GIULIO EINAUDI
«Compromesso abbastanza storico... Ruolo e birignao della Sinistra... Principe e snob e camp...». Quante definizioni da pizzeria. Erano più acuti e arguti certi coetanei torinesi e milanesi di Giulio Einaudi, oggi praticamente estinti come gli uffizialetti di Cavalleria che prima della guerra arcuavano tipicamente le cosce, come i comici del «düra minga», con un eventuale frustino contro le mosche, commentando le passanti di Voghera. Estinti come i matrimoni in alta uniforme, con elmetto e bandoliera, tutta un’epoca di garbo ‘proustiano’ che non si fece in tempo a conoscere.
Spiegavano, dalla notte dei tempi: Giulio Einaudi e Luchino Visconti sono gli ultimi autentici valvassini italiani. Gli unici capaci di conservare con tutto l’aplomb necessario un istituto feudale ormai sputtanato e scomparso (dopo l’Innominato, e Don Rodrigo, eccetera; e infatti come si arrabbiavano, l’editore e il regista, e che mancanza di sense of humour, quando venivano citati come epigoni di quei signorotti).
I vecchi salotti pazienti insegnavano: nei tempi feudali, soprattutto in Piemonte, il valvassino era il vassallo del valvassore, a sua volta vassallo del vassallo del re, o del conte. Con un possesso precario che poteva sempre essere tolto a libito del Signore. (C’è anche sulla Treccani: solo un editto di Corrado il Salico poteva conferire un grado nobiliare ereditario). Dunque il valvassino generalmente non andava (per orgoglio) a Corte, dove non avrebbe mai avuto un posto di riguardo. Preferiva costituire una propria piccolissima corte, anche rustica, sulla quale regnare appartato.
I valvassini intelligenti – si osservava in quegli scomparsi salotti – sono sempre stati abilissimi, con l’occhio e col fiuto, nello scovare e assumere dipendenti bravissimi, riuscendo spesso a pagarli pochissimo. Sempre i migliori cuochi, sarti, arredatori, sceneggiatori, scenografi, giardinieri, guardarobiere, editors. Abbagliandoli con la signorilità e il cerimoniale, mimato da Casa Savoia o Casa Agnelli: le precedenze, le reverenze, i cortigiani, i favoriti, i ricevimenti nei giorni canonici con gli ammessi al tavolino o al tabouret. I rituali di piattini e biscottini e colini, antiquariato e avanguardia, «lemon or milk», anche per i figli del fattore. Non per niente, un maestro di eleganze torinesi quale Franco Antonicelli era cresciuto a Voghera, come il sarto Valentino.
E certo, i pomeriggi invernali piemontesi saranno stati spesso noiosi: come le seratine romane sempre in casa, magari a far sciarade, quando non c’era ancora la televisione. Sono gli inconvenienti delle piccole corti. E proprio nel Monferrato si vede qualche ex-corte di valvassini barocchetti strutturata come una parafrasi collinare e profana dei Sacri Monti alpini, con un percorso di cappelle che si potrebbe decifrare quale scena di teatrini alla Sade, per tutt’altro che sacre rappresentazioni. Ai nostri giorni invece il passatempo dei valvassini si veniva per lo più riducendo alla classica zizzania: far litigare i collaboratori e i subalterni, mortificare i dipendenti in pubblico, ridurre in lacrime anche le più vanitose signore della scena. E riderne. A Natale, poi, un bel regalo. E le ex-lacrimose: «Che gran signore, però».
Ricordi anche deliziosi: a Formentor, per il più elegante premio letterario degli anni Sessanta – con Einaudi, Gallimard, Weidenfeld, Rowohlt, Grove Press, eccetera – si arrivò con un vecchio aereo a tappe: Roma, Nizza, Barcellona, Maiorca. E con quali sorrisini il Nostro contemplava dalla terrazza Elio Vittorini e Gianfranco Contini e Carlo Levi che sdrucciolavano sulle scogliere in costumi da bagno antichissimi. Lui, invece, sul classico: lino bianco liso e maglione blu-notte délabré. E un piccolo cocktail fra le dita, scelto probabilmente per il grazioso colore rosa pallido. Come del resto anche a Bocca di Magra, fra yacht e letterati internazionali, per una luna di miele di George Weidenfeld, che aveva affittato la villa di Percy Lubbock.
