GABRIELE D’ANNUNZIO
Il più polimorfo tra gli italiani sta venendo commemorato in tantissime vesti e salse. L’Esteta Estenuato, l’Anacoreta Adultero, l’Aviatore Ascetico, il Motonauta Mondano... Monstre sacré, all’italiana, davvero ha costantemente fatto di tutto: pattinando – gran letterato – dal naturalismo rurale d’Abruzzo ai «beautiful people» cosmopoliti più chic, dal Medio Evo passionale più dantesco (anche nell’attrezzeria) alla decadenza veneziana da Morte al Danieli o al Des Bains, dalle guerre patriottiche contro il secolare nemico in seguito rivalutato (Vienna asburgica, Mahler, Rilke, Sachertorte, ecc.) agli scavi di Micene, dalle avventure motoristiche (monoplani, motoscafi, ecc.) ai digiuni nei romitaggi francescani, con traffici anche loschi tra le Capponcine e le Porziuncole... Dall’esilio all’incesto, dalla Gran Dama alla Signora Parola... Dal Dugento a Nietzsche, da Gustave Moreau e Mariano Fortuny a Wagner, passando per i ferri battuti e i seggi con zampe e con unghie, sempre in compagnia di Sorella Morte e dei migliori Vampiri... Pronto prontissimo a qualunque malizia per colpire tutti i fruitori e gli utenti dal livello volgare alla sfera del Sublime...
Riecco l’eroe nazional-mondano alla Lord Byron, da edicola di stazione ferroviaria, capace di mettere d’accordo lettori anche diversissimi: il sottotenente libresco, il viveur capriccioso, la signorina che suona il piano, la fedifraga con la valigetta pronta, l’editor di Vogue... L’amante lussurioso che fa rabbrividire la provincia, perché anche negli ultimi buchi dell’Italia profonda ci si pone intorno ai biliardi e nelle bocciofile l’inquietante quesito «ma lo sapete cosa si fa fare D’Annunzio dalle donne?» – e la sola risposta decente potrebbe arrivare da quei ‘raisonneurs’ che in tante commedie di Pirandello esclamavano e ripetevano: «Signore mie, sapessero che male! che vergogna! Sarà stato doloroso, eh!».
Ma il decadente sfrontato, discepolo di Oscar Wilde come genio creativo di slogan pubblicitari («A dir le mie virtù basta un sorriso» per un dentifricio, «Io son Gioconda che ti faccio andare» per un’acqua lassativa, la sigla stessa della Rinascente), quando si fa arringatore di folle plaudenti anticipa e fornisce modelli al suo discepolo Mussolini, di vent’anni più giovane. Ecco il viraggio belligerante e laico di rituali già religiosi e liturgici: cortei con fiammelle, cippi con reliquie, veglie mistiche, brama di martirio per una sacra causa, appelli ai compagni morti dati per vivi... Discorsi da un balcone uso pulpito... Dialogo con la folla di fedeli che fra inni e cippi e steli risponde sì sì, no no, vogliamo morire, e tornando a casa si esalta... Però, anche ideatore di feste trasgressive continue: soltanto i reduci del Maggio Francese nel ’68 hanno riportato entusiasmi pari a quelli dei reduci dell’impresa di Fiume: grande esuberanza di combinazioni sessuali anche complicate, e fiumi di cocaina non-stop.
Forse, però, ci riappare – soprattutto – come prototipo eccelso di operatore culturale moderno.
Povero Imaginifico. Si trova a operare in una Italietta meschinissima che sta offrendo il peggio di se stessa, in manifestazioni letterarie e architettoniche e artistiche da arrossire, se paragonate ai sei secoli della Grande Civiltà Italiana (il Rinascimento defunto di Mantova e Ferrara e Urbino... il Barocco denigrato proprio dalla culturetta umbertina...) fino al Gran Finale illuministico e poi romantico, a cavallo fra il Sette e l’Ottocento.
