ANGELO MARIA RIPELLINO
Com’era tutto «magico», in Angelo Maria Ripellino, oltre che la sua Praga. Era una personalità incantatoria e assorta, abitante del Meraviglioso e abitata dal Fantastico. Trasognato, ispirato, esorbitante e lampeggiante, misteriale e cinetico. Attratto dall’imagerie come dalla clownerie, dal ciarpame carnevalesco dei ceffi, dei ghigni, dei grugni, dalle cabale e frappe bislacche nelle appariscenze sgangherate e diaboliche.
Il trucco e l’anima diventa un manuale sempre più leggendario e sovrumano: per l’immane sforzo di ricostruire e descrivere decine di spettacoli mitici nel più rimosso Novecento russo, come da una poltrona in prima fila nei teatroni e nei cabaret, quando poi in epoca sovietica gli artisti erano stati massacrati, i ricordi ormai dispersi, i materiali volutamente distrutti, gli archivi arcignamente inaccessibili. Ma Angelo Maria si muoveva tra le avanguardie storiche e i costruttivisti e i fumisti e gli eroi e le vittime come se si fosse tutti in trattoria dopo una ‘prima’ di Visconti e di Strehler. E come se l’accurato cronista si mettesse a tratti a svolazzare come Chagall.
Quando andai a Mosca nei primi anni Sessanta, con gli Amici della Scala, l’immobilismo culturale sovietico ancora conservava – ripetitivi come i balletti ottocenteschi al Bolshoi – spettacoli antichi e favolosi come L’uccellino azzurro di Maeterlinck-Stanislavskij e la Turandot di Gozzi-Vachtangov. E lì il lettore amico di Ripellino riconosceva e capiva subito le intenzioni e i dettagli. Poi, quando incominciò a far la critica teatrale sull’Espresso, al livello qualitativo già eccelso di Sandro De Feo e Nicola Chiaromonte (e di Massimo Mila e Fedele d’Amico per la musica, di Paolo Milano per la letteratura), una folata di invenzioni stilistiche e fantastiche giunse a nobilitare e animare e accendere ogni routine dell’Eliseo e del Quirino e del Valle.
Ma io gli dovrò sempre una schietta gratitudine di tipo iniziatico. Nei primi anni Sessanta, nessuno ci aveva mai parlato dei Formalisti russi. In un lungo viaggio in treno da Salisburgo a Vienna, dopo un Premio Formentor (l’andata fu con Carlo Levi, i pranzi e i concerti con Mary McCarthy e Gabriele Baldini), Ripellino me li spiegò tutti uno per uno – Sklovskij, Jakobson, e gli altri, anche a Praga – anche se non li amava molto e non gli interessavano troppo. Mi prestò il manuale dell’Erlich pubblicato all’Aia e allora introvabile. Mi si aprirono straordinariamente gli occhi sullo Strutturalismo, oltre che sulla critica.
Quando l’Italia era di moda, mandavo regolarmente una «Letter from Italy» a Vogue, allora diretta dalla famosa Diana Vreeland, mentre l’editore era Alex Liberman, anche scultore in ferramenta, che poi la licenziò bruscamente, quando fu deciso di abbassare il livello del magazine allo standard della moda pronta. Così, per quella leggendaria direttrice, si spalancò una serie di esposizioni al Metropolitan sulle Corti ottocentesche europee. Ma prima di allora, un paio di volte all’anno, in occasione delle sfilate c’erano dei famosi pranzi da Rudy e Consuelo Crespi.
Lì, una sera, in un silenzio improvviso, Tatiana Liberman proruppe autorevolmente: «... E posso ben dirlo io, che sono stata l’ultima fidanzata di Majakovskij!».
Grande sorpresa, mentre il marito avrà sentito chissà quante volte la storia. Così, per rompere gli stupori, mi scappò detto che avevamo lì a Roma, benché malaticcio, appunto Ripellino, massimo nostro esperto di poesia russa e sovietica. «Chiamatelo immediatamente!» impose lei, molto autoritaria russa. E Consuelo, in quanto padrona di casa, remissiva: «C’è un telefono di là, nella mia stanza». Non era tardi, chiamai Ripellino. E lui, chiaramente sobbalzando: «La Jakovleva!». (O qualche cosa di simile). «La cerco da tutta la vita!». Trionfante e padronale, lei andò di là, e conversarono a lungo in russo, tra infiniti «pajarska» e «spassibo». Si videro la mattina dopo, al Grand Hotel.