GIORGIO DE CHIRICO
Questa solenne mostra bavarese, addirittura più metafisica, nella sua Cosa Monacense in sé, della «Pittura metafisica» a Venezia anni fa, si conclude bordeggiando Picasso e Savinio fra donnoni e gladiatori e templi frantumati negli ordinati e pompeiani anni Venti. E discende dalla esposizione già leggendaria al Museum of Modern Art di New York, passata con talune modifiche alla Tate Gallery londinese. Raggiungerà in primavera Parigi, al Centre Pompidou. E si rimane soprattutto mortificati, avviliti, perché mai verrà a Roma (una delle sei o sette città metafisiche, dopo tutto) come per sottolineare una solida continuità di tradizionale ottusità e miopia della politica culturale locale nei confronti del massimo artista europeo qui vissuto e morto nel Novecento, ignorato e dileggiato mentre i musei illustri e i collezionisti avveduti lo acquistavano in tempo, senza aspettare che «i giudizi si decantassero», e intanto salissero i prezzi.
Andrà sottolineata l’umiliazione romana del confronto fra queste grandi mostre dechirichiane in ogni capitale dell’arte e l’operazione commerciale che installa in Campidoglio non già «il meglio di De Chirico», onorato e celebrato in tutto il mondo civile, bensì le «varianti di speculazione» di Warhol nei confronti dei più poveri «De Chirico del mercato». Anche a Monaco, naturalmente, nei dintorni della grande mostra, ci sono botteghe con gladiatori multipli e manichini soprammobili di metallo dorato. Ma che noi siamo un municipio di provincia – con la «cultura» dei lampioncini e delle panchine da televisione privata nelle vie storiche per attrarre i proletari periferici a spender soldi nelle botteghe di jeans miliardari – questo l’aveva già scritto e riscritto il medesimo Pictor Optimus cinquanta e più anni fa.
Et in Arcadia Egon...
Le città metafisiche di De Chirico sono almeno sei o sette, dalla Torino delle piazze e di Nietzsche alla Ferrara dei meriggi nel silenzio di Biagio Rossetti. Ma i suoi deserti sospesi e densi in nessun altro luogo magico si rifrangono con più alta reciproca intensità come nella culla tematica e mitica del suo Autentico, la Monaco-pseudo-fiorentina gremita di Muse e Propilei dove Ariadne sfoglia Schopenhauer in un centro-tavola di rocaille, e Zarathustra baratta con Böcklin parvenze e scenari di una grecità in pietra dura, o anche gesso.
Dionisi addormentati nel trovarobato di Apollo, pensatori-manichini o manichini-pensatori, storicisti del rinnovamento neoclassico, teatro, porcellana, mistero... Eccoli, visitati da una folla grande e giusta (che lo onora Maestro) negli spazi smisurati e vistosi della tragica Haus der Kunst: le banane, i frontoni, le torri, i righelli, i biscotti, gli argonauti, le ciminiere, i gladiatori, le poltrone, le stazioni, le statue, le ombre, gli orologi, i cavalli, i portici, i guanti di gomma, i rocchetti, gli occhiali, le uova, le madri archeologiche mediterranee e i «boschi in una stanza» primaria, prima del wagnerismo post-moderno. Arrivano, celebrati e accigliati e un po’ cupi, da Zurigo e Stoccarda e collezioni in Florida e Connecticut. Ecco un eccellente Filosofo dall’Università di Manchester. Come capolavori del nostro Rinascimento lasciati emigrare per meschinità e cialtroneria. O recuperati da astuti mercanti: bastava andare in jeep fra gli studi degli artisti, nel dopoguerra affamato, dicono. Invece di star seduti in una Direzione. In miseria?
Sono ormai parecchie le generazioni italiane che devono vergognarsi di non aver mai saputo fare i conti con l’ultimo grande italiano degno del nostro Passato, della nostra Tradizione (le sole cose che abbiamo). Ma si deve subito aggiungere che il grand’uomo sentiva così intensamente questa sua unicità sopravvissuta da viversi come al passato remoto, superbamente spaesato in un tempo e in un luogo non suo. (L’Imaginifico citerebbe a questo punto chissà quali meravigliosi animali araldici). Negli ultimi tempi, De Chirico ossessivamente si allarmava sui pericoli di una rapina armata in banca, in Piazza di Spagna. Era un suo cruccio, come se avesse dovuto prelevare o depositare contanti ogni giorno. Era una sua pena fissa, però dopo la sua morte quelle rapine avvennero davvero.
