GIANNI MORANDI
È giovanissimo, sembra minuscolo, addirittura fragile: ma ha mani molto stese, e dita molto grandi. Anche un grande buon senso. Capelli piuttosto lunghi, di un bel nocciola. Occhi color lucertola, vivissimi. E quel torrente di voce emiliana che accarezza l’intera Italia e la fa rabbrividire nelle sere d’estate. Come se le partenze da Viareggio o Riccione fossero molto misteriose, e le distanze fra Novara e Pistoia straordinariamente incolmabili... «Ma le mani lontane – non si stringono più»... Voce sentimentale e vibratoria e ondosa, appoggiando con forza sulle vocali le sue nasalità appenniniche perentorie... Ed esce tutto sommato da una bocca da gattino, con la sua linguina rosa e i suoi bei dentini tutti uguali, tutti ridenti.
Molto agile, molto snello: d’una vitalità giustamente continua («Non posso mica fermarmi, se mi viene l’esaurimento dovrei riflettere su troppe cose»); sempre saltando; sempre con la chitarra in mano: la prima cosa che dice è «con l’Emilia si spiega tutto: è una regione dove la gente ha sempre avuto da mangiare abbastanza; e questo è talmente importante...». Ma... e a Roma, allora? A Roma, la gente, appena mangiato, di solito non si occupa d’altro... Diventa subito serio: «Il guaio è che a Roma non si occupano d’altro, neanche quelli che non hanno abbastanza da mangiare».
Un nome più ‘giusto’, era impossibile trovarlo. In Italia non esiste che un altro Gianni, ed è l’avvocato Agnelli; e il solo altro Morandi, è un pittore altrettanto celebre. Ma così giovane, così svelto, così vivo e deciso, lui ha questo gran vantaggio di poter ‘reggere’ qualunque tipo di costume: dal giubbottino bianco yé-yé al giustacuore setoso dei moschettieri, dal collant di Superman con casco spaziale, a una calzamaglia del Dugento con penna di fagiano sul berrettino a punta. Dunque in questi giorni si sbizzarriscono in molti a spogliarlo e a rivestirlo in diverse fogge in diversi momenti della giornata: e questa diventa una corsa frenetica sempre un po’ in ritardo fra gli studi della Vides (dove gl’infilano una cotta color acciaio per un musical di Tessari) e i teatri della Rai (giacca di cuoio chiaro a frange western per una «Scala reale») e le sale d’incisione della Rca, la casa-madre discografica sempre menzionata con una punta di reverenza.
La chitarra sempre in mano, sulla Cinquecento guidata da un ragazzino amico, o sulla Giulia condotta da un gorilla buono: qualche accordo, ogni tanto, sul sedile di dietro. A tutti gli arrivi, i gruppi delle bambine inverosimili che strillano: e allora, fotografia; breve saluto-scherzo un po’ in romanesco (mica tanto: «Le mie sonorità emiliane, sto bene attento a non perderle»); e subito dentro. E appena di là dai cancelli, il grido «pronti! tutti! è arrivato Gianni!» si propala come un tam-tam lavorativo in una giungla di complessini che sembrano spuntargli intorno per formazione spontanea: tutti con gli stessi capelli, e magari le stesse facce, una chitarra in mezzo, lo aspettano per mezze giornate intere cantando solo le sue canzoni, mentre le paghe sindacali blandamente s’accumulano. Poi – «Signori! vogliamo dare un senso a questa nostra riunione?...» ha gridato un megafono – si ritrasformano in comparse o in elettricisti: portando la cintura degli attrezzi bassa sui fianchi come se contenesse la Colt e non i cacciaviti, camminano molleggiandosi, aprono la bocca solo per sbadigliare, o per le ‘a’ proterve e le ‘o’ ingorde della «Fisaaarmooonica»...
Viene chiamato. Si butta su un qualche set. Salta, s’arrampica, si sgola con allegria fra le assi malferme; porge le guance e il collo alle luci calde delle lampade ad arco; s’infila tra i fondali appena sistemati, riappare in fondo, viene avanti corrugando il naso leggermente, muove impercettibilmente la mano sul fianco, inclina la testa, fa brillare quel tanto che occorre la cornea o la saliva. Basta un nuovo riflettore, lo scatto di un’Arriflex, l’attacco d’una registrazione in playback, per dargli un sussulto di sensibilità da show business, da animale inseguito o da cacciatore in agguato. Poi con un altro salto ritorna giù fra le comparse e le segretarie, fra vecchie ragazze in occhiale nero e capello corto, e giovanotti in ‘majone’ gonfio e calzone stretto, fra le mezze frasi romane dense di «ccccc» e «zzzzz» – tutti con qualche cosa da chiedere, nessuno con qualche cosa da dare – finché la voce pacata-ironica di un direttore o regista richiama ancora tutti quanti dall’altoparlante all’osservanza del prossimo dovere. Mai visto nessuno tanto toccato, da tante mani.