L’animo dell’Italia (l’esprit, der Geist) precipita improvvisamente e misteriosamente verso la metà dell’Ottocento, anche nei confronti dell’Europa colta: come se il compito dell’Unità Nazionale dovesse essere il livellamento di ogni Genius Loci in una palude di meschinità provinciale, burocratica-povera, e anche un po’ puerile, nell’incapacità di affrontare i grandi temi dell’Europa adulta. (Ahimè, qui, se si riesumassero le memorie dei viaggiatori e i rapporti nelle cancellerie...). Eppure, il Passato Italiano, la Grande Tradizione, qua e là, sembrano capaci ancora di riverberare illuminazioni struggenti su chi riesce a levare il pensiero al di sopra della melma...
Allora, D’Annunzio non si finge a Mayfair, non s’inventa una improbabile nonna Wittelsbach o Talleyrand, non si scambia per Goethe come hanno fatto parecchi in seguito. Accetta l’Eredità Italiana passata e la mediocre Belle Époque locale presente, fino alle conseguenze più imbarazzanti. Affronta, insomma, la nazione com’è; e tenta semmai di mitizzarne gli aspetti col soccorso dell’immaginazione visionaria, come quegli incisori che disegnavano delle piazze romane immense e degli acquedotti spropositati, per le loro stampe «larger than life» (e avviate, senza saperlo, verso le anticamere dei dentisti).
Ma D’Annunzio, personalmente, è un piccolo abruzzese quasi calvo, col mento troppo aguzzo e le braccia troppo magre, in una capitalina circondata dalla malaria e dai dialetti, lontana da tutto, e in penosa crisi di trasformazione impiegatizia ed edilizia. Attraverso le sue cronache mondane, non si scorge una società di personaggi fra Balzac e Proust, con feste e trame Louis-Philippe o Napoléon III appena alle spalle. Né cacce ove il Principe di Galles e il Viceré dell’India trascorrono weekends in castelli con gallerie e biblioteche traboccanti di pittura italiana splendida, disegni di Leonardo e di Michelangelo. Né sale da musica ove i «von und zu» e magari i luminari della scienza europea ascoltano composizioni eccelse che non sono «Sul mare luccica» o «Dal piaser la poareta». Nemmeno la grande società cosmopolita di Henry James in Italia. Si intravedono, piuttosto, fettuccine e aranciate, spese frugali, discorsi alla buona, gran sedentarietà e cordialità; e nei momenti di buonumore questo ‘gag’ del farsi stirare le camicie a Londra, con va-e-vieni di pacchetti, invece di buttarle via quando sono sporche. Come se Lord Curzon, quando si buca una calza, la mandasse a rammendare da una vecchina alla Passeggiata di Ripetta, così si risparmia.
Allora, qui, nei grandiosi progetti letterari dell’Imaginifico s’inserisce una componente leggendaria.
Deliberatamente, «farà i conti» con una serie di realtà nazionali mitizzabili: dalla fine del Regno di Napoli (col fantasma della Regina Maria Sofia a Gaeta, che attraverserà anche la Recherche proustiana) alla speculazione edilizia che distrugge i parchi romani (e che arriverà, tramite «Italia Nostra», ai nostri giorni)... dalle superstizioni popolari con la lingua per terra come nel Voto di Michetti, all’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale senza riflettere troppo sulla possibilità di centinaia di migliaia di morti, o sull’avvenire commerciale del porto di Trieste... Dal disfacimento della Serenissima non ancora turistica e Volpi e Ciga, al mito moderno della grande Diva Superstar, benché Eleonora Duse in tutta la sua carriera sarà stata vista probabilmente da meno spettatori che qualunque presentatrice televisiva in un solo sabato...
Dunque, riuscirà a situarsi al centro di molte problematiche intellettuali dell’Italia moderna, come pochi altri autori dopo di lui. Però, con l’accorgimento di proiettare le più fantasiose aspirazioni del suo Immaginario ‘rinascimentale’ in una ‘favolosa’ galleria di eroine ‘impareggiabili’!... inventando miti e leggende oltre ogni frizione tra Estetismo e Realtà... E progettando per oggi e per domani decine di originalissime e tipicissime Isabelle, Ippolite, Foscarine, Aldoine, Domitille... disperatamente delicate e insopprimibilmente neurotiche, ebbre di Assoluto...