Ma... Ah, respirare aria greca nativa addirittura decenni prima del «revival» neoclassico... Attraversare la Baviera madre di ogni Kitsch nella transizione onirica fra il Re Ludwig da fiaba e i famosi eclettismi di Franz von Stuck, ritrattista di dame altolocate però «ohne Sünde», giacché autore di un celebre Peccato (Die Sünde, appunto).
... E inaugurare a Parigi, secondo le testimonianze non sospette, quell’itinerario dell’Immaginario che da Apollinaire si avvierà al surrealismo... E vedere infine l’Italia non già piena di frappe rinascimentali e delizie decadenti (come tutta la letteratura fin-di-secolo, naturalmente con l’Imaginifico e perfino Henry James), ma quale patria bellissima e deserta di «idee» monumentali e stilizzate, come attraverso una lente di cristallo di rocca, dal «rigor» metafisico...
La produzione più remota di De Chirico risulta incomparabile nel Movimento Moderno perché una originalità totale non era poi rarissima, tra le ultime generazioni formatesi, prima della omogeneizzazione dei mass media: quando le formazioni culturali avvenivano ancora in «vasi chiusi» compressi da secoli, a contatto di «vissuti» singolari, e attraverso esperienze molto personali, ricerche di tipo esclusivamente «attivo» (e non già solo ricettivo, pre-selezionato, pre-cotto). Ma per spiegare o intendere quella sua «visione», così nitida e gelida e unitaria e assoluta, i soliti «dati» dalla grecità in poi non bastavano mai: «aria di altri pianeti» direbbe la Poesia.
«... E allora incominciò la visita di quello strano edificio sito in una via severa, ma distinto e senza tristezza...». Così inizia quella stupenda pratica dell’inconscio e del visionario che è il romanzo Ebdòmero, scritto da De Chirico mezzo secolo fa (e ristampato a sue spese nel ’57 con i refusi corretti a mano dall’Autore, me lo regalò per strada, in Via della Croce), intorno alla grande metafora della vita umana come casa-albergo, magione superflua, maniero di impalcature, maison de passe. Tanto trafficata – con certe brutte sorprese in cantina – sia dai mistici barocchi sia da Gaston Bachelard, e sia dal Savinio di Casa «la Vita» sia dal Cocteau del Sang d’un Poète...
E lì, «il famoso démone tentatore di noialtri, uomini di cuore e di spirito, non è mai venuto a sedersi né alla loro tavola, né al loro capezzale; non li ha mai seguiti quando, al sorger del giorno, se ne vanno al lavoro, la falce sulla spalla, e guardano l’allodola che sale in cielo, come la palla bianca in cima al getto d’acqua, nelle baracche di tiro a segno; ancora meno esso li segue quando di sera tornano stanchi ai loro casali, mentre i corvi, a coppie, dopo essersi pasciuti di carogne putrefatte in fondo al greto dei torrenti prosciugati, tornano alle vicine montagne con quel volo lento, pesante e regolare e cacciando di quando in quando quel dolce gracchiamento che io ho sempre tanto amato. E noi sappiamo ciò che vuol dire quel demone che sghignazza costantemente al nostro fianco...; sì, quel signore vestito con un’eleganza passata di moda e la cui faccia ricorda vagamente alcune fotografie di Napoleone terzo e anche di Anatole France all’epoca del Giglio Rosso, quel signore che vi guarda ridendo sotto i baffi è sempre lui, il démone tentatore. Tra poco quando vi sarete alzato, dopo parecchio tempo che egli sarà sparito, e vi incamminerete sulla via polverosa, egli sorgerà di dietro un cespuglio, imitando, in modo da ingannarvi, l’abbaiare furioso di un cane...».
E qui, in una densità così inaudita di segnali a Breton e ad Ernst, fra tante autorizzazioni impartite a Magritte e a Dalí, sembra addirittura di intravedere (più o meno camuffate) sia una certa tematica dei «doppi», come nello strano caso del Dr Jekyll e di Mr Hyde, sia una problematica su quelli che Cyril Connolly chiamò gli «Enemies of Promise». Nemici delle Promesse (del Talento, o del Genio) nel Movimento Moderno? Politica, giornalismo, fortuna commerciale, successo mondano, l’influenza del gineceo, e il resto. Quale De Chirico-Jekyll e quale De Chirico-Hyde dipingeva stazioni e capitelli e cavalli e scriveva (ancora Ebdòmero) «dammi i tuoi mari freddi, li riscalderò nei miei», e quale si proponeva come epigono degli epigoni di Rubens e rispondeva «chiamami Peroni, sarò la tua birra» alle signore del Caffè Greco che gli domandavano se chiamarlo Maestro? (In certi pomeriggi, Paolo Milano usava portar lì, per vederlo, amici di New York come Saul Bellow o Willem de Kooning).
