VERDURA
Una cameriera sbadata, in una casa dove telefonavano parecchi duchi, disse «ha chiamato un duca dell’erba». Ma Fulco di Verdura era un duca palermitano con tanti cognomi e predicati illustri. (Quando ormai i più moderni giovani si presentavano col cognome del casato, e via. E una atavica principessa palermitana sogghignò a una nipote, che compiva i diciott’anni: «Ma questi amici tuoi, tutti calciatori sono?»). Fulco però era un folletto birichinissimo che aveva combattuto per la Patria nella prima guerra mondiale ma poi si era stufato di quella nobiltà e quell’isola così malandate e monotone, ed era scappato prima a Parigi da Coco Chanel e poi a New York dove disegnava gioielli di successo. Veniva molto a Spoleto nei primi anni del Festival (tardi anni Cinquanta), e lì riarredava subito i palazzi fatiscenti dov’era ospite, solo spostando i mobili e i ninnoli per costruire atmosfere: l’angolo Lyda Borelli, l’angolo Tennessee Williams, l’angolo Cecil Beaton, l’angolo Regina Margherita a Monza. Con pelli di tigre, vasi etruschi, bambinacce di terracotta, ritratti di cardinali, felci e palme secche, bracciate di ginestre e tuberose e fresie. E continuamente ballando in vestaglie indiane il «cha-cha-cha della segretaria» o «allacciamoci nel fango, bella pupa fior di mango», sui vecchi grammofoni a puntina. Ripetendo di sentirsi «molto morfondu», spesso e volentieri.
Fulco era piccolotto e bruttotto, come tanti membri di quella nobiltà palermitana esaltata dai vari snob ma spesso noiosissima e fisicamente deplorevole. E ci scherzava su volentieri: «Le povere cugine, sempre su e giù nere e gonfie e obese per i marciapiedi in Fifth Avenue. Plof plof, come i due coglioni di un dromedario». E il cugino Lampedusa? «Il povero Giuseppe, con quella moglie».
Era vivacissimo. Dipingeva paesaggini ‘minimal’ sulle pietre paesine toscane, e fu piuttosto contento di trovarsi ritratto in un mio lungo romanzo di quegli anni, col nome illustre di Sir Fulke Greville: un ricco poeta oxfordiano detto «l’Ezra Pound del Cinquecento» e a cui Giordano Bruno dedicò La cena delle ceneri. Quando poi pubblicò i suoi ricordi d’infanzia, naturalmente in inglese, me li dedicò: «Arbasino... anch’io! Fulco». Ma intanto si era trasferito a Londra, dove lo si incontrava a teatro. Alla prima del Marat-Sade con regìa di Peter Brook, Fulco si presentò con un completino in cuoio nero e stivaletti sadici del Settecento. E quando poi a cena, all’elegante Connaught, in preda all’entusiasmo per quei couplets birboni incominciammo a preparar telegrammi di «Fornications & Copulations» augurali per i più cari amici, il maître protestò fieramente: «Noi certo non spediremo questi!».
Fulco fu poi investito da un taxi in Eaton Square; e si tramanda che mentre un poliziotto scriveva sul verbale «dell’apparente età di 78 anni», lui si riscosse per sospirare forte «sixty-eight!» (calandosene dieci) prima di soccombere. E quindi ci fu il ritorno delle ceneri: da Londra a Palermo, però sostando per un’ultima visita nelle molte ville dov’era stato ospite felice. L’urna veniva portata dal suo amico Jack, e alla tappa toscana si verificò un fatto inaudito. Gli amici in attesa all’aeroporto di Pisa vedono all’arrivo da Londra che Jack scende dall’aereo vestito di scuro e con l’urna fra le mani. Accade un improvviso parapiglia, e l’inverosimile spettacolo di Jack trascinato via in manette dalla polizia. Gli autorevoli amici si precipitano, e l’equivoco era nato perché Jack non parla italiano, e quando gli chiedono cosa contiene l’urna risponde correttamente «ashes» (ceneri) mentre tutti capiscono «hascisc» e lo arrestano.