«Grandi farfalle crepuscolari»... «Magnifiche belve»... «Naufraghe nella dolcezza»... Cariche di palpiti e spasimi sempre fragili e sublimi; sbattute e sperdute fra passioni divoranti e rifiuti grandiosi («Massimilla prega... Violante si uccide coi profumi che le manda la Regina... Anatolia è la nostra anima...»)... sembrano dibattersi come il loro autore fra gli aneliti fantastici del desiderio onirico, e la mediocre realtà sociologica di un’Italia moderna dove diverse «prime generazioni senza seguito» incontrano parecchie squisitezze «fin de race», ma non riescono mai a costituire una vera Società...
D’Annunzio le correda una dopo l’altra di vaghezza e di allure, le circonda e ricopre di stoffe preziose, di ‘objets’ che provengono, tutti, sempre, dalle più fastose e depredate Corti del Rinascimento italiano... Ma davvero «capace di tutto», l’Imaginifico (oltre che di ricorrere allo Snobismo più efferato), anche nello sfruttare ogni bric-à-brac del bizantinismo e decadentismo anglo-franco-mitteleuropeo della fin-de-siècle per disegnare questi prototipi ‘eccezionali’ di creature «uniche e inimitabili» – e poi in realtà imitatissime – molto più ‘importanti’ dell’Italietta meschina ove le sue piccole fans venivano derise quali «le danunsio»...
Così come costruisce le sue sgargianti macchine narrative e poetiche sorprendentemente analoghe a quegli squisiti congegni musicali e architettonici di Skrjabin e di Gaudí, di Hofmannsthal e Richard Strauss, che attraverso le preziose crisi di trasformazione dell’Art Nouveau stanno preparando la nascita delle avanguardie storiche, e dell’arte moderna, nelle più sofisticate serre calde inquietanti per la modificazione della sensibilità.
E qui D’Annunzio, come operatore culturale e come ‘craftsman’, assai prima che come psicologo di eleganze e pittore di squisitezze, scopre sovente una reale finezza di concezione e di esecuzione, pari talvolta alla delicata abilità di Henry James – tanto che diverse generazioni di letterati più giovani sono andati interrogando la sua prosa come opera di uno Scrittore per Scrittori alle prese con problemi tutt’altro che inattuali o spenti, e nient’affatto middlebrow: lo scrupolo d’una documentazione ricca e precisa come in Balzac e in Fitzgerald; l’uso del diario interpolato come per Gide; e della divagazione saggistica come ancora in Balzac, in Proust, e magari in Musil (se non par troppo...).
... La casa come «perfettissimo teatro» di strepitose Filosofie dell’Arredamento, nonché come ‘Kunstwerk’ – e come Metafora... Eccellenti descrizioni di Roma e del paesaggio nella Campagna Romana: quell’incontro coi pastori malarici sulla Nomentana, uscendo da un ballo alla vecchia ambasciata britannica – poeticissimo, come l’inizio dell’ultimo atto della Tosca, diretto da Victor de Sabata... E il trasalimento delle emozioni, che dilata il Tempo... nelle intermittenze del Frammento...
Così D’Annunzio mette insieme in una provincia periferica la più monumentale enciclopedia del Gusto nel decadentismo europeo; e non di rado incappa nella Poesia, strada facendo. Ma anche nelle pagine da cui la Poesia è fuggita urlando, le sue soluzioni sono spesso il risultato d’una scelta critica fine e consapevole, che predilige l’incantevole pastiche creativo-critico delle estetiche e delle tematiche nel decadentismo più chic. E anticipa addirittura di molti decenni l’invenzione del Kitsch, col Vittoriale e l’effetto-assemblage del Kitsch sopra e dentro il Kitsch.