Bastava però entrare alle ultime grandi mostre delle avanguardie storiche, e le prime sottratte all’egemonia pariginizzante-totalizzante: «Tendenze degli anni Venti» a Berlino nell’autunno ’77; e «Dada e il Surrealismo rivisitati» a Londra nella primavera scorsa. Ecco, in posizione di eguale centralità e assoluta maestosità ripristinato il Nostro in tutto il suo intatto carisma. Il grande metafisico (1917); Le Muse inquietanti (1916); Ettore e Andromaca (1917); Due figure mitologiche (1927); L’archeologo (1927); L’incertezza del poeta (1913); Mistero e melanconia di una strada (1914); La torre (1913); Gare Montparnasse (1914); Il viaggio senza fine (1914). E insomma, ecco qui, senza più dubbi, il massimo pittore del Novecento europeo. Giù il cappello! E non avendo il cappello: giù la testa! E non avendo neanche testa: giù tutto il resto!
L’amara odissea italiana di Giorgio De Chirico incomincia con la constatazione e la conferma che nel primo Novecento italiano, per essere poeti italiani assolutamente o abbastanza moderni, bisogna nascere almeno in area greca, e passare subito per capitali culturali come Parigi e Monaco. Lo confermano Marinetti e Ungaretti, partiti da Alessandria d’Egitto per approdare a Milano. Se partivano dalla Alessandria piemontese, si fermavano a Tortona.
Nel Bel Paese, poi, la forza creativa originaria e la spinta critica iniziale si sostengono ancora per qualche anno all’altezza della classicità mitologica e delle avanguardie storiche, e poi franano ai livelli standard determinati dall’ambiente. Ecco allora lì tutti a esclamare: che calo, che tonfo. Che cosa sarà mai successo a quel brillante futurista, a quel geniale metafisico? Sono gli effetti di dieci anni di Bel Paese, appunto. C’è in questa mostra, al di là della porta che delimita gli anni Dieci dagli anni Venti di De Chirico, una caduta impressionante di qualità nella sua pittura. Fa addirittura sbigottire: ah, fosse morto nel 1920, sarebbe un mito, come Rimbaud, come Lautréamont. Ma si sbigottisce assai meno se si riflette che questa nuova qualità scadente è del tutto omologa a quella della letteratura italiana degli anni Venti: la modernità di Soffici, di Bontempelli, di Malaparte, il classicismo di Ettore Romagnoli. E naturalmente la piccola accademia in ciabatte della Ronda. Le ciabatte non perdonano.
Gli ultimi decenni di De Chirico sono stati circondati, in patria, dall’indifferenza e dall’irrisione: quando nelle società e culture civili, anche artisti assai meno grandi di lui vengono normalmente onorati con dignitose retrospettive, non solo in occasione dei loro novanta e ottant’anni, ma anche dei settanta, sessanta, cinquanta.
Non appena morto, De Chirico diventa poi vittima di quei vizi italiani contemporanei che sono gli intermediari e il cui prodest. Nel primo vizio, opere di artisti che si sono sempre rivolti direttamente al pubblico e si sono sempre fatti capire molto bene da sé devono venir ricoperte di etichette e adesivi e graffiti secondo le formule di moda nel «prêt-à-penser» stagionale. Come se Totò o la Traviata non riuscissero a farsi intendere con la propria voce senza una tavola rotonda col sociologo, l’ideologo, lo psicologo, il gesuita, il meridionalista, e il giovane.
Nel secondo vizio, figurette che magari a scuola non hanno mai sentito nominare Richelieu, e per cui Metternich sarà un calciatore o un liquore, spiegano minutamente che loro lo sanno, per quale strategia globale o trama multinazionale i Bee Gees o il film Il cacciatore sono operazioni della raffinata violenza del sistema per influire su un certo dibattito che ha luogo in questo momento fra gli ex di nuova sinistra a Frosinone. E dunque anche il «pictor optimus» De Chirico, come le megadiscoteche e l’abito di raso e le scarpe a punta, sarà un Fiorucci del riflusso, un Travolta del privato, uno Studio 54 dell’intimo.
