GIACOMO PUCCINI
Sembra di tanti anni fa, e invece risale al 1960, quella indispensabile prefazione di Montale a Gozzano che termina: «un libro limitato e autentico, del tutto incomprensibile agli intellettuali d’oggi che si vergognano di Puccini e preferiscono il Falstaff al Trovatore (ma in cuor loro amano solo la musica negra)». Il culto del Kitsch, ormai imminente, ci avrebbe riversato addosso ben altre giuggiole; ma allora, in verità, la musica negra, cioè forse il jazz, forse veniva davvero amata soltanto da Leone Piccioni, mentre Gabriele Baldini e Giovanni Macchia e Luchino Visconti e Peppino Patroni Griffi e Cesare Garboli e Romolo Valli dimostravano addirittura facinorosamente la loro preferenza per il Trovatore a dispetto del Falstaff; e infine quell’Amore che (solo per poco) non osava ancora dire il proprio nome – Puccini oggi, Mario Camerini domani... – era lì lì per scoccar dardi fatali... Già Enzo Siciliano stava trovando nei Carteggi Pucciniani pubblicati da Eugenio Gara nel ’58 certe indimenticabili nefandezze...
A D’Annunzio: «Io non voglio un realismo a cui tu penosamente potresti accostarti, ma un “quid medium” che prenda possesso degli ascoltatori per i fatti dolorosi e amorosi, i quali logicamente vivano e palpitino in una aureola di poesia di vita più che di sogno... Ora sai quello che mi ci vuole: amore-dolore. Grande dolore in piccole anime. Non scordare però la scena grande con tutte le forze foniche e tutte le emozioni... Metti dei bimbi, dei fiori, dei dolori e degli amori... Perché, Dio mio, hai rinunciato al supplizio dei due piccoli amanti? Oppure, abbandonando i califfi e i carnefici, non hai pensato ad un’altra catastrofe più solenne e più impressionante? Io sono desolato...».
E a Tito Ricordi: «Tu spiegagli il mio genere. Poesia, poesia, affettuosità spasimanti, carne, dramma rovente, sorprendente quasi, razzo finale. T’ho rotto le balle? non la pigliare a male».
Parlare di una Puccini-Renaissance può sembrare forzato, nel Duemila circa? Qualche apprezzamento, che «nasceva e moriva lì», per la sapienza perfida del mestiere; e «come fa Stravinskij!» al secondo atto della Bohème di Toscanini. Ma un grande entusiasmo, vero, per la Tosca: perché De Sabata ne «tirava fuori» (quell’alba romana del quarto atto...) uno stupendo correlativo al D’Annunzio del Piacere, da poco letto o riletto dopo le generazioni della rimozione. E la coppia Callas-Gobbi ne ha sempre «fatto sentire» la parte sadiana, in quel teatrino a Palazzo Farnese con soprano strapazzata al vin di Spagna, festa regale sotto, e porte che si spalancano su un «private show» di ghiotti supplizi, con strumenti e carnefici a comando.
La Turandot sembrava un po’ troppo smaccata, al confronto: intanto la derivazione dai Giardini dei Supplizi degli zii più birichini risultava bambinesca, da pippe al cesso. E poi, se l’opera si completasse e quella tremenda redenta diventasse una pastafrolla, allora meglio King Kong, che almeno rimane fino alla fine quello che è? E meglio Pio XII, meglio Sarah Bernhardt, meglio Isadora Duncan, meglio Tarzan, tutti quei coerenti lì? Ma proprio nella Turandot c’è un piccolo autoritratto, un cammeo che fa tenerezza, per la sua autenticità evidente. Lì intorno, tutti questi assatanati: «Qui si strozza, si sgozza! Si uncina e scapitozza! Si trivella, si spella! Si sega e si sbudella!... Ungi arrota, che la lama, guizzi sprizzi, fuoco e sangue, il lavoro mai non langue, dove regna Turandot!». E il Gran Cancelliere Ping? Fra sé e sé: «E potrei tornar laggiù, presso il mio laghetto blu, tutto cinto di bambù...».
