28. Talpe nonne

Conosco un sacco di talpe che hanno nipotini. A volte penso che il mondo sia solo pieno di talpe con nipotini. Ovunque mi giro ne vedo, chiunque sento al telefono me ne parla. Sono anche subissata delle foto di nipotini che le talpe nonne mi mandano. È vero che sono mie amiche, e capisco la gioia di mostrarmi i loro nipoti. Ma, appunto, sono mie amiche, prima che nonne dei loro nipotini: possibile che non lo capiscano?

Non è che mi dia fastidio, anzi. Adoro le foto dei nipotini altrui, perché sono tutte foto di bambini bellissimi.

Ora sono molto sofferenti, le talpe nonne, perché da giorni, da mesi, sono lontane dai loro nipotini. Il caso ha voluto che molti nipotini si trovassero in un altro posto, quando è scoppiato il lockdown, magari al mare o ai monti. E comunque, anche stando vicini, non potrebbero in alcun modo vederli, frequentarli, abbracciarli. Per via del contagio.

Parentesi: mi piace dire che il lockdown è scoppiato: mi dà un certo gusto, perché a volte mi viene da pensare che il vero virus sia lui, che sia il lockdown l’epidemia che ci ha invaso, e che il virus invece se ne vada libero e spensierato per il mondo, all’aria aperta, lui. Mentre noi, solo noi, siamo imprigionati. Noi colpiti da lockdown: altra espressione che mi piace, come fosse stato un colpo di fucile a relegarci qui, sottoterra.

Nel sottosuolo.

Altra parentesi: ho letto Memorie dal sottosuolo più volte, all’incirca dai sedici anni a oggi. Cioè, ho cercato di leggerlo senza riuscirci mai del tutto. Ho avuto, con quel bellissimo libro, un rapporto sempre altalenante. Ne venivo attratta a ripetizione, più volte nella vita, a partire dal titolo sicuramente. Chi più di me poteva apprezzare due parole così determinanti: memoria e sottosuolo? E poi ogni volta ne venivo allontanata, come se la lettura a un certo punto mi provocasse una piccola ma fastidiosa delusione.

Non ho mai capito bene il protagonista, l’uomo del sottosuolo, ecco. Non parla mai chiaramente di dove vive, in quale tana, avendo scavato quali gallerie. È nebuloso. Non vorrei che il sottosuolo fosse per lui solo una parola, una metafora... Mi sa di troppo comodo, se è così. E poi tutta quella storia umiliante di quando esce con i suoi compagni, che non l’hanno invitato, e l’episodio con la povera fanciulla che si prostituisce e lui vuole redimere ma poi invece umilia... Non so, Dostoevskij è così, mi fa soffrire.

Molto meglio l’uomo ridicolo. Dico Il sogno di un uomo ridicolo. Almeno, lì c’è quel sogno bellissimo, di un’umanità perfetta dove nessuno uccide gli animali, non c’è l’invidia, e nemmeno la burocrazia. Poi purtroppo succede che qualcosa li corrompe e gli uomini diventano malvagi e tristi. Ma c’è un punto, in questo librino, che mi piace più di ogni altra cosa. È dove dice che gli uomini, quando desiderarono essere di nuovo innocenti e felici, inventarono Dio: “Caddero in ginocchio come bambini davanti al desiderio del proprio cuore, lo deificarono, e costruirono templi e cominciarono a innalzare preghiere alla loro stessa idea, al loro stesso desiderio, perfettamente convinti nello stesso tempo della sua irrealizzabilità e impossibilità, ma adorandolo in lacrime e inchinandosi davanti a esso.” Non è bellissimo? Ecco perché crediamo in Dio: perché vogliamo tornare a essere felici! Abbiamo inventato Dio apposta. Abbiamo deificato il nostro desiderio!

Deificare un desiderio... Per questo preghiamo: perché non ci vogliamo credere che il nostro desiderio sia impossibile e irrealizzabile.

Mi sono persa. Scavando mi capita spesso, di perdermi nelle gallerie. Nessuno ha idea di come siano numerose e intricate, le gallerie di una talpa.

Comunque, dicevo, le talpe nonne ora separate dai loro nipotini mi sembrano sperdute, vagolanti nel buio peggio di tutte noi che non siamo nonne.

Me ne parlano di continuo. Ogni volta che le sento. Non mi dà affatto fastidio che le mie amiche abbiano nipotini e che me ne parlino, come dicevo. Anzi. In qualche modo, attraverso di loro, è come se anch’io diventassi nonna.

Altra piccola parentesi: è strano, in questo periodo di chiusura tutti diventiamo tutti. Non so come dire: ci trasferiamo nella vita degli altri, ci impersoniamo in ognuno di loro. Io per esempio in questi giorni sono diventata: la panettiera che vende biscotti, l’editore che medita sulle vendite e le rese e le date delle nuove pubblicazioni, l’insegnante che fa la videolezione ai maturandi. E ancor di più sono diventata nonna, come le mie amiche che sono nonne.

Insomma, mi pare d’aver capito che una talpa soffre di più se è nonna, in questo periodo di chiusura. Soffre di non vedere i suoi nipoti, più ancora forse che i figli. Non so come sia possibile. È come se il loro esser nonne si fosse potenziato. O come se avessero scoperto solo ora appieno di essere nonne, e quanto questa loro condizione sia primaria, necessaria e insostituibile. Come se quasi non esistessero, se non in quanto nonne, se non svolgendo la loro attività di nonne.

Attività che ora, in questi giorni di riapertura, svolgono in un modo sfrenato e ossessivo, come non hanno mai fatto. Prima erano misurate e caute, nel loro essere nonne. Ora esagerano, strafanno. Da quando hanno potuto riabbracciare i loro nipotini, passano l’intera giornata con loro. Giocano a più non posso. Disegnano con loro, si buttano per terra e strisciano carponi, impastano torte su torte insieme, fanno correre automobiline sul pavimento, camioncini, trattorini, costruiscono robot, casette, mostriciattoli, guardano cartoni animati a iosa, leggono favole su favole fino a sfinirsi, fanno interminabili partite a carte, a scacchi, a Memory, a Monopoli, e puzzle, una quantità inenarrabile di puzzle.

Ammirevoli.

Non sono nonna. E non ho avuto nonne. A volte mi chiedo di che cosa parlo. Ora mi chiedo, per esempio, se non parlo per invidia.

Forse vorrei che almeno una, delle mie amiche talpe nonne, fosse mia nonna.