Il povero pictor optimus, intanto, raggiunta a fatica la serena inefficacia dei classici, continua a inviare segnali di una classicità e una emblematicità vertiginose dalle prime sale di questa mostra veneziana a Palazzo Grassi, dove ogni quadro proclama che «metafisica» è una delle pochissime conquiste intellettuali e dimensioni dello spirito promulgate negli ultimi due o tre secoli nel Bel Paese, e malgrado il Bel Paese offerte al patrimonio culturale di tutti. E il nostro affetto e il nostro rispetto per lui dovrebbero essere grandissimi, invece di trattarlo ancora come quei nostri ottimi musicisti che in patria vengono normalmente insultati, schiaffeggiati, destituiti, ricoperti di villanie e porcherie.
Le prime sale sono di una commozione intellettuale irresistibile, come leggendo della grande poesia, giacché ecco qui la nascita di un grande poeta. E anche dove la pittura non è tanto «ben dipinta», ecco una letteratura di qualità sorprendente, la letteratura della città e delle idee nel primo Novecento, in una Italia ancora deserta e frugale e bellissima, dove una qualità noiosa come il «nitore» poteva risultare struggente. Anche perché un metafisico che lavora sui concetti risulta il padre nobile di tutti i concettuali.
Ecco le strade vuote delle città del silenzio, ancora senza automobili, con qualche strumento da disegno accademico, qualche piede rotto autobiografico, magari qualche brutalismo architettonico, e qualche uovo pensieroso che diventerà ancora più metafisico in Casorati. Ecco i panini ferraresi a quattro zampe secche detti «ragnini» in mezzo a un elegante assemblage già vetero-cubista a Montparnasse. Ecco, quasi smaltata in bianco e nero la scacchierina lunga che diventerà presto in Kandinsky sciarpina «op» fremente come il segnale di partenza di un rally. Ed ecco, nel 1913, un impressionante anticipo degli ingredienti del fascio: torsi di statue romane, archi a tutto sesto così alti da sembrare a schiena d’asino e banane dell’Affrica Orientale, con due ‘f’.
Alle spalle, fra tempietti stregati e piscine luttuose e boschetti di melograni mistici, i tritoni ed eracli e centauri e le nereidi e calipsi delle «calcografie» neroverdi o marroncine dell’ammirato Böcklin. E accanto, bizzarramente, non già gli stupendi centauri di Klinger che si battono a morte in un campo di biada, ma di Klinger stesso una serie di incisioni galanti e misteriose fra Beardsley e von Bayros e le mareggiate giapponesi che anticipano tutt’al più Edward Gorey, ma con un commento di De Chirico stesso pari alle più belle pagine di Roberto Longhi e Bruno Barilli.
Poco più in là, come un simbolo minaccioso, ecco le strade che finiscono tutte cieche e sbarrate contro alti scivoli di colline terrose e boscose, fra quinte di palazzi oscuri e chiusi, come nelle traverse di Copacabana o del Flaminio... Sarà una metafora? Via Beccaria? Ma qui incomincia una brutta pittura dove il peggior De Chirico non si distingue dal peggior Savinio, perché ora la classicità neoclassica sa di balletto, anzi di siparietto e paravento e pannello per balletto, di tendina per doccia e antina di mobile-bar. O un vassoio di Fornasetti?
Seguono gli altri. Ma la pittura italiana degli anni Venti, così brutta quando è brutta, pare spesso anche antipatica proprio perché somiglia un po’ troppo alla miglior letteratura italiana di quegli anni là. Ecco gli assortimenti della oggettistica metafisica, in Carrà, entro camere o gabinetti di curiosità che sono trovarobato, attrezzeria, magazzino, deposito. Porta Portese della metafisica. Ecco le nature morte di De Pisis, dove il classicismo e la metafisica diventano soprammobile e suppellettile e le statue e i tarocchi e i marinaretti non si distinguono dai pani né dai pesci, come neanche la trota dalla triglia. Ecco però una squisitissima sala di stilizzazioni arcane di Morandi, fondate sul gran principio (raro, allora) che il beige si porterà sempre, col ton-sur-ton non si può sbagliare, e la vera eleganza è la massima semplicità. Cioè, prima ancora del Bauhaus, l’estetica del tailleur «classico» di Chanel: e si potrebbero anche aprire interessanti problemi di priorità e datazione (ma Morandi viene sempre un po’ prima).