La vera popolarità di Puccini nella cultura italiana è arrivata soprattutto quando una sufficiente conoscenza pubblica dei meccanismi dei mass media ha finalmente chiarito quali tesori di genialità pionieristica – in fatto di sadismo, certo, ma anche di merce, prodotto, consumo, analisi di mercato, distribuzione al minuto – si celassero sotto quelle sue false piccinerie, dietro quel suo sentimentalismo travestito. Già gli scrittori della compassione bugiarda avevano proclamato la fine di quell’alto artigianato aristocratico (alla Sade, appunto) che confina con la civetteria del «lavoro ben fatto» solo per sé, senza preoccuparsi né dei ‘canali’ giusti né degli ‘utenti’ magari già lì pronti. Roba da scultori medioevali, che facevano i loro lavoretti in cima a una torre campanaria, dove restavano invisibili alla gente.
In letteratura, e lì si sa che De Amicis è l’esempio più importante, si era già capito da un pezzo come rendere commerciali e per di più edificanti i bassi istinti di chi vorrebbe trucidare o mutilare i piccini, come appunto Sade, o anche soltanto offrirgli caramelle, come certi figuri ai giardinetti delle stazioni. Basta avere l’accortezza di farlo con motivazioni moralistiche e patriottiche, in sedi scolastiche o di strenna, attraverso gli strumenti della grande produzione e distribuzione industriale, e soprattutto mettendo a bagno i piccini in situazioni spaventevoli, e poi attribuendo alla Patria o alla Storia le atroci sofferenze di cui – invece – l’autore è il solo responsabile. Come le mendicanti che davano i pizzicotti ai bambini per farli piangere all’uscita da Messa, tendendo trappole al cuor d’oro dei creduloni.
Puccini sceglie di trucidare dopo elaborati tormenti non piccini e ometti (come fa Peter Grimes coi suoi mozzi) ma soavi fanciulle. E servendosi non della Scuola, già intasata dal Cuore, ma dell’altro grande canale disponibile per la cultura di massa del suo tempo, e cioè l’Opera. Si potrebbe obiettare che anche Verdi non era buono con le sue Leonore: la povera Gilda nel sacco, la povera Aida nella tomba egizia, la povera Desdemona sotto il suo guanciale, la povera Azucena sulla sua vampa, senza contare che la tisi accorda ben poche ore sia alla Traviata sia alla Mimì, né più, né meno. La differenza sta forse nell’atteggiamento consapevole di Puccini, detto «del carmelitano mefistofelico», ben noto ai fruitori di Juliette e Justine del Divin Marchese: la povera piccina è lì smarrita in uno stato da far spavento; l’untuoso ammantellato si avvicina sollecito e consolatorio. «La sventurata rispose», giacché sempre la sventurata risponde, non si conosce una sola sventurata che non abbia risposto. Ma poi, ben le sta! alla grulla, giacché non appena in ambiente ben chiuso, con tanti chiavistelli, le vengono inflitte porcherie che la fanno stare malissimo.
«La povera piccina, è d’uopo consolarla?». Hàhà, allora Harakiri! Zompo da Castel Sant’Angelo! Sete nel deserto! O, come minimo, tisi a Parigi!... «Comprendo, poverina, o cara porcellona, qui e subito ti infilerò questo membro enorme che ti sfonderà e coprirà di sangue, e io sarò pazzo di gioia!»... Mentre la sventata pellegrina, bamboleggiante e provocante e forse minorenne, esegue moine e piccinerie per ingolosire il vecchio Lupo di Cappuccetto Rosso...
