FRANCESCO ROSI
Franco Rosi, inventore di un ‘genere’ cinematografico perfettamente analogo alla grande inchiesta da rotocalco sui temi che appassionano la coscienza civile – la mafia, la speculazione edilizia – sta costruendo adesso una sgargiante favola popolare a colori intorno a Sophia Loren: C’era una volta. E nello stesso momento, per bizzarra coincidenza, si diffonde in Europa la fama del geniale ‘metodo’ di Vladimir Propp, il sorprendente morfologo di Leningrado che proprio studiando – esclusivamente – le favole popolari, ha rifornito di strumenti metodologici insostituibili covate di formalisti russi prima, e poi di strutturalisti in tutto il mondo.
Propp, ormai celebre, riduce quell’immenso magazzino che è il repertorio favolistico russo a un esiguo inventario di ‘funzioni’: costanti fondamentali e immancabili. Non personaggi, non azioni, non fini: proprio meramente ‘funzioni’, che si ripresentano stabilmente con connotati appena appena mutevoli in ogni fiaba anche apparentemente ‘diversa’; e ne formano la ‘trama’. Sicché le funzioni sono assai scarse, e sempre le stesse; si susseguono in ‘serie’ analoghe: dunque la struttura di tutte le fiabe è fondamentalmente costante, per non dire che è la medesima.
Parte di qui il sogno di Barthes, e del suo gruppo di studi alla Sorbona: inventariare tutte le funzioni che costituiscono le basi della «forma narrativa» nella letteratura universale. E muove di qui anche l’utopia di Pasolini: un catasto di tutte le inquadrature cinematografiche possibili, corrispondente nel linguaggio filmico all’alfabeto in ogni lingua parlata: magari come nelle lingue orientali, dove i ‘segni’, come ognun sa, sono numerosissimi. Ma le ricerche di Propp affidano soprattutto alla critica strutturalistica uno strumento molto prezioso, la distinzione fra ‘trama’ come intreccio, o ‘plot’ dell’opera, e invece ‘trama’ in quanto descrizione del congegno messo a punto, dell’operazione effettuata dall’autore. Si possono dunque raccontare I promessi sposi in due modi affatto diversi: o come sequela di fatti accaduti a Renzo e Lucia (favola); oppure come somma di problemi tecnici risolti dal Manzoni (congegno). Sklovskij affrontava appunto così il Tristram Shandy o l’Evgenij Onegin. Anche per questo è un critico letterario così affascinante. Con gli stessi mezzi, è possibile descrivere il film di Franco Rosi come una favola napoletana secentesca con tante peripezie fra la contadinella Loren e il principe Omar Sharif (sarebbe come recarsi dal professor Propp e chiedergli di raccontare una bella fiaba ai nostri nipotini). Oppure, discutere questo C’era una volta come ‘somma di congegni’: come sistema di segni, di valori, di rapporti, scelti ed elaborati da Franco Rosi per costruire una struttura significativa che possa addirittura servire come strumento di conoscenza...
Il cinema, dice infatti Rosi, oggi mi sembra emotivo, superficiale, equivoco, composito, ambiguo... Perché?... «Proprio perché non è una creazione immediata di uno scrittore o un pittore a tu per tu con la pagina o la tela, ma invece uno sforzo complesso e pieno di resistenze; e dunque molto meno ‘logico’ della letteratura, necessariamente più dispersivo... e inevitabilmente ‘specchio dei tempi’, o addirittura spugna di storia del costume... Col rischio poi che nei molti mesi di preparazione e realizzazione magari il costume cambi... mentre il cinema richiede assolutamente una comprensione immediata.
«La vera risposta a tutti i vari ‘perché?’ in fondo resta la medesima: stiamo vivendo un momento di confusione obiettiva, e la cultura non ci dà nessun soccorso. Nel ’45, tutto era estremamente facile, le scelte s’imponevano da sole. I primi film di Rossellini come i primi libri di Carlo Levi coglievano con immediatezza certi dati della realtà, senza il minimo distacco emotivo dalla materia. Era una scelta civile dettata dalle circostanze storiche.
«Più tardi... la complicazione dei temi, la complessità dei problemi... le revisioni dei miti, e le disillusioni delle ideologie, e le crisi... nella realtà, e nelle nostre coscienze... avrebbero reso indispensabile un’opera non più di registrazione immediata ‘a caldo’, ma d’interpretazione critica meditata.
