ANNA LAETIZIA PECCI-BLUNT
In un Balenciaga rosso squillante e magari una toque di scimmia («sembriamo un film su Attila, vero?», con Paola Borboni, a Spoleto), Mimì Pecci si accendeva sigarini e sigarette attraverso la veletta di pizzo, dando intanto fuoco all’occasionale cappero rimasto impaniato da una precedente pizzetta, fra i pois. E diceva con foga: «Non mi hanno voluto dare l’istruzione, perché la nipote del Papa non doveva avere istrusssione! Non mi hanno mai lasciata andare all’università, e sono dovuta scappare a Parigi... dove ho incontrato dei ragasssi che erano Gide e Cocteau e Claudel, e così la mia università è stata la Nouvelle Revue Française!». (E quella sua ‘G’ in Gide era una consonante surreale che a Roma non esiste, e a Parigi si incontra per lo più in «zig-zag»).
Dopo una caduta delle ceneri dal bocchino paragonabile solo alla frana di piccole braci accese sulle giacche di cashmere di Roberto Longhi, spesso allargava le braccia, sconsolata e veemente, nel foyer del suo Teatro alla Cometa, o in un palchetto alla Fenice. «Ecco qua l’Italia! Verdi è il musicista più noto, le sue romanze da salotto non sono conosciute né incise, ne facciamo un’esecuzione esemplare, e da tutta Roma siamo qui in dieci persone!»... «E questa sarebbe Venezia? Sarebbe la Biennale Musica? Stasera ci sono in prima esecuzione i più recenti lavori di Stravinskij... e quanti siamo? Adesso li conto!». Magari aggiungendo: «Sono qui vestita sportiva perché poi devo prendere il treno».
Oltre che un mecenate, era un gladiatore della cultura, la Contessa, inesausta nel combattere e nel connettere: soprattutto la modernità francese col passato romano, contro le pigrizie e le inerzie del déjà vu. Dopo colazione, a palazzo: «Ecco qui, come al solito, tutti gli italiani a parlarsi insieme di qua, e tutti i francesi in gruppo di là. Ma è possibile che finisca sempre così malgrado tutti gli sforzi, in questa città?».
Col suo doppio nome latino e il suo doppio cognome italo-americano, Anna Laetitia Pecci-Blunt insieme al suo consorte Cecil aveva animato parecchie leggende parigine di quegli anni Venti in rimescolìo fra cultura e feste: décadence dei Balletti Russi e seconda ondata di avanguardie, Ritorno all’Ordine col neoclassicismo e sregolamento onirico dei surrealisti, miti greci e tabù esotici rivisitati dall’Art Déco... Molti balli, dunque: dove in costumi stupendi Edipo e Pulcinella danzavano con la Duchessa di Guermantes o pranzavano con la Bella e la Bestia, Apollo e Dalila scambiavano Rubens con André Derain, Cleopatra e il Barone di Charlus correvano da Offenbach a Cole Porter; e se un ‘tema’ da ballo chiedeva di venire «come eravate quando avete ricevuto l’invito», chi arrivava in pigiama, chi in abito da cavallo, chi con una guancia insaponata e una no.
Più indietro, informavano gli almanacchi: il papa Leone XIII, e suo fratello il cardinal Giuseppe Pecci, bibliotecario di Santa Romana Chiesa, erano zii del padre di Anna Laetitia, il conte Camillo, cav. dell’Ordine di Malta, ammogliato con Silvia Bueno y Garzón, figlia di un senatore cubano all’Avana. Mimì nasce nel 1885. Si narra che quando la mamma disse al Pontefice che per mancanza di soldi la piccina avrebbe dovuto debuttare sulle scene a Parigi, il Santo Padre rispose che purtroppo l’attuale carica non gli consentiva di venirla ad applaudire. E del resto non trascurava le sue terre, a Carpineto Romano, vestito da semplice prete.
Più avanti, le cronache culturali dei nostri anni Trenta sono sempre state piene dei fasti della Galleria della Cometa, caso unico di mecenatismo artistico in una città e un ambiente ove di quest’uso o istituto si era dimenticato perfino il termine...
