo messo sopra, a difenderci. Un silenzio infinito, che ci fa un po’ da rete, da autoprotezione.

Dall’altra parte, invece, si leva un frastuono insopportabile che ci disturba: le cose che sentiamo dire da ogni parte e ci rimbombano, così stonate, finte, ridicole. C’è un’aria trionfalistica, in giro. Soprattutto nei discorsi ufficiali. Dicono che stiamo vincendo la battaglia, che siamo bravissimi, i migliori del mondo, che ce la faremo. Ci invitano anche, in queste nenie retoriche, a tenere memoria.

Ma se davvero tenessimo memoria, non canteremmo vittoria. Smetteremmo di parlare e staremmo molto zitti.

Talpa Daniela ha perso la mamma.

La conosco poco, ci siamo incontrate solo due o tre volte. Lo vengo a sapere dai vicini di tana, della sua mamma. Mi dicono che non l’ha più vista. Ha ricevuto una telefonata in cui le hanno comunicato che era morta. E non l’ha nemmeno accompagnata. Non si potevano più fare i funerali.

Chiamo di nuovo talpa Pippi, e parliamo un po’ delle nostre mamme, che si conoscevano, e qualche volta stiravano le camicie insieme e intanto chiacchieravano. Abbiamo bisogno di ricordare, di tornare agli affetti che abbiamo perso, di riannodare i fili.

Bisogna accompagnarli, i morti. Salutarli, accarezzare la loro pelle fredda e scortarli, e assistere alla loro discesa nella terra.

Essere presenti.

E tornare poi sul posto ogni tanto, a salutarli ancora, ricordando la volta in cui li abbiamo accompagnati, chi c’era intorno a noi, se pioveva o c’era il sole, se le foglie degli alberi si muovevano o no, se avevamo freddo, se ci facevano male le zampe.

I morti bisogna andarli a salutare per tutta la vita. Per questo è necessario che abbiano un posto, e che noi sappiamo con esattezza dov’è: per ritrovarci, ogni volta.

Ci diciamo tutte queste cose senza dircele, Pippi e io. Quel che facciamo è di riparlare di quand’eravamo piccole, dei giochi che facevamo. E di colpo, senza che lo decidiamo, ci viene incontro di nuovo la cantilena, e ce la ripetiamo in coro, così, chiudendo la telefonata come se fossimo tornate piccole.

Regina reginella, quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello tutto d’oro e tutto bello?

Già.

Quanti passi dobbiamo fare? E per andare dove, a quale castello?

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