Anzi, quale pioniere dell’industria culturale, D’Annunzio coinvolge piuttosto i mass media – e non tanto le università e le scuole, come Carducci e Pascoli – nella Operazione Letteraria, che consiste nella messa a punto di un organismo creativo autonomo dotato di fisionomia propria e di congegni tutti funzionanti. Come se avesse già imparato le lezioni dei Formalisti russi e degli Strutturalisti francesi...
Eppure, bizzarramente, mentre la società italiana digeriva con voluttà l’Imaginifico, la nostra cultura del Novecento lo vomitava con stizza... Succede allora come quando si tenta di negare paradossalmente una qualche caratteristica ineluttabile del nostro Paese, rifiutandosi per esempio di «venire a patti» con la mediterraneità o col cattolicesimo. In qualche misura, le vongole e le gondole risaltano sempre fuori, magari in compagnia del prêt-à-porter. Così lo Stile e il Gusto dell’Imaginifico – Cadavere in Cantina fra i più ingombranti di tutte le letterature, vilipeso, conculcato, negletto – rialzano maliziosamente la testa nelle opere degli autori più rappresentativi delle generazioni antidannunziane. Quanto fraseggio marino alcionesco nelle scene a Capri del Disprezzo; e nelle metamorfosi letterarie e cinematografiche del Gattopardo, buonanotte ai balli e ai frustini sperelliani, e al legittimismo gentilizio delle Vergini delle rocce... Ma anche, quanti celebri nomi si potrebbero elencare nell’alta moda con sede a Roma...
Insomma... Forse, i romanzi di D’Annunzio, come le opere di Puccini, furono gli ultimi prodotti nella storia della cultura italiana non effimera, capaci di metter d’accordo ogni tipo di utente. Parecchie somiglianze inquietanti legano Il Piacere alla Tosca, che è insieme un teatrino sadico-delirante e un melodioso ‘mélo’ d’intrattenimento pomeridiano per piccole famiglie piccolo-borghesi. E i numerosi romanzi dannunziani risultano programmaticamente «à double face» e «a diversi livelli». Reggono perfettamente sia una rilegatura in cuoio infernale da biblioteca di Des Esseintes, sia la confezione in paperback plastificato da autogrill... E forse, da D’Annunzio e Puccini bisogna saltare addirittura al miglior Fellini, per ritrovare un talento altrettanto morbido e scaltro nel riuscire a colpire con operazioni apparentemente così immediate (e una sapienza tanto maliziosa) un pubblico altrettanto ‘universale’ – fra gli estremi della sofisticazione e della sprovvedutezza. Come riusciva a Verdi e a Dickens e a Balzac; e come sarebbe ancora stato possibile a pochissimi Classici Moderni, da Stravinskij a Prokof’ev...
Ma soprattutto, grazie a quella sua perfida abilità letteraria, non disgiunta da frenetico entusiasmo culturale e mondano, il biasimato Imaginifico non soltanto anticiperà tendenze molto più recenti: l’attività narrativa come operazione di industria pubblicitaria, la poetica del pastiche di stili praticata ‘criticamente’ come Proust e Stravinskij e Picasso... Finalmente, con le sue strepitose rappresentazioni dove uno stesso Monstre Sacré interpreta contemporaneamente tutte le parti di una clamorosa «commedia italiana» nella Grande Maniera, arriverà – come un antropologo tenebroso – a individuare costanti profonde nello spirito italiano. E immediatamente, milioni di concittadini si identificheranno nei copioni allestiti dall’Imaginifico per la nostra società, che da parte sua continua poi a seguirli, di recita in recita, una generazione dopo l’altra...
Proprio come boccaccesco, pirandelliano, machiavellico. Detto di persona, situazione, oggetto, «dannunziano» diventa un termine non soltanto familiare, ma con effetti addirittura retroattivi, di secoli.