Qui, Mimì Pecci fu romana come gli spaghetti alla carbonara: vivanda, peraltro, molto apprezzata anche dai gourmets internazionali. Produzione assolutamente locale, sotto la Cometa (emblema araldico della famiglia): Afro e Mirko, Cagli e Mafai, Severini e Martini, Guttuso e Capogrossi, Janni, Melli, Ziveri, Pirandello, Savinio... E con presentazioni di letterati: De Libero e Bontempelli, Cecchi e Moravia, Soffici e Sinisgalli, Montale e Vigolo, Alvaro e Solmi; e perfino De Chirico che commenta Francesco Messina, e Carrà che illustra Manzù... Intorno, intanto, conferenze di Paul Valéry, musiche di Petrassi, Honegger, Milhaud, Sauguet, Auric, Satie. D’estate, mondanità cosmopolita nella gran villa di Marlia già di Elisa Baciocchi granduchessa di Toscana, e poi raccontata da Moravia nel suo bel romanzetto d’anteguerra La mascherata, che forse Mimì non lesse mai. Moravia m’ha detto di avergliene donata una copia con splendida dedica e un sottile velo di colla sul taglio delle pagine; e di averla ritrovata molti anni dopo, con la colla intatta.
Ma fatti ancor più romanzeschi dovevano capitare. L’ultimo ballo a Marlia prima della guerra non ebbe mai luogo, perché all’ultimo istante fu fatto sapere agli invitati che Ciano e Mussolini l’avrebbero presa malissimo, dato il forte antifascismo di casa Pecci. La famiglia capì il messaggio, e si rifugiò negli Stati Uniti, dove Mimì fotografò e collezionò i manufatti della cultura dei pueblos fra Taos e Santa Fe, allora appena esplorati dalle groupies di D.H. Lawrence, oltre che da André Breton. E la passione fotografica discende probabilmente dal Papa, giacché Leone XIII, oltre alla più nota enciclica Rerum Novarum, pubblicò a Lipsia, sempre in latino, odi alla Fotografia (che ho visto, in elegantissimi distici, al Museo del Papa, a Marlia). E nella piscina di Marlia, quante foto di Mimì negli anni Venti, documenti di costume accidentali ma ormai involontariamente basilari.
Rientrata dopo la guerra, la Contessa decide di farsi un teatro per offrire ai romani degli spettacoli di qualità europea. E se per la Galleria aveva incaricato Adalberto Libera, autore razional-narciso della villa Malaparte a Capri, il Teatro della Cometa viene affidato al già postmoderno Tomaso Buzzi, architetto di più ‘follies’ tra cui villa Volpi a Sabaudia, simulacro d’una grecità onirica fra la Troia di Giraudoux e un Deep South palladiano alla Tennessee Williams! «Faites-moi une petite folie» aveva chiesto Lily Volpi al Buzzi, non prevedendo tutto quel «Volpaeum»... Ove dalle finestre estive aperte si potevano sentire quelle sue nenie nordafricane, in compagnia di qualche amica Rothschild, dopo che il maître aveva battuto il gong o suonato una tuba in spiaggia, per annunciare la colazione.
Così Mimì Pecci, avendogli chiesto «une petite Versailles», davanti al Campidoglio e all’Aracoeli, all’apertura della Cometa si trovò davanti una platea di panche impeccabili, e forse anche mirabili, ma senza schienale. Si dové rimediare al volo. Ma quale eccelsa cornice romana ai Barrault-Renaud, a Monica Vitti in De Musset, Benedetti Michelangeli in Debussy e Ravel, Cimarosa e Paisiello e Re Teodoro in Venezia recuperati dai Virtuosi di Roma, Le cantatrici villane, Brignone-Santuccio in Estate e fumo, Strehler e Cobelli per l’Historie du soldat, Cobelli e Missiroli per un cabaret letterario con me, La piccola vedette lombarda... «La va, la va, la torna su a Milano – la cià, la cià, la cià la nostalgia. – La torna, la torna, la torna dalla zia – che aspetta, che aspetta, seduta al Sant Ambroeus»... Dopo aver salutato alla Casa del Passeggero alcuni milanesi ‘romanizzati’: Gadda, la Valeri, Visconti, «sto prendendo l’aeroplano – devo andare su a Milano – faccio Rocco e i suoi fratelli – tutti poveri (gran catarro), ma belli!»... E le questioni col censore, giacché poteva passare «a Musocco – è sepolto il mio papà» (non si sapeva ancora che vi fosse occultato il corpo del Duce), ma non «e a San Siro – galoppa la mammà». Una mammà cavalla? Inammissibile!... Tornava in mente quella postazione Visconti-Morelli-Stoppa davanti al Quirinale dopo la proibizione dell’Arialda, con certe antiche dame che tumultuavano «perché Luchino, la volta scorsa, alle sciarade del Quirinale, indossava le armi Farnese?».