... Sinceramente convinti (o li persuadevano i sicofanti?) che ogni loro apparizione illuminava e gratificava qualunque occasione, evento, ensemble... Quindi rimanendo male, se riveriti meno di un illustre accademico o di una vecchia dama... Contesti ove si guardavano dall’apparire, preferendo le epifanie fra redattori e traduttori, oppure fra comprimari e sarte di scena...
Ma in quanto all’eleganza, la tipica allure di personaggi così diversi come Giulio Einaudi e Luchino Visconti e Gianni Agnelli e Valentino Bompiani si potrebbe forse ricondurre a Pinerolo: a quella ormai remota Scuola Militare di Cavalleria che impostò e formò il portamento e il fraseggio un po’ sprezzante e un po’ frivolo di alcune generazioni di caratteristici ‘distinti’. Come quegli uffizialetti ‘elegantoni’ col Punt-e-Mes in mano sulla porta delle pasticcerie chic di Voghera. Emettendo casuali sovracuti. Allora veniva pregiata un’‘insolenza’ non solo tradizionale per valvassini ma più moderna, francese: ah, l’‘insolence’ di Diaghilev, di Cocteau, dei surrealisti, delle avanguardie... Nelle versioni più fatue si poteva arrivare ai ‘gagà’ degli anni Trenta che si vedevano ancora in giro, coi loro baffetti, negli anni Cinquanta, raccontando storielle sui Circoli, sempre le stesse.
E invece Giulio Einaudi apparteneva piuttosto a un alto dandysmo subalpino, con la civetteria di una cultura raffinatissima e l’ostentazione di una riservatezza molto cool. Era spontaneo nei riguardi chic, e bravissimo nei rapporti freddini, soprattutto agli stessi livelli professionali e sociali. Ma non era un tratto personale. Piuttosto, un carattere specifico della ‘piemontesitudine’ cui apparteneva. E infatti lo si riscontrava analogo in vari personaggi torinesi molto più segreti: antiquari, ammiragli, esperti d’arte e di cavalli e di vermut. Riservati, amabili, monosillabici, con qualche falsetto.
Ma a parte i più noti Agnelli o Antonicelli, che squisita «grande mademoiselle» letteraria fu Nina Ruffini. E che magnifica ospite e collezionista, Valeria Litta, cioè Rossi di Montelera.
Soprattutto, che enormi lavoratori perfezionisti erano questi esteti così signorili e fini: lui, il milanese Luchino, il genovese Mongiardino. Abbiamo fatto almeno dieci libri insieme, a partire dal 1957. E la produzione di Einaudi era ormai colossale. Si trattava di sprovincializzare l’Italia, niente meno, e di rimetterci al corrente con le idee. Mentre Giangiacomo Feltrinelli e Livio Garzanti lottavano coi complessi e i fantasmi del Novecento. Mondadori e Rizzoli passavano alle seconde o terze generazioni. Ma non vidi mai Giulio Einaudi perdere la grazia o la flemma, quando l’azienda periclitava e non pagava, naufragava il gusto della qualità, i collaboratori mai compensati commentavano malamente quella sinistra mega-festa per l’Enciclopedia a Castel Sant’Angelo, con le fiaccole fuori, e i dirigenti che dichiaravano «fa tutto lui»...
Anzi, Einaudi continuava ad avanzare invano trovate e proposte piene di garbo: ma perché non mi fai un commento del Parini andando un po’ a fondo sui rapporti col giovin signore? non mi faresti una nuova traduzione del Ritratto di Dorian Gray in un linguaggio tuo?
Questi suoi Frammenti di memoria consistono di duecento pagine, e vi si ringraziano dodici esperti di editoria. Eppure vi appaiono con grafia errata i cognomi (benché battuti infinite volte sulle buste) dei colleghi editori Weidenfeld, Wahl, Rowohlt, Wolff, e di due storici: Seton-Watson, Mack Smith. L’editore Stanley Unwin viene chiamato «Sir Unwin», come dire «don Croce» e non «don Benedetto». Dell’editore Gallimard è errato l’indirizzo: «Bettin» invece che «Bottin». Anche i titoli di Gianfranco Contini ed Elsa Morante pubblicati da Einaudi (Esercizî di lettura, Aracoeli) appaiono inesatti. E lo scrittore Chaucer risulta con una «h» di troppo.
Ma se incominciasse a capitare così anche coi titoli in Borsa, e con le cifre dei conti correnti in banca?