Questo procedimento, tipico di Puccini, avrebbe meritato le attenzioni critiche di uno Sklovskij, tanto è congegnato con perfetta perizia: «Non piangere, Liù»... «No, Minnie, non piangete»... «Che gelida manina»... «Che viso da malata»... «Dammi il braccio, mia piccina»... «Cortese damigella, il priego mio accettate»... «Come t’han ben nomata, tenue farfalla»... Come poi vanno a finire, si sa. «Ha inizio, la cerimonia! Andiamo a goderci l’ennesimo supplizio!». Insomma, questa dichiarazione di poetica (ancora dalla Turandot) illustra compiutamente la messa a punto di un meccanismo di «supplizio retributivo» nelle sedi e coi mezzi dei mass media. Ecco il vero trionfo di un artista moderno e industrializzato come Puccini.
Quante Tosche in giro per l’Italia... Ma per festeggiare il Giubileo centenario della sublime opera, insomma oggi Floria Tosca arriva in scena su una Isotta Fraschini da Isadora Duncan, su una Rolls-Royce da Tamara de Lempicka, o su un lettino ospedaliero dove fa flashback? E forse Cavaradossi sfreccia sui pattini a rotelle, mentre Scarpia viaggia su poltrona a rotelle, come tanti interpreti giovani e vecchi d’oggidì? E in una chiesa piena di sedie come Sant’Andrea della Valle, il Sacrestano hip e rap in blue-jeans si barcamena a spostarle tutte come pretende Pina Bausch, o si scatena in un reggae di extracomunitari multi-culti che prendono in giro se stessi e il racket grunge che li sfrutta come i carcerati e i tossicodipendenti e i disabili costretti a recitare e cantare e ballare in scene che rappresentano manicomi e discariche e Lager?... Ma quando poi si finisce con tutti i ragazzi e i pellegrini e gli homeless là in cima a Castel Sant’Angelo, con la leggerezza e le pizze, si cede alle seduzioni del «non far la stupida stasera» con una sfilata di top models nei luoghi stessi dell’opera, alla luce del Giubileo e delle sorelle Fendi e di Internet?
Tanti anni fa, con queste storie degli archivi, si confezionavano i bestseller alla Maria Bellonci. Ora però su queste minuzie campa un vasto popolo di ricercatori, funzionari, assessori, organizzatori di eventi e compilatori di inventari e schede per manifestazioni locali. Altro che la regìa d’opera con «l’ultima provocazione di». L’industria del mini-micro è diventata un’impresa mega-macro da cui dipende il welfare di un gran numero di famiglie, con rilevanza sulle elezioni locali. E in tali contesti si potrà osservare che mai il pittore Cavaradossi l’avrebbe fatta franca, imbarcandosi su quella tartana a Civitavecchia. Con un Argentario così malarico, avrebbe fatto la fine del suo collega Caravaggio ad Ansedonia? Erano posti atroci, allora.
Lo ricorda bene il Carducci, passando in treno davanti a Capalbio, nella sinistra Ode Pel Chiarone da Civitavecchia. C’è da toccarsi le palle! «Calvi, aggrondati, ricurvi, sì come becchini alla fossa – stan radi alberi in cerchio de la sucida riva. – Stendonsi livide l’acque in linea lunga che trema – sotto squallido cielo per la lugubre macchia. – I poggi sembrano capi di tignosi ne l’ospitale, – l’un fastidisce l’altro da’ finitimi letti. – Ed ecco a poco a poco la selva infòscasi orrenda, – la selva, o Dante, d’alberi e di spiriti. – Qui raduniam consiglio, qui ne l’orribile spazzo, – a l’ombre ignave, su le mortifere acque». Che Carducci, che Capalbi, signore mie?
Allora, gli eventi europei e romani di quel 17 giugno 1800, specificato nel dramma di Sardou in base alla battaglia di Marengo, non sono faccende sportive e vaghe in blue-jeans e gilet da «venite come siete, tanto siamo in un gasometro sconsacrato con miliardi di spesa, e dunque tutto gratis in mutande coi cornetti caldi per il popolo della notte». Altro che «è qui la festa». C’è appena stato il ritorno di Napoleone dall’Egitto, poi quel suo colpaccio di Stato del 18 Brumaio (preso sul serio da Karl Marx, ai tempi della nonna), ed è in corso la seconda campagna d’Italia. E perché la regina di Napoli sta a Palazzo Farnese, che del resto è casa sua? Ma perché l’esercito napoletano ha appena schiacciato la Repubblica Romana, dopo che l’esercito francese ha portato Pio VI (papa Braschi) a morire prigioniero in Francia? Addio Palazzo Braschi?