«Ecco dove non ci viene nessun aiuto da parte della cultura... Ora, in molte società civili, molti temi sono stati continuamente discussi e criticati, e magari riproposti e revisionati, a lungo, nell’ambito delle civiltà borghesi passate. In Italia, questo, mai. I problemi veramente gravi vengono portati avanti irrisolti, o trasformati in moda momentanea, commentati con volubilità, e poi riabbandonati, magari per capriccio, senza mai tentare di risolverli. Questo, perché la cultura dei nostri anni ci ha indicato delle mode, ci insegna come aggirarle con superficialità, come sciupare il proprio talento impiegando tutti gli sforzi nel voler rimanere costantemente à la page, sempre sulla cresta di qualsiasi onda. Mai, invece, una critica vera, seria, responsabile, dei problemi gravi, dei fenomeni che ci circondano. Di qui, ecco, il disorientamento, le confusioni, la crisi.
«... Crisi soprattutto ideologica, naturalmente: mancanza di una guida a cui attenersi, d’una critica di cui fidarsi, attraverso le continue revisioni di valori cui assistiamo: come può succedere nei riguardi di tante opere del passato... per esempio nel caso di Ejzenstejn, generalmente ricordato per la sua carica ideologica, e adesso rivalutato specialmente per gli aspetti estetici... cioè la tematica diventata formalismo... E in tutto questo è paradossale che le difficoltà del cinema non siano affatto di natura produttiva: ci sono sempre dei produttori prontissimi a realizzare un progetto ragionevole. Mancano invece, e in maniera preoccupante, le idee; ed è un gran peccato, perché si vede che in condizioni di libertà, come quelle in cui lavorano Bergman o Pasolini, anche in ragione dei bassi costi, nascono generalmente delle opere felicissime».
E il tuo problema?... «Dopo film che affrontavano con entusiasmo immediato alcuni problemi concreti, profondamente sentiti, del nostro tempo, con una semplicità che poteva addirittura rasentare l’ingenuità... ecco, ora, la Favola. Che senso ha questa operazione, mi domandi. Ecco, per cominciare: le favole italiane, al contrario delle favole nordiche, hanno un aggancio sempre realistico: il povero che sogna l’appagamento dei desideri e la sistemazione economica; il ricco che s’annoia perché il denaro non gli dà tutta la felicità; santi rurali che volano; galline in cima a un monte ripido, con un sacchetto legato sotto perché l’uovo non rotoli per la discesa; perfino delle Cenerentole assassine, che uccidono la matrigna lasciandole cadere sul collo il coperchio del baule; e la buca dell’inferno cattolico, sempre lì pronta, per i cattivi.
«Ora, nel momento in cui la storia e l’economia ci additano esempi contraddittori e confusi, e una vera società italiana non esiste, e la cultura ci insegna non la critica ma la frivolezza... ecco, da un lato, fanno orrore le possibilità di un salto (sempre indietro) nel fondo della provincia italiana; d’altra parte, l’affascinante avventura inglese di questi anni dimostra come una società viva, vera, fortemente strutturata, con un suo vasto ‘milieu’ turbolento, produca artisti e opere eccitanti... proprio perché c’è questa società consapevole dietro... E allora, cosa rimane? Per un regista italiano, oggi, pare che non esistano altre possibilità al di fuori dell’alternativa: o l’autobiografia esasperata, o l’emigrazione a Londra».
Ma questa favola... «Ecco, la favola è invece prima di tutto una ricerca accurata delle ragioni profonde del mio essere: la favola coincide in un certo senso con la nostra infanzia... Una ricerca stavolta tutta soggettiva delle possibilità e dei limiti della mia personalità: proprio in quanto recupero critico dell’infanzia, e magari in qualche modo anche riaggancio sentimentale, i miei primi lavori professionali furono delle illustrazioni di pupazzi per un sillabario... Ma nello stesso tempo, la favola mi fornisce gli strumenti per saggiare delle possibilità d’espressione più libere e più vaste e più svincolate dagli schemi e dalle costrizioni oggettive dell’inchiesta d’attualità.
«Ecco perché trovo questo film il mio tentativo più appassionante: perché il calarmi interamente nella forma della favola significa per me una ricognizione di possibilità conoscitive; e intanto, calandovi dentro le mie idee, tutte le idiosincrasie, tutti i miei princìpi culturali e civili, mi può dare una grande chance di riconoscere la mia stessa personalità attraverso un’opera. Naturalmente, tentando di raggiungere una straordinaria coerenza interna di rapporti fra gli elementi costitutivi: quindi, paesaggi e facce molto realistici, con emozioni assolutamente elementari; abiti di linea indubbiamente 1620, però con masse di colori uniti che corrispondono a un mio ideale fantastico, di sogno infantile a occhi aperti: sette principesse leggendarie vestite come carte di cioccolatini...».