TOTI SCIALOJA
Toti possedeva con grazia naturalissima – nella pittura, nella poesia, nel gesto, nel ‘tratto’ – il dono della Leggerezza (intorno a cui si arrabattano ridicolmente i più pesanti e grevi). E il segreto dello Stile: termine che ha cambiato completamente significato, da quando è affare principale di sfilate e boutiques e corti dei miracoli commerciali dove spesso l’abbigliamento e il fisico risultano grotteschi e goffi, e i modi appaiono imbarazzanti.
Una memoria lontana. Dalla Milano di Montale e Anceschi e Bo e Buzzati ed Emanuelli e Vittorini e Quasimodo e Testori e Paolo Grassi la Roma dei primi anni Cinquanta poteva sembrare una periferia interessante per i casi umani neorealistici e caratteristici: La romana e i Racconti romani di Moravia. (Anche Il Mondo sembrava galleggiare come un’abbazia liberale o un battello carico di non romani sopra una maretta di conformismi locali). Che sorpresa, perciò, trovare in un taglio basso nella terza pagina del Corriere la recensione dei Segni della corda di Toti Scialoja: solo titolo italiano allo stesso livello di The Age of Anxiety di Auden. E incominciavano ad arrivare gli echi di sodalizi raffinati, con incanti intellettuali anche internazionali: Cesare Brandi, Gino Magnani, una pittura che non era solo Guttuso, le piccole stagioni d’Opera all’Eliseo col recupero del Turco in Italia ancora ignoto e il lancio della sconosciuta Callas con scene e costumi di Toti...
La felicità creativa ed espressiva e comunicativa di Toti – attraverso gli snodi anche più drammatici nella cultura ‘forte’ del secondo Novecento – finì invece per aprire, poi, una grande prospettiva europea, come i grandi saggi di Brandi sulla fine delle Avanguardie, e l’arte romana fra Burri e Pascali, au pair con le spettacolari Scuole di New York. (Mentre la pittura vista da Via Brera cominciava a sembrare più provinciale)... Ma intanto scattava o scoppiava la rivelazione decisiva di Toti poeta: Ghiro ghiro tonto, Scarse serpi, La stanza la stizza l’astuzia, La zanzara senza zeta...
Qui, una confessione generazionale. Dopo Satura di Montale e gli entusiasmi confederati col Gruppo 63, si era avvertita una sordità (o un calo della libido?) per la poesia ‘poetica’. Si capivano ancora benissimo Auden, Lowell, Hughes, Berryman, Lowry, Merrill, David Jones e Thom Gunn; e immediatamente Enzensberger e Brodskij. Ma in italiano, a parte Zanzotto e un pochino Caproni e l’inevitabile Pasolini, non avendo doveri e badando soprattutto ai piaceri ci si trovava istintivamente meglio fra i versi (e le prose) di Delfini, Volponi, Testori, Ottieri, Wilcock.
Ecco qui, con Toti, il colpo di fulmine: passionale e sofisticatissimo insieme. Poesia pura, purissima, come la più arcana musica da camera. Nonsense non solo da elfo, spiritello, folletto (naturalmente, celtico): come un’apparizione a sorpresa del sommo ‘leggero’ Lewis Carroll in un seminario di zelanti osservanti. (In fondo, i limericks fra Edward Lear e Norman Douglas ce li andavamo ripetendo con Paolo Milano da decenni, con preferenza per gli irriferibili: quella «fucking machine» che essendo «concave and convex» poteva andar bene per qualunque sex, ed era anche pratica to clean). Qui si assisteva piuttosto all’irruzione soft ma trionfale nella metrica italiana delle allitterazioni e assonanze della tradizione anglosassone illustre – con qualche Nuova Dissonanza dalle avanguardie musicali storiche – molto oltre gli ammicchi («abbaglia-meraviglia-travaglio-muraglia-bottiglia») del sapiente Montale... E con che grazia inimitabile, irresistibile...
«Che stile» si diceva sotto il neorealismo, la domenica, sulle spiagge del popolino con mutande e merende, se qualche signorile chic si pavoneggiava in blazer stirato con bottoni dorati e lucidatissimi. O in tweed «sapientemente liso», o in smoking «di impeccabile taglio», o anche «in divisa inappuntabile», con sguardo «da entomologo», fra vittime e macerie e mutilati e affamati... A parte gli stilisti della moda pronta, e i cloni di James Bond, ah, poter confrontare i pareri di illustri flâneurs tipo Ernst Jünger e Walter Benjamin...
Un ricordo tenero. Poco fa, Toti aveva saputo che andavo spargendo entusiasmi circa la sua ultima raccolta, Quando la talpa vuol ballare il tango. Una mattina, trilla il fax, e ne emergono danzando un coniglietto e un topone, con un bacio e un abbraccio. Altro che fax-art... E allora, via con un fax-omaggio a Toti.
Il Topo – per Toti –
è un tipico tropo
intrappolato
in un proto-tipo.
Topico? Anche troppo.
Le talpe cantanti di Toti
(patite di Muti e di Mehta)
ti invitano a un tè a Costaguti.
Beneducate e desuete.
Ma non ti dànno del tu.
Caro topo, vecchio topo
tu non sai cosa vien dopo.