E questa Maria Carolina delle Due Sicilie, figlia dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, avrà avuto i suoi risentimenti contro i papi perché nel suo viaggio da Vienna a Napoli Clemente XIII non aveva voluto vederla e aveva proibito ai cardinali di salutarla, tanto che dovette dormire a Marino? (Ma si spiega: lei apparteneva a una famiglia molto massonica, suo fratello Giuseppe II frequentava le logge e il Flauto magico, come suo cognato Alberto di Teschen, fondatore dell’Albertina di Vienna. E a Napoli erano appena stati espulsi i Gesuiti; e le duchesse più mondane fondavano logge femminili, raccontate da Harold Acton nei Borboni di Napoli). Però sua sorella Maria Antonietta era appena stata ghigliottinata dalla Rivoluzione francese; e questo fomentava risentimenti. Anche da parte di Emma Hamilton, che quando non era ancora Lady ma faceva vita galante a Vauxhall era stata snobbata dall’Angelotti, il nobile tribuno repubblicano che anche nel primo atto di Puccini fugge da Castel Sant’Angelo e si rifugia dall’amico pittore Cavaradossi.
Mentre secondo certe vecchie voci rionali in via di Panico, Angelotti e Cavaradossi sarebbero una sola persona: un pittore giacobino romano tipo Liborio Coccetti che scappa dal Castello a Palazzo Taverna, e lì viene protetto dal principe Gabrielli, futuro consuocero di Luciano Bonaparte, e desideroso di affreschi con paesaggi e grottesche, e danzatrici volanti alla maniera pompeiana di Canova. Che intanto si accingeva sia ai ritratti famosi di Napoleone e Paolina e Madama Letizia, e sia alla celebre piramide funebre per Maria Cristina d’Austria, altra sorella di Maria Carolina e moglie di Alberto di Teschen, nella Augustinerkirche viennese.
Sardou sdoppia il personaggio nell’Angelotti evaso e nel Cavaradossi pittore. Ma in Palazzo Primoli, al Museo Napoleonico, si trovano le informazioni sui vari matrimoni romani delle numerose napoleonidi.
Quanti suggerimenti di arredi e di stili, insomma, per un secondo piano di Palazzo Farnese! Design fra Canova, Cavaceppi, Piranesi, Valadier... Il ‘gusto’ del cardinale Albani, di Winckelmann, dei ‘milordi’ del Grand Tour che assistevano agli scavi di Gavin Hamilton a Villa Adriana? C’erano in giro perfino Thorvaldsen e Füssli e Abildgaard, e magari il Giani e il Ghezzi, per un porno-soft di alta rappresentanza.
Avanti con le microstorie? Ma questo barone Scarpia si propone come un esteta pomposo e vanesio: è la sua politica dell’immagine? Al secondo piano di una reggia: e Maria Carolina può essere in lutto per sua sorella Maria Antonietta, però è cresciuta nella Vienna di Salieri e Mozart. Dunque anche a Roma invita il soprano alla moda per un programma di cantate e gavotte.
Sono anni molto eclettici, per le cantate. Solo nella produzione del grande Cimarosa: «Per la nascita del Real Delfino figlio di Luigi XVI»; «Atene edificata, per ordine di Caterina II»; «Per lo bruciamento delle immagini dei tiranni, sotto l’albero della libertà avanti il Palazzo Nazionale di Napoli», maggio 1799; «No che più lieto giorno, in occasione del bramato ritorno di Ferdinando nostro amabilissimo sovrano», settembre 1799. E sempre in quel 1799 ci sono anche «Bella Italia ormai ti desta» e «Il giuramento delle reali armate napoletane». Che annata. Altro che una Tosca a Palazzo Farnese.
