34. L’amicizia e le talpe-farfalla
Talpa Pippi non la vedo da un bel po’. È l’ultima talpa che ho visto, quando ancora eravamo liberi. È la mia amica, e non si chiama così: Pippi è il nome che le ha dato il suo nipotino e da allora lei si chiama Pippi. Potere dei nipotini!
Era un sabato mattina di inizio marzo. Tutto sembrava quasi normale, quasi come sempre. Diciamo che il fulmine doveva ancora abbattersi. C’eravamo date appuntamento davanti al bar Maggiolino, quello che vende le brioche più buone del mondo. Brulicava il solito pienone al banco, e i tavolini tutti occupati, anche nel dehors, sotto gli ombrelloni. Noi non siamo entrate. Un istinto, una specie di sesto senso già ci guidava, in anticipo su quel che poi sarebbe stato. Diciamo che talpa Pippi e io ci siamo rinchiuse prima che ci rinchiudessero. Abbiamo agito preventivamente. Ci veniva naturale di non entrare più in nessun negozio e di evitare ogni luogo affollato, peggio che mai se chiuso. E guardavamo allibite la folla, che da brava folla ancora affollava, spensierata e ignara, il mondo. Allibite e anche un po’ confuse: non era chiaro chi fosse nel giusto, chi agiva bene e chi male. Era uno di quei momenti, peraltro non rari, in cui il bene e il male appaiono abbastanza indistinguibili.
Siamo andate, quel giorno che era l’ultimo, a fare una passeggiata sul fiume. Era una bellissima mattina di inizio marzo, solicello discreto ma già tiepido, foglioline che s’affacciano sui rami, color verdetenero, a ribadire il ciclico mistero della nascita.
Che fosse l’ultima passeggiata non lo potevamo sapere. Le mannaie hanno questo di caratteristico, che s’abbattono improvvise e secche sul collo dei condannati.
In effetti da allora ognuna di noi due è ferma e chiusa nella sua tana. Lei ha i negozi vicini, quindi ogni tanto esce a far compere. Io, abitando in una zona campestre, non esco mai.
Mi manca molto, la talpa Pippi. Non posso vederla perché non siamo parenti e non abbiamo un legame stabile.
Penso molto ai criteri che hanno ispirato questa regola ai nostri governanti, ovvero che si possano incontrare solo congiunti, affini, e persone con cui si hanno legami stabili. Rifletto a lungo. E poi mi viene il lampo. Ma certo! Hanno pensato bene di privilegiare la famiglia e il sesso. È evidente. Per legami stabili, visto che hanno esplicitamente escluso gli amici, credo volessero intendere unioni more uxorio non ufficializzate secondo i canoni (ad esempio del matrimonio): quindi fidanzati, amanti e unioni di fatto, gay o non gay.
D’accordo.
Ma perché?
La famiglia, perché la famiglia per noi italiani è tutto, trattasi di un valore incontrovertibile e santo. Ma il sesso? Il sesso non lo so perché. Forse si è ritenuto impellente e necessario, dopo tanta chiusura, incontrare una persona con la quale si ha commercio carnale. Forse si ritiene che sia salutare averlo, tale commercio, e che un’interruzione troppo lunga non sia un bene.
D’accordo.
Ma vuol dire affermare qualcosa di eclatante: vuol dire non riconoscere valore a tutti quei legami, pur solidissimi e stabilissimi, che non hanno con la carne alcun rapporto e si nutrono unicamente di spirito, di pensiero, immaginazione, sentimento. Sto parlando di quella sintonia tra anime che si chiama amicizia.
Nessuno dei miei legami è più stabile e duraturo del legame che ho con Pippi. Siamo amiche da quarantaquattro anni. Ma purtroppo non faccio sesso con lei. Dunque non posso incontrarla.
D’accordo. Le regole sono regole. Ma queste regole parlano, e in modo terribilmente chiaro. Dicono in modo inequivocabile in che cosa il nostro paese – o il nostro governo? – crede e in che cosa no, a che cosa attribuisce valore e a cosa no.
E ora dovrei mettermi a dire due parole sull’amicizia, che cos’è, di cosa si sostanzia, eccetera. Ma me ne guardo bene. Anche perché ogni amicizia è una storia a sé. Ogni amicizia è amicizia a modo suo...
Per esempio la mia amicizia con Pippi è molto particolare, e non so se possa essere rappresentativa dell’amicizia in generale.
