33. Rinunciare?

Facciamo un esercizio. Di pura fantasia, per carità. Proviamo a pensare, non di non fare più le cose che facevamo come le facevamo, bensì di non fare più le cose che facevamo, e basta. Drastico.

Al bar non ci andiamo più. Non andiamo più al ristorante, in pizzeria, in gelateria. Non frequentiamo cinema, teatri, musei, mostre. Non andiamo in libreria, ai festival, ai saloni del libro, alle fiere del cioccolato, del prosciutto, del presepe. Non viaggiamo più, se non con auto, bici e monopattino. Non prendiamo aerei, treni, navi, traghetti e aliscafi.

Cancelliamo anche solo l’idea di quel che c’era prima, e dimentichiamo le nostre care e vecchie abitudini.

Ce la possiamo fare?

Altro esercizio: proviamo a vedere cosa si salva.

Allora, si salvano: i supermercati, i negozi di alimentari, qualche negozio di vestiario (scarpe, biancheria intima), i ferramenta, i colorifici (io adoro i colorifici), i gommisti, officine meccaniche ed elettrauto, elettrodomestici, forse i cartolai.

Tutto il resto, più futile o meno utile, azzerato. Mah, sì. Dei fiorai per esempio possiamo fare a meno. Anche dei gioiellieri, dei pasticcieri, dei gelatai. Forse anche dei parrucchieri ed estetisti: ci facciamo belli da soli, come possiamo; e ci tagliamo i capelli (e le pellicce) l’un con l’altro.

Penso, frivolmente, a certi negozi meravigliosi della mia città: il negozio delle penne stilografiche, la crêperie stile oceano bretone, le collanine di Tiziana fatte a mano, la libreria antiquaria, il giocattolaio pazzo, la piccola boutique di borse e borsette, la fioraia che mi vendeva l’erica ogni autunno, il negozio di tappezzerie... Tutta roba che ci sembrerà inutile e oziosa e che quindi, d’accordo, può benissimo sparire.

Penso, meno frivolmente, ai milioni di lavoratori che non avrebbero più lavoro, a interi settori cancellati: penso a tutti quelli che lavorano in aeroporti, stazioni, agenzie di viaggio, camerieri, attori, registi, gelatai, costumisti, tecnici luci e audio, skipper, librai, editori, uffici stampa, piloti, pizzaioli, giornalai, direttori di festival, cuochi stellati e non stellati, commessi viaggiatori e non viaggiatori. Ma qui sarebbe un discorso enorme, che non so se ho la forza di fare... Lasciamo per ora da parte la tragedia dei lavoratori senza lavoro.

Come vivremo?

Come diventerà la vita di tutti noi, se non faremo viaggi, non andremo al cinema e a teatro, non ci faremo la colazione al bar, non usciremo la sera a cena e non andremo a fare shopping? Vuol dire che ci sarà solo: la casa, il lavoro, gli spostamenti per andare al lavoro, i figli a scuola. Forse qualche giornata al mare o in montagna, una volta o due all’anno.

Mi sembra, a naso, che fosse la vita dei nostri genitori e dei nostri nonni. Gente che viveva negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso... Una vita sobria. Direi molto sobria. Tanti doveri, pochi piaceri. Pochissimi consumi. Pochi diritti: di certo nessun bonus vacanze, per dire. E molti sacrifici. C’era questa parola, nelle loro esistenze: sacrifici.

Ma ora, noi, ce la possiamo fare?

Credo di no. Credo che non saremo disposti a rinunciare. Molto difficile. Rinunciare è una parola che non c’è, nelle nostre esistenze. E poi, son cose che per troppo tempo hanno accompagnato, rallegrato e illuminato, la nostra vita.

Io stessa... Non credo che potrò rinunciare a prendermi un caffè al bar, andare a scrivere in biblioteca, mangiare una pizza, incontrare ogni tanto qualche talpa amica, qualche cenetta da Bruno, nuotare... Come farei a non nuotare più?

Ecco perché stiamo architettando il “simil-mondo”, modello “quasi tutto quasi come prima”: perché non ci pensiamo neanche a rinunciare a qualcosa.

Viviamo nell’era dei consumi. Siamo consumatori implacabili e insaziabili. Esistiamo per acquistare, oggetti o anche eventi.

Stiamo già preparando persino gli ombrelloni, a debita distanza, o separati da plexiglas.

Mi prende un groppo in gola. Telefono a Pantaleo per sfogarmi, gli faccio un lungo discorso lamentoso e confuso, e concludo: Pensa che pur di non mancare la stagione balneare digeriamo persino il plexiglas!

Mi risponde dopo un lungo, lungo momento di silenzio:

Hai mangiato del plexiglas?

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