Molte regìe d’opera, si sa, funzionano adesso come ruspe che spianano i monumenti e i mosaici e gli affreschi, per costruire non più chiese ma parcheggi per bus e motorini sopra i resti delle culture precedenti. Ma poi le microstorie si esigono precisissime, per le carriere e i concorsi e i ruoli tra i veleni e le vipere. E gli archeologi del sapere ottengono avanzamenti per le ricerche su un frammento marmoreo sotto un Tabularium, su un piede rotto di statua lignea...
Ma insomma questo Scarpia sarà stato solo un parvenu, un self-made man ciociaro furbo, un membro di piccolissima ‘noblesse’ meridionale? E allora, come interior decorator del suo alloggio: Barocco? No, troppo vieux jeu. Rinascimento? Assolutamente out. L’Impero non c’era ancora, e anche il Direttorio sarebbe politicamente impensabile, oltre che scorretto. Un barocchetto, allora?... Ecco perché un Luigi XV appare plausibile: fa Du Barry, fa Pompadour, l’ideale per uno ‘scòrtico’. (Mentre anni fa, all’Opera di Roma, il gusto di Scarpia risultava il medesimo degli assessori più progressisti: sedie di Mario Ceroli, pannelli di Enzo Cucchi. E Cavaradossi faceva una pittura da cavalletto in chiesa, e non nell’atelier).
... Eppure in quello ‘scòrtico’ dovrebbero prodursi gesti drammaturgicamente strepitosi, oltre che molestie sessuali da manuale. ‘Agony’ e agonismi indimenticabili! Magda Olivero già freme all’alzarsi del sipario...
Per poi mostrarsi superchic, Scarpia offre e ostenta vin di Spagna. Che in tutte le nostre opere viene sempre considerato (al contrario di oggi) raffinatissimo: almeno come il vin di Cipro. Mentre in Spagna le vivandiere e le Preziosille versano gratis bottiglioni e fiaschi di vino locale ai «Soldati Spagnoli e Italiani d’ogni arma», nella Forza del destino, urlando «gnaffe, gnaffe, tralalà». Però, così come Otello non esibisce certo il vin locale di Cipro come una specialità, men che meno Filippo II o Don Carlo mescono vin di Spagna (cioè «della casa») come una prelibatezza.
Lo possono bere Don Rodrigo e il conte Attilio in quel di Lecco, perché fanno dei brindisi politici al conte-duca di Olivares, in odio ai «navarrini» e cioè Luigi XIII col cardinale Richelieu avversari della Spagna di Filippo IV nella guerra di Mantova. Però Don Giovanni, apolitico a Siviglia, brinda col famoso marzemino prodotto nel Trentino. E lo proclama eccellente. Viceversa, quando poi a Milano Don Rodrigo pasteggia e stravizia a vernaccia, subito gli viene la peste. Convergenze parallele? Comunque, un avvertimento, con ‘sommeliers’ tipo Mozart-Da Ponte e Manzoni: con vernaccia e marzemino, si finisce al lumicino? Pessima considerazione per la vinicoltura italiana, all’Opera: perfino a Ferrara, nella Lucrezia Borgia, l’aperitivo ‘in’ è il Madera. E quando arriva in tavola il vin di Siracusa, Lucrezia subito scatta: «Sei di nuovo avvelenato!». (Venne giù la Scala, dal ridere).
Il deteriore verismo si sbraca con vini spumeggianti in bicchieri scintillanti; e dunque sarà elementare dedurre o prevedere il peggio. Ma quando si liba in lieti calici parigini, generalmente si spera in champagne di media qualità. Dunque, a livello di ostentazione di chic provinciale, non si capisce perché Scarpia, così pieno e sicuro di sé («La cosa bramata perseguo, me ne sazio e via la getto... Dio creò diverse beltà, vini diversi... Io vo’ gustar quanto più posso dell’opra divina!»), non tenti anche di avvalorarsi come dandy connaisseur di vini francesi eleganti. Oltre tutto, fino a poco prima Avignone apparteneva ancora alla Chiesa, per lo Châteauneuf du Pape ci saranno state chissà quante facilitazioni fiscali... (E per riflettere ancora sui sottoprodotti italiani del prototipo Don Giovanni: che differenza di allure fra il meschino Don Rodrigo e il dandy Duca di Mantova che si fa passare per studente e povero con la sua bella incognita borghese).