Intanto noi ci vediamo per girare in tondo, diciamo così. Non abbiamo mai nulla di preciso da fare, quando decidiamo di vederci. E non ci vediamo nemmeno tanto per vederci, o per parlarci del più e del meno, o per farci confidenze intime e segrete, e nemmeno per sfogarci, e nemmeno per ribadire semplicemente che siamo amiche.
Noi ci vediamo, e poi facciamo un giro. Sono due cose distinte, il vedersi e il fare un giro, che però si uniscono e diventano quel che è la nostra amicizia, il nostro particolare tipo di amicizia.
Provo a spiegarmi. Per esempio ci diamo appuntamento in un punto casuale della città, di solito un bar dove prendiamo un caffè, un marocchino, una menta o un’acqua tonica. È casuale il bar, e anche quel che decidiamo di bere. Non ce ne importa niente, ci serve solo come inizio. Da lì poi ci muoviamo e andiamo in giro. In tondo, come dicevo: perché non sappiamo dove dirigerci, volutamente non abbiamo un fine, qualcosa che dobbiamo andare a vedere, a comprare o a fare. Nulla. Se lo avessimo, qualcosa di specifico da fare (non so, per esempio pagare una bolletta alle poste), forse non ci vedremmo, non usciremmo insieme. Lo faremmo e basta, quel qualcosa di specifico che dobbiamo fare, ma da sole. Il vederci, invece, presuppone l’assenza assoluta di qualsiasi fine specifico. Voglio dire che, se ci vedessimo per andare a pagare una bolletta, sarebbe qualcosa di inquinato. Come quando in un bicchiere d’acqua metti un cucchiaino di cacao: l’acqua s’intorbida, perde la trasparenza.
In questo nostro girare in tondo a vuoto, facciamo quel che ci pare, non decidendolo mai. Guardiamo vetrine, accarezziamo cani randagi e tarlati, ci sediamo su panchine, sfioriamo siepi, ed entriamo, a volte, nei negozi.
Entriamo molto nei negozi. Mai con l’intenzione di comprare qualcosa. Lo facciamo perché è bellissimo entrare nei negozi, passare dalla luce di fuori al semibuio ovattato, dal rumore assordante del traffico al silenzio percorso da musiche soft di sottofondo, dal caldo afoso della strada al frescolino dell’aria condizionata. È bellissimo perché un negozio è, al tempo stesso, chiuso e aperto, riservato e ospitale. È un luogo privato, che non appartiene a noi, dove però ci è permesso entrare, dove, anzi, siamo invitati a entrare e troviamo tutto a disposizione, persone disposte ad ascoltare le nostre richieste, e cose disposte in ordine negli scaffali.
Anche dentro i negozi, Pippi e io giriamo in tondo. Gironzoliamo a lungo tra le cose in vendita, ammiriamo tazze, bicchieri, pantaloni, costumi da bagno, libri, mobili antichi, chincaglierie, monili di pregio. Non importa cosa. Anzi, più un oggetto ci è completamente inutile, più lo esaminiamo con cura e con passione. Senza comprarlo, perlopiù.
Ebbene, mentre giriamo intorno e cianfruniamo a vuoto (non so se esista questo verbo, ma insomma si capisce cosa voglio dire), mentre facciamo i nostri giri, capita che ci diciamo le cose più profonde e serie, e anche dolorose, che ci confidiamo i segreti, e i pensieri che mai a nessuno diremmo. Cioè capita esattamente quel che non avevamo deciso capitasse, e che non era certo il fine per cui avevamo deciso di vederci. Capita e basta, come un meccanismo che s’innesca da sé.
Non so se ci parleremmo a quel modo se non ci fosse quel nostro girare in tondo, quell’andar per negozi e piazze e bar; non so se sarebbe la stessa cosa se ci frequentassimo la sera a cena o ci sedessimo sussiegose nei nostri salotti a sorbirci un tè. Credo di no.
Vagolare indistinte e inefficienti ci è necessario. È il nostro modo di essere amiche. Non ci serve altro, né fare viaggi insieme, né andare al cinema o a cena, niente.
Pur con tutti i pensieri che abbiamo, è il nostro modo di essere spensierate.
Pur con tutti i legami e i ruoli e i doveri, è il nostro modo di ritagliarci una libertà.
Credo che in definitiva sia un modo di tornare giovani. Irresponsabili e imprendibili, svolazzanti e leggere.
Per poco, anche solo due ore al mese, diventiamo talpe-farfalla.