Alla Cometa, ancora Missiroli e Laura Adani con scene e costumi di Gastone Novelli (su consiglio di Giovanni Urbani) per Oh papà, povero papà di Arthur Kopit, con poi un ‘numero’ della Lalla alla sua vecchia amica Valeria Litta (anzi, Valeria Rossi, come accentuava lei al telefono): «Non fare la stolta, con la tua minestrina in casa, vieni a pranzo con noi!». (E Valeria venne...). Poi, Enzo Jannacci che a Roma era ancora esotico, e Dino Pecci nel parterre della Cometa ammetteva di non riuscire a capire il dialetto milanese. E Le trame deluse, un’operina di cui si fecero parodie con Adriana Asti sulle delusioni delle tarme davanti al nylon e alle fibre sintetiche, ecco scenografie decorate con vere conchiglie, incollate una per una, come negli interni che Piero Fornasetti andava componendo ad Abano secondo il gusto di castelli arcivescovili come Pommersfelden e Hellbrunn...
Ma a Marlia, mentre la Fracci si dilungava tra i Cigni e le Silfidi nell’attigua balconata a pagamento, Princess Margaret abbassò la borsetta sul piatto per dare inizio ai cibi, malgrado i Papagayos tenuti a far scherzi durante il compleanno di Dino. E Graziella, vedendomi nell’unica sala terrena con telefono, si sfogava «ah che paura, credevo che fossi un papagayo anche tu!». Qualche giorno dopo, in piscina ai Collazzi dalla mamma Marchi (sorella del gentiluomo che agonizzò lungamente a Maser dietro una porta dipinta, durante le feste), venivo spinto ad assaggiare il drink entro una confezione da supermarket perché si diceva che fosse gin. E invece era semplice succo. Poi, mentre da un lato John Pope-Hennessy allettava con tanti arabeschi di «Your Royal Highness» per attirarla a una mostra di Siena, e lei non ne aveva voglia, un cameriere sbadato mi versò del sugo su una spalla. E lei, «posso contribuire?», versando una brocca d’acqua.
Una bella e toccante mostra al Museo di Roma, nel ventennale della scomparsa di Mimì Pecci, illustra il lato segreto di un collezionismo che diventa munificenza: il culto appassionato delle memorie cittadine. 1266 vedute di una Roma che scompare, raccolte in tutta una vita di visite alle librerie antiquarie, scelte con amore una per una, e con un ultimo gesto di vivo amore, vicina alla fine, regalate alla città. Alla patria. Ecco allora prospettive e rovine sei-settecentesche, acquerelli monumentali di Luigi Rossini, il folklore dei Pinelli, Appie Antiche, i pifferai visti dagli inglesi e le ciociare dei contemporanei di D’Annunzio, accanto ai Cagli e Casorati e De Pisis già in casa, accompagnati alle esposizioni americane, avanti e indietro sul Rex.
Un’ultima volta che ho visto Mimì Pecci, avevo invitato parecchi amici intorno a Pierre Klossowski, ma la cosa era diventata bailamme romano, e mentre Balthus (fratello) si assideva su un sofà come in trono, il festeggiato si rifugiò dentro un caminetto spento, dove pareva un cagnolino nella cuccia. Appena sbarcata dalla sua macchinona nera, la Contessa dopo qualche «sortez donc, Pierre» andò a sedersi nel camino anche lei.