Le prime curiosità riguardano veramente il Successo. Questo mito, nel caso di un attore o un cantante, ‘leggero’ o no, mi pare scomponibile in due grosse questioni. Una: chi prende le decisioni. Cioè: il cantante, o l’attore, in quale misura si manovra da sé, o viene manovrato da altri? Dirige? O viene diretto?
Due: come amministrare un grosso successo? Più è grosso, anzi, si sa bene che proprio per la sua natura tende a risultare effimero. Questo si vede molto bene in letteratura. Negli Stati Uniti, unico posto dove i ‘colpi’ possono veramente riuscire grossissimi (e così uno può bastare per una vita intera), Mary McCarthy e Truman Capote «ce la fanno». Cioè, dopo parecchi anni spesi guadagnandosi una fama sofisticata, quasi solo per élites, improvvisamente esplodono confezionando un accurato, calcolatissimo prodotto middlebrow, destinato al pubblico di massa che lo riceve come Cultura, e come tale lo paga. E con l’accumulo (in meno di un anno) dei diritti d’autore, dei paperbacks, delle riviste, dei club del libro, della televisione, e di Hollywood, uno scrittore riesce a mettere insieme in una botta sola quella tale somma, superiore al milione di dollari, che lo ‘sistema’ per sempre. In Italia, in un mercato così ristretto, va da sé che questo non appare assolutamente possibile. I ‘colpi’ sono rari, il successo corrisponde a un numero di milioni molto limitato, quindi non ‘sistema’ nessuno per sempre. Andrebbe ripetuto. Ma difficilmente si ripete più volte. (Sembra quindi più saggio, addirittura, amministrare oculatamente un certo tipo d’insuccesso, per un lungo periodo).
Invece, nel caso del cantante ‘leggero’, la differenza appare non tanto nel successo più breve e nel guadagno più forte, ma proprio, piuttosto, nella nozione stessa di ‘successo’. Nel territorio della canzone, la retorica del Successo viene praticamente soppiantata dalla mitologia del Personaggio. Il mio Personaggio attuale, il Personaggio del tale o della tale, il Personaggio di tre anni fa; trasformare il proprio Personaggio; e soprattutto, prima di tutto, fare la parodia del proprio Personaggio. Un espediente quotidiano, ripetuto, insistente: eppure sempre considerato con ammirazione, un’impresa da forza-e-coraggio: «Ha avuto la forza (ha avuto il coraggio) di fare la presa in giro del suo Personaggio!».
A Gianni Morandi scappa perfino un’espressione bellissima: «Negli ultimi tempi, ho la sensazione che il mio Personaggio si sia un pochino sporcato». (E perché? una serie d’accidenti fortuiti: i capelli più lunghi, la Bestemmia d’Alessandria, una vecchia intervista a Vie nuove da cui rimane appiccicato l’epiteto di ‘cinese’; ultimamente la canzone del Vietnam censurata dalla televisione...).
Fuori dal Teatro delle Vittorie, corriamo i raccordi anulari per andare a colazione a casa sua: abita in campagna, a parecchi chilometri da Roma, ma la giovane moglie ha l’influenza, deve assolutamente vederla nelle due ore di pausa, infiliamo la Nomentana. Si vede subito: un discorso sul successo lo preoccupa poco, all’inizio, forse gli arriva un po’ inaspettato, gli strappa solo un ricordo: una guardarobiera di Sanremo che a una vittoria di Dallara dopo due di Modugno consecutive, commentava: «È giusto, un po’ per uno»... E una gratitudine: «Ecco, prima di tutto dovrei ricordare il paroliere Migliacci, nel caso mio ha fatto come dire da talent-scout, oltre al fatto che ha poi scritto quasi tutte le mie canzoni: è uno che sto molto a sentire». Riflettendoci un attimo: «Però è vero, in fondo è giusto: stia sicuro, è un tipo di discorso che serve più a me che a lei, perché dopo ho occasione di ripensarci... è verissimo, che da un po’ di tempo mi va tutto bene, anche se il mio momento migliore è stato due anni fa, per me... Però continuo a vincere tutte le gare, e se mi metto nei panni del pubblico, mi sorprendo a pensare: gli va troppo bene, dunque può diventarmi antipatico, e allora, continuerò o no a comprare i suoi dischi?»... Ma ogni considerazione su come amministrare un successo in atto lo riconduce subito a una schietta ammirazione per Celentano – «È stato il primo! ha insegnato moltissimo a tutti noi!» – maestro esemplare oltre tutto anche nelle tecniche del prolungare il proprio successo.
Ma perché si sporcherebbe, insomma, questo Personaggio? E ha importanza? «Sì, enorme; e le cause sono sempre le più banali: basta vedere la quantità pazzesca di lettere di fans dopo l’ultimo Festival delle Rose... m’ero presentato coi capelli un po’ lunghi ma neanche tanto, per le esigenze del film... Ebbene, tutti fuori di sé. Pieni di rimproveri: ma come! non diventerai per caso capellone anche tu? E caso mai, invece, dopo diversi anni di Personaggio unilaterale, di buon ragazzo tutto acqua-e-sapone, tutto impostato sull’unica dimensione sentimentale del “non son degno di te” e “in ginocchio da te”, i fans dovrebbero sentirsi lieti di un qualche cambiamento, d’una minima novità»...
