17. Smart working
In questi giorni, pur chiusi nelle tane e isolati dal resto del mondo, continuiamo a lavorare. Impavidi. Mai arresi. Grazie a Internet ci colleghiamo con i nostri uffici e parliamo con i colleghi, i superiori. Facciamo riunioni telematiche, videoconferenze, videolezioni, videoesami e videolauree. Abbiamo imparato a usare Skype, Zoom, Webex, Teams.
Facciamo come se non stesse succedendo nulla. Arriva l’onda anomala e noi continuiamo a tenere ferma la barra del timone.
È comprensibile. Abbiamo bisogno di pensare che le cose che sappiamo fare servano sempre, il nostro ufficio non chiuda, e che non perderemo il lavoro. Molti di noi hanno, anche, paura del vuoto. Forse per questo continuano a lavorare, a casa, come fosse l’ufficio: perché, non lavorando, vedrebbero il vuoto delle loro vite.
Lo chiamiamo home working. E smart working. Parole buone che un poco ci confortano, smart e home. Anche se lo sappiamo, che non è così astuto lavorare a casa. Sappiamo che non è un modo vero di lavorare. È la migliore approssimazione, ma lo sappiamo che è una copia, ben diversa dall’originale. Accettiamo che le cose vadano avanti quasi come prima, purché vadano avanti, e non indietro.
Mi chiedo se non potremmo smettere. Non tutti, ma almeno alcuni di noi. Non avendo la facoltà di uscire, andare veramente in ufficio, vedere altri, potremmo fermarci. Invece non ci fermiamo neanche un giorno. Si tratterebbe di due o tre mesi. Sarebbe un’interruzione provvisoria. È così terribile interrompere un attimo, e fare una vera vita da talpa, tutti buoni e tranquilli segregati nelle proprie gallerie, zitti e nullafacenti? Casca il mondo?
Sì, casca.
Il nostro mondo, se non lavoriamo, si ferma. (Forse tutti i mondi si fermano, se non si lavora?). Non ce lo possiamo permettere, di fare le talpe a lungo. Mi dicono che salterebbe l’economia.
Comunque lo sappiamo bene che si lavora meglio se ci si guarda negli occhi. Lo sa persino una talpa... Gli sguardi sono importanti sempre, anche sul lavoro: dicono a volte molte più cose che le parole. Anche i gesti: come uno cammina, come si muove, dentro un ufficio, che scatti fa, come si siede o non si siede. L’odore che ha un collega, se sorride o no quando ci parla in una riunione, e come sorride: se sorride storto, se gli tremano le labbra, se gli è rimasta una fogliolina d’insalata nei denti. Son cose importanti, no?
Ma soprattutto è il tempo. Otto ore in un ufficio è diverso che un’ora collegati via Skype. È quel tempo lunghissimo, che fa la differenza. Ci sono i tempi morti, per esempio. La noia. Il caffè alle macchinette quando lo zucchero non scende. Le scarpe che si impolverano. I cioccolatini nel cassetto che si offrono alla collega più simpatica.
Succedono un sacco di cose impreviste, a lavorare insieme otto ore in un ufficio, di persona. Uno che scivola sul pavimento bagnato, uno che si pettina di nascosto, o si trucca nella pausa pranzo. Una mosca che ci vola intorno per ore. Una finestra aperta da cui sentiamo le voci della strada.
Il lavoro viene meglio, se ogni tanto ci annoiamo, ci pettiniamo, ascoltiamo voci e ci diamo una pacca sulla spalla. Se ci facciamo l’occhiolino, tra le carte e i computer, per esempio.
Perderemmo ciò che accade, a lavorare da casa. Accadere vuol dire proprio questo: qualcosa che ci cade davanti. Ed è tutto quel che c’è d’imprevedibile, misterioso e sorprendente nelle nostre vite.
Quindi, che non ci venga in mente, ora, di lavorare sempre a distanza. Dico anche dopo, quando l’emergenza sarà finita. Diventerebbe un mondo senza accadimenti se ci consegnassimo, zampe legate, a Internet.
Ho solo un’obiezione, secca: le riunioni. Non vorrei far marcia indietro e dire tutto il contrario di quel che ho detto, ma per le riunioni farei un’eccezione colossale.
Non so nulla del lavoro d’ufficio ma mi par di percepire che lavorare in un ufficio voglia dire, perlopiù, stare in riunione. O almeno, a me paiono sempre tutti lì a far riunioni. Qualsiasi lavoro sia, sono presi nella tagliola quotidiana delle riunioni. Se li chiami, sono in riunione. Se li vuoi vedere per un caffè, sono in riunione. Se li vai a trovare a sorpresa, sono in riunione. Mai capito questo bisogno sfrenato di riunirsi. Di punto in bianco piomba la riunione! A metà mattina, a fine giornata, tra capo e collo. Tac! ci si trova tutti intorno a un tavolo. Pare che non ci sia scampo. (Anche questo benedetto tavolo... Possibile che non si possa far niente se non intorno a un tavolo?). E ci si sposta anche da una città all’altra, si fanno chilometri, si prendono persino aerei, per trovarsi in riunione attorno a un tavolo...
È qualcosa che una talpa, scusate, non capisce. Perché ci si riunisce così tanto? Per parlarsi? E non ci si può parlare senza riunirsi?
Forse la videoriunione non sarebbe poi così male. Mi sto vistosamente contraddicendo, lo vedo. Ma non sempre la direzione appare così netta: quando ci troviamo in mezzo a un buco, si può scavare sia a destra che a sinistra. Dico che la videoriunione potrebbe essere uno dei pochi doni del virus... Ci si videoparla, ognuno a casa sua, sulla sua poltrona. Nella tana. Ognuno videocollegato con gli altri, anche cinquanta talpe se necessario. Si potrebbe fare per sempre. Anche solo in minima parte, tenere come variante: un po’ riunioni vere, e un po’ riunioni finte. Ci si dice quel che ci si deve videodire, e poi si chiude il collegamento. Ciao, buonanotte. Amici come prima. Videoamici. Non è bellissimo?