18. La pioggia ai tempi del coronavirus

Oggi piove. È la prima volta che piove, dal 9 marzo, giorno in cui siamo stati rinchiusi. C’è sempre stato il sole, oggi invece piove.

Guardo la pioggia come fosse la prima volta. Penso a cosa farei stamattina alle otto, se non fossi rinchiusa. Mi vestirei per uscire. Metterei un impermeabile. Mi piacciono molto gli impermeabili, ne ho uno beige, uno bianco e uno giallo. Il mio preferito è quello giallo. Oggi metterei l’impermeabile giallo.

Mi manca molto vestirmi, scegliere cosa mettermi al mattino. Uscire con qualcosa addosso che mi piace.

Pensieri frivoli...

Penso a tutti gli indumenti che giacciono ora inutilizzati. Maglie, camicette, pantaloni, giacche. Scarpe. Borse. Penso alla borsetta che a Natale mi ha regalato mia cognata, una piccola tracolla fatta a bustina, di pelle blu un po’ luccicante. Sembra metallizzata. Mi dispiace molto non portarla.

Non abbiamo più bisogno di niente. Abbiamo armadi che straripano di roba inutile, che ci guarda attonita.

Anche le nostre auto, che usavamo tutti i giorni, ora stazionano ferme. Soffriranno di abbandono? Penseranno che non le vogliamo più e si chiederanno cosa esistono a fare? Ci sarà anche una sofferenza degli oggetti, delle cose di cui abbiamo invaso le nostre case e le nostre vite? Non mi sento di escluderlo. Forse anche le cose hanno memoria, ricordi di una vita che non è più.

Penso anche, adesso che piove, al titolo di un raccontino di Ray Bradbury: Cadrà dolce la pioggia. Un raccontino agghiacciante ambientato nel 2026 in California, che parla di una casa dove non ci sono esseri umani, solo oggetti robotizzati che si muovono, si accendono, parlano e dirigono tutto da soli. Spolverano, cucinano, bagnano il prato, mettono su l’acqua per il tè, fanno partire il riscaldamento. Mentre fuori piove.

Ogni tanto le voci dei robot si rivolgono agli abitanti della casa, che non rispondono. Non esistono, o sono andati via chissà da quanto tempo. A un certo punto le voci leggono, a quegli abitanti assenti, una poesia che comincia proprio così: “There will come soft rains and the smell of the ground.” Riporto anche il secondo verso, così si vede la rima in -ound: “And swallows circling with their shimmering sound.” Noi talpe non sappiamo l’inglese, ma adoriamo le rime...

Alla fine del racconto, per un errore, la casa prende fuoco. E Bradbury dice: “La casa cercò di salvare se stessa,” ma non c’è niente da fare. Tutto crolla e si dissolve in un enorme fumo.

Piove, dicevo.

Quando piove mi sembra che la reclusione sia più dura. Strano. Avremmo detto il contrario, che col sole ci sarebbe pesato di più non uscire. Ma credo non sia così. La pioggia è un’ulteriore prigionia, che si aggiunge, invece di azzerare l’altra. Di norma se piove usciamo ugualmente e conduciamo la vita solita, non ci blocca certo un acquazzone o una pioggerellina diffusa e costante. Invece oggi la pioggia mi fa, per la prima volta, muro. Aumenta la barriera. E anche questo è qualcosa che non avevamo previsto, un effetto sorprendente della nostra vita da reclusi.

Ora il non uscire benché piova rende ancora più assoluto e doloroso il non uscire solito, che mi s’impone anche nei giorni di sole. È come dire: piove, e io non ho neanche la libertà di uscire nonostante la pioggia mi sia d’impedimento.

Non ho più il potere di buttar giù muri, ecco.

talpa19.tif