Victor Hugo, secondo Cocteau, era un matto che si credeva Victor Hugo. Ma anche altri non scherzavano, nella più stretta intimità del diario intimo, cioè a tu per tu col proprio self davanti allo specchio. Paul Valéry invaso dalla Pizia o Parca per mezzo secolo ogni mattina alle quattro, come una Polinesia del pensiero proliferante fra madrepore e atolli della sensibilità e del linguaggio... Thomas Mann trasformato nel calco di un monumento alla nobiltà del proprio spirito, a tutto tondo e in materiali d’una volta...
Meno che meno scherzava l’Imaginifico al Vittoriale, quando il «dandy cariato» diventa un matto persuaso d’essere Gabriele d’Annunzio. E per rassicurarsi circa la propria identità, in un gabinetto chiuso a chiave, si ripete negli appunti per uso privatissimo: «Le mie chiuse tristezze, i miei turbamenti implacabili, i miei tumulti frenetici che io solo conosco... Infinita è la mia innocenza...». Queste noterelle possono sembrare istruzioni sommarie per un attore che non ha ancora imparato bene la parte. O anche gli accorgimenti dei vecchi maggiordomi inglesi perché il lord distratto non si dimentichi il nome e l’indirizzo uscendo di casa.
Però solo la Regina di Biancaneve poteva arrivare a dirsi, davanti allo specchio delle sue brame: «La mia arte somma nel condurre la sintassi a rilevare la sola parola che deve signoreggiare tutto il periodo, tutta la frase... Se ho trovato le più belle cadenze che abbiano mai concluso le prose d’ogni tempo e d’ogni linguaggio, ho anche saputo dare una forza ferina alla fauce dell’intelletto che morde la sorda materia». E non per nulla, nella collera contro «il cinocefalo Borgese e il cercopiteco Baldini» e Croce («ha tanto ingegno quanto un bue nel ruminare»), imita La Più Bella Del Reame furibonda contro il guardacaccia: lo farò morire di sete!
Invecchiare a Gardone, doveva essere bruttissimo: malgrado le donnacce e i ninnoli, la stessa vita di cui si lamentava Madame Bovary. Ma l’orrore della vecchiezza oscena, che D’Annunzio ha sentito più d’ogni altro scrittore, si deve probabilmente anche agli sconsiderati regimi che lui stesso descrive: trenta ore a digiuno senza ragione, e poi tutto uno sbrodolarsi con vino e caffè sulla tovaglia e sui manoscritti fra le dita appiccicose di zucchero e sale che non centrano più né il bicchiere né la tazza. Eppure si paragona con molto favore a Goethe. «Comparate la vita esemplare di Goethe e la mia vita esemplare. Comparate la sua Ifigenia alla mia Fedra. La sua pacatezza al mio eroismo. Il solenne Goethe aveva le gambe corte. La mia vita è la mia opera». (Ma questo, non l’aveva già detto Oscar Wilde, che oltre tutto era stato in America?). E insiste parecchio sul disdegnare e sul dispregiare: tratto caratteristico dei vecchi.
Ogni tanto si guarda allo specchio come l’Alfieri di quell’autoritratto che si mandava a memoria nelle scuole, e con analoghe considerazioni da estetista (l’occhio grigio-azzurro, la fronte caparbia piuttosto che il naso giusto...) alle quali un animo gentile può solo ribattere: allora facciamo la pulizia del viso? Ma anche quando si trova solo solissimo, sente la necessità di rinfrancarsi circa il buon gusto di tutte le suppellettili.
Circa la Poesia, prende appunti sul cielo, il lago, le nuvole, paragonandole a lana scardassata e filigrane orientali, mentre ov’è questione di baci il miele è sempre dell’Imetto, da decenni, e non ci si permette mai l’eccentricità di un paragone, ad esempio, con un miele industriale. Cerca volentieri di «esprimere i silenzi, certi silenzi, esprimere la notte, certe notti, esprimere l’inesprimibile». Ma non risultano curiosità circa le ricerche musicali che tendevano proprio a questo. «Non amo se non quel che ha per me l’incanto di lasciarmi insaziato». Questo fa parte dell’insegnamento che si impartiva una volta alle fanciulle («non dategliela troppo spesso»), ahimè dimenticato dalle padrone di casa troppo premurose: «Ne prenda ancora un po’! si serve troppo poco!».