Non preferirebbero, dunque, i fans, un Personaggio più complesso, più maturo?... «Ho paura di no, per adesso: credo che mi vogliano sempre il medesimo, il solito ragazzo sentimentale tutto-cuore... senza magari capire che una serie di dischi troppo simili fra di loro rischia di smorzare gradatamente l’interesse intorno al Personaggio, mentre sarebbe molto più ‘spettacolo’ un ritorno impressionante all’acqua-e-sapone dopo almeno un disco d’intonazione ed esperienze tutte diverse»...
La canzone censurata poteva appunto risultare una piccola svolta, un minuscolo arricchimento... «Un gran peccato: non era affatto una canzone “sul” Vietnam, una canzone politica che tirasse a dimostrare una tesi. Trattava dell’evoluzione di un ragazzo, e dei suoi interessi, che naturalmente sono gli interessi di tutti i ragazzi di oggi; e lo si avverte subito, per la presa immediata che hanno queste canzoni sul pubblico. La parola “Viet-nam”, del resto, stava lì non solo come indicazione precisa di un tema d’attualità – di quest’anno, non di dieci anni fa... – ma soprattutto per il gran bel suono di quelle due sillabe lì, “viet” e poi “nam”... si sente, no? come suonano bene, come si prestano all’accompagnamento con la chitarra...».
A casa, uno scoppio d’entusiasmo. «Non è una casa magnifica?». Siamo in un piccolo casale rimodernato, oltre un muro compatto contro i torpedoni dei fans, in una campagna senz’alberi: «Ma guardi un po’ qua, quanti ne stiamo piantando...». Pareti rosso-cotto fuori, «e quelle tegole lì da sistemare, ce n’è sempre qualcuna fuori posto»... Dentro, invece, pareti chiare, pavimento vastissimo bianco e nero, un lungo divano di cuoio, tanti dischetti. «Gli altri mobili, arrivano dopo, siamo qui da pochi giorni». Il medico è di sopra, gli spaghetti stanno per arrivare in tavola; nuovi alberi sono stati piantati nella mattinata, bisogna vederli. Il mangiadischi inghiotte un ultimo Celentano, non ancora uscito. «Quanti anni?». «Non ancora ventidue»... C’è un gran sole, un gran vento. «Non è una meraviglia?». Ah, la felicità... l’ideale: da casa agli studi e alla Rca per la Nomentana e i raccordi, non andare in centro per settimane intere. «Del resto, mia moglie s’annoia anche più di me, a Roma, in mezzo a quella gente che c’è... Come si fa, a divertirsi, fra quelle famiglie che non sono famiglie... Se c’invitano ai ricevimenti, riusciamo sempre a non andarci. I compleanni delle dive... Macché. Si sta così bene qui».
Gli spaghetti, la bistecca; e fra gli spaghetti e la bistecca, un’altra corsa di sopra (c’è scritto ‘Lauretta’ anche sul cruscotto di finto-legno della Giulia). Torna rasserenato. Qui si sta benissimo. Ma qui, da un lato, una fierezza spontanea – «Sono Gianni Morandi, posso fare quello che voglio» – spinta fino all’ingenuità, ma dopo tutto è realismo obiettivo, quando parla di progetti di lavoro, di maggiore o minore potere nelle decisioni. «Ho rifiutato veramente tante proposte, anche grosse, anche quella dei Pugni in tasca: ma sarebbe stato troppo, per il mio Personaggio d’allora, per il mio pubblico, Gianni Morandi che ammazza la mamma con un dito... Ma se propongo io un programma di lavoro, molto serio, non me lo possono dire, di no!».
D’altra parte («Sono otto anni, praticamente, che non mi fermo!») un’insofferenza viva, alacre addirittura. «Non si può far niente...». Come, niente? «Essere qualcuno, è peggio che essere nessuno: anche la portinaia ti spia e ti controlla, per come sei vestito. Mi piacerebbe tanto fare un musical in teatro. Ma forse mi piacerebbe ancora di più cambiare tutto, abbandonare tutto, e ripartire da zero, però facendo tutt’altre cose, e queste altre cose farle all’estero... mi piacerebbe in Inghilterra. Ma non ricominciare con le canzoni, ormai è una cosa che ho già fatta, fino in fondo, e poi se non sei uno sconosciuto, il successo in patria può danneggiarti molto all’estero: tutti si domanderebbero cosa c’è che non va, diffiderebbero subito: perché non sta a casa sua, chissà cosa c’è sotto... No, intenderei proprio una nuova partenza; molto più eccitante: per esempio, una grossa agenzia di pubblicità, in Inghilterra! Non è un’idea? Sono sicuro che ce la farei!».