Ma nella Tosca si notano ancora le incongruenze navali. Si parla tanto di tartane a Civitavecchia, però c’è guerra nel Tirreno, il blocco marittimo, Nelson che incrocia... Nessuna tartana la farebbe mai franca, lì davanti. E oltre tutto (e Maria Carolina lo sa benissimo, anche per questo è furibonda) i Francesi stanno portando via l’Argentario e i Presidi ai Borboni napoletani per fare chissà quali scambi coi loro odiati cugini spagnoli.
Sono trame pazzesche, altro che la fiction di Sardou. In pochi anni, Napoleone depone i reali di Spagna (quella coppia tremenda dei ritratti di Goya) per mettere suo fratello Giuseppe al loro posto. Ma negli arrangiamenti successivi, fra Talleyrand per la Francia e Godoy ministro-amante della regina (lei è di Parma) quanti bei film in costume si potrebbero fare, diceva Mario Praz negli anni d’oro di Hollywood.
Con tanti spunti operistici, anche. Infatti, la Francia riprende dalla Spagna la Louisiana che già le apparteneva ai tempi di Manon Lescaut, quando era una foce paludosa dove si mandavano a morire i condannati prima della Guiana. E poco dopo la rivende al presidente Monroe degli Stati Uniti: la cosiddetta «Louisiana Purchase». In cambio, la regina di Spagna ottiene la Toscana per sua figlia, che si chiama Maria Luisa come lei e sposa un cugino Borbone anche lui di Parma. (Schiatta malandata e sfortunata, dalla parte maschile). Parma viene però annessa alla Cisalpina, e al viceregno milanese di Eugenio Beauharnais. (Con Busseto, già dei Pallavicino).
Ma mentre questi Borboni parmigiani vengono ricollocati in Toscana, ribattezzata Regno d’Etruria, il granduca Ferdinando III (nipote e genero di Maria Carolina di Napoli, nonché figlio dell’imperatrice Maria Luisa, dunque con almeno una quindicina di fratelli e sorelle) viene spostato da Firenze a Salisburgo, sottratta ai famosi arcivescovi di Mozart. Però non gli piace, e così viene smistato come elettore e duca a Würzburg, tolta agli arcivescovi del Tiepolo. Quindi nuovamente a Firenze. (E ancora oggi, dopo il sublime scalone tiepolesco, si visitano gli «appartamenti Toskana», più eleganti di ogni design Scarpia, benché praticamente contemporanei).
Ma anche i Borbone-Parma durano poco in Etruria, perché vengono sloggiati da Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, che viene a sua volta sfrattata dal Congresso di Vienna, e finisce tristissima a Trieste. Però nemmeno allora Maria Luisa di Parma ottiene Parma, che viene assegnata a un’altra Maria Luisa, Maria Luigia moglie di Napoleone. Mentre alla Borbone-Parma viene attribuita Lucca, già repubblica aristocratica e mercantile per secoli. (Giosuè Carducci scriveva le «faide di comune» toscane in couplets rimati da Corriere dei Piccoli, per ficcarci nella zucca infantile tutte quelle ministorie locali spicciole. «Manda a Cuosa in val di Serchio – Pisa manda ambasciatori – del comun di Santa Zita – ivi aspettano i signori». Mentre il nipote di Maria Luisa, Carlo III, rientrato a Parma viene assassinato. Per il Carducci, però, conta soprattutto la ‘promotion’ sociale. «Ecco Cino ed ecco Pecchio – che spazzarono le vie. – Il miglior di tutti è Nello, – merciaiuol popolaruccio. – Tutti a nuovo in bell’arnese – co ’l mazzocchio e con la spada: – il fruscìo de le lor séte – empie tutta la contrada». Che carriere?).