«La gente dice e crede che io sorrida troppo spesso. Non sa che io sorrido specialmente di questa opinione. Sorrido spesso perché non si sappia quando sorrido davvero». Questo è ottimo: se nel nostro paese di mutrie si applicasse un po’ più spesso il comandamento americano di «SMILE!», che ha raggiunto il suo apogeo nella finanza yuppie... E in diversi casi, riesce a metter d’accordo Cartesio, Pascal, e la Sora Cecia. «Beato colui che ignora il dubbio e la stanchezza». «L’implacabile veggenza interiore conduce alla solitudine dell’anima». «Non accetto altro riposo fuorché quello della morte».
Non oso invece immaginare che cosa avrebbero potuto dire Hugo von Hofmannsthal o Karl Kraus davanti a un aforisma come «Il privilegio dei Morti: quello di non più morire». Ricordo bene però cosa diceva la povera zia Pina, quando le si rompeva un piatto: questo, non si può più rompere. Né mi spiacerebbe assistere alle diverse reazioni gestuali di Wittgenstein e di Eduardo, a «Ogni parola è uno scongiuro, e qualunque spirito esso evochi, esso appare». Circa «Dalla mia malinconia viene la mia saggezza», si potrebbe piuttosto osservare che con un pizzico di ironia (come col sale) avrebbe più sapore.
Chi riuscì a invecchiare meglio? Borges? Nabokov? Beckett?... Intorno al 1930, l’Imaginifico sembra tornare bambino: «I movimenti più contraddittorii della dolcezza che vorrebbe far soffrire e della crudeltà che vorrebbe render felice, della beatitudine che invoca la morte e dell’angoscia che s’abbandona alla vita, della ripugnanza che desidera e del desiderio ebro di repulsione, dell’amore gonfio di odio e dell’odio che vacilla sotto il peso dell’amore...». E nelle paginette intitolate all’Orgia, benché specialista, pare stranamente uno di quegli ‘esperti’ che ne discorrono avendole viste solo al cinema, giacché loro sono bruttissimi. Parla di mandarini, di pistacchi... Dove però accenna a un’amante sorda, pare di riconoscere un ‘topos’ ormai celebre: lui chiede «mi senti?» intendendo una cosa uditiva, e lei ribatte «non sento niente!» intendendone un’altra, di sesso.
Ancora negli anni Sessanta, valutando o rivalutando «il povero Imaginifico» quale operatore culturale altamente professionistico, ci si poteva attirare pas mal di irrisioni, come se si facesse della provocazione spiritosa. Ma osservando le carte dannunziane brevemente esposte alla Biblioteca Casanatense – giacché acquistate dallo Stato per la Centrale di Roma – qualche considerazione sarà ormai ovvia, e tutt’altro che eccentrica.
Quali miti e leggende riesce a elaborare anche nella corrispondenza più quotidiana fra modesti indirizzi tipo Anacapri, Francavilla a Mare, Via Piemonte a Roma. Altro che i luoghi dei grandi viaggiatori e degli insigni mondani. E che gettito o sperpero di energie, sentimenti, passioni. Altro che gli «ego» e le famigliuole e le infanzie caserecce e le parentele e i pensierini della successiva letteratura italiana da condominio e da tinello, coi dispiaceri e i disturbi da portineria e da pianerottolo.
E in quanto al professionismo: ecco una progettazione dei lavori in corso non come intuizioni stupefatte o ispirazioni di volta in volta estatiche. Piuttosto (anche se non c’era ancora lo strutturalismo, a insegnare gli organismi dove tout se tient), ecco la ‘maquette’ degli architetti che non incominciano la costruzione di un edificio se non sanno già il numero di finestre, la posizione della scala, e se fare un cortile oppure no.