PIERO FORNASETTI
«La follia pratica» s’intitola nelle scuderie di Palazzo Ruspoli questa bella mostra di un artista milanese illustre, Piero Fornasetti. Forse sconosciuto a Roma (non a Londra, né fra i collezionisti d’America). Ma si presenta piuttosto come uno Spazio Metafisico affollato di segni eleganti e molto forti. Come il memorando negozio Fornasetti di via Romagnosi, negli anni Cinquanta, di fianco al bar e al grill dell’Hotel Continental, e a due passi dal portone di Giangiacomo Feltrinelli Editore e del Milan Football Club; nonché a pochi metri, beninteso, dalla Scala.
Era un alto emporio affastellato e rigoroso di neoclassicismi in bianco e nero e a colori venuti fuori da un surrealismo alto ma lieve, Arlecchini e Pulcinelli passati attraverso Gio Ponti, i lunari popolari, magari Picasso. Ordini architettonici scomposti e ricomposti in aneddoti e accumuli e apostrofi (e anacoluti, addentellati, allegorie, ambiguità, apoftegmi...) stilizzati e visivi, come le conchiglie e le farfalle, gli obelischi e le carte da gioco, i pesci e il Sole, in una decorazione rastremata generosa di bellezza concettuale per oggetti che accerchiano la vita quotidiana, già intristiti dalla materialità produttiva, erranti in cerca di design.
Come in Magritte più ancora che in Longanesi, una grafica di sommo virtuosismo scompaginava e assemblava corpi e volti in vassoi e piatti (tondi, concavi, bombati, manieristici...) dove un viso femminile ottocentesco diventava una lampadina illuminata, un pallone di montgolfiera, una perla in una conchiglia, un quadrante d’orologio, un piatto dentro un piatto (con le sue posate), mentre l’occhio bruno decostruito riemergeva in una viola del pensiero, una fetta di groviera, un muso di tigre. E fogli accartocciati, programmi di Toscanini o testate del Mondo, diventavano porcellana e portasapone e posacenere, mentre il portombrelli sarà un parafuoco in forma di cagnaccio: come in certe litografie di Max Ernst dove l’ultimo vagone di un treno contiene una gondola completa di gondoliere, canale e ponte.
Fornasetti (1913-1988) era un architetto dandy novecentesco per l’appartenenza al milieu eccelsamente professionale di Gio Ponti e Domus. E fuori dal tempo come certi vecchi signori milanesi remoti dai media e dalle mode in un loro intenso ritegno di camicie e gilets e velluti stravaganti e squisiti, argenteria e collezioni, zafferano e tartufi, e vita di club. Rigidi e affabili in loden e bicicletta come ufficiali del Savoia Cavalleria, accesi dalla musica e dalle memorie davanti a un grande camino sopra un giardino segreto. Baffetti e ricordi perfetti: lo rammento a un ultimo ballo nella Villa di Maser, appartato e ridente tra le fiaccole sulla terrazza e Volpi e Cicogne araldiche e i trompe-l’oeil del Veronese che improvvisamente sembravano suoi portombrelli o paraventi, davanti a una porta dipinta.
L’invenzione decorativa appare vertiginosa in un perfezionismo impeccabilmente ‘cool’, anche nel sontuoso volume-catalogo che accompagna la mostra a Roma. Ecco qui i famosi cabinets e trumeaux illusionistici ormai da alto collezionismo, decorati come biblioteche di libri antichi e architetture di Vitruvio e Palladio, ville pompeiane immaginarie, città fantastiche di Savinio, collezioni d’armi e strumenti musicali, capitelli archeologici, fantasie su applicazioni pazzesche o prazzesche (a una bicicletta...) delle malachiti del Palazzo d’Inverno. Ma anche un’attenzione precisa al Piranesi dei rilievi sui marmi di scavo nelle collezioni di cardinali e milordi. E una sublime serie di piatti con le cupole in prospettiva della Salute o Sant’Ivo, di Brunelleschi a Firenze e Guarini a Torino. E la famosa tenda alla veneziana che riproduce la facciata delle Procuratie Nuove... Quando si vide al Piccolo Teatro quel celebre Galileo brechtiano, con una scenografia a dettagli di modelli architettonici, venne spontaneo di esclamare: ma è un Fornasetti! Come più tardi, vedendo stilizzazioni di posate e mestoli sulle salviette da cucina di «Valentino Più».
L’esuberanza creativa dell’artefice negli anni Cinquanta spinse anche a ‘proseguimenti’ individuali, in case ancora piene d’oggetti: i bellissimi pliants neri laccati a nodi, usati come supporti ai vassoi di metallo dipinto di Pontypool, presi a Londra; i busti degli imperatori verde-rame, ricoperti di collane indiane in pietre dure; i piatti da insalata a mezzaluna d’oro, accoppiati al servizio ‘Caffè Greco’ di Richard-Ginori con bordo arancione e dorato e nero; l’attaccapanni a riccioli rossi con pigna d’opaline celeste da balaustra, trasformato in «albero del cashmere» con pullover e sciarpe di tanti colori... E ancora poco fa, all’albergo Orologio di Abano Terme, si arrivava alla piscina per una sua inconfondibile sala marina, con ampie losanghe di conchiglie vere alle pareti, e ‘lustres’ idem...
Forse proprio questa connotazione stilistica tanto originale e riconoscibile nell’invenzione e nei procedimenti ha un po’ nuociuto all’immagine di Fornasetti negli anni della nuova sobrietà: come per certi Missoni o Hermès di cui subito si individua la provenienza e il prezzo. E allora, in contesti casalinghi mutati, alle decorazioni di montgolfiere e uccelli e ombrelli colorati si preferirono piuttosto i cestini da carta metallici stampati in finta paglia di Vienna, i portaghiaccio a righe verticali verdi e blu, i grandi posacenere d’oro opaco ‘Grande Antico’ delicatissimi però facili da amalgamare nei bassi profili...
Poi, il Post-moderno ha riportato indietro greche e piedoni, chitarre e Pompei. E mi resta una memoria di pochi anni addietro. Una domenica pomeriggio, dopo una colazione dietro la Scala, passiamo a vedere la nuova bottega di Fornasetti in via Brera: un emporio di magìa e di mistero come certi orologiai, occhialai, ortopedici, nel Paysan de Paris d’Aragon, in Ascolto il tuo cuore, città di Savinio. E lì, vedendomi salutare oltre la vetrina, i miei amici domandano «saluti i cagnoni o le teste di moro?». Salutavo invece Fornasetti, che alle tre d’una domenica pomeriggio, elegantissimo in nero, sistemava le sue teste-seggiole, accarezzava i suoi cani e gatti portacarte, sorrideva rispondendo al saluto: come un trompe-l’oeil di se stesso...