DELIO TESSA

Ai matrimoni del dopoguerra, il poeta di casa declamava un brindisi molto ambrosiano con rime tipo «desmentegaa, spetasciaa, tosann, giavann» tra le dame vestite dalla Tizzoni alle tavole apparecchiate dal Motta. «Campanin de la Funtana...». E giù uno scampanio concordato dalla basilica in fondo al giardino: giubilo degli avvocati-dicitori della Famiglia Meneghina, degli anfitrioni-mecenati del Burro Gallone e della Polenghi-Lombardo in tight della sartoria Prandoni, dei medici colleghi e lettori del Professor Andrea Majocchi (Vita di chirurgo) dell’Ospedale Maggiore, e del Dottor Giovanni Rajberti (Il viaggio di un ignorante) edito coi tipi del Bertieri come strenna della Farmitalia. Trionfo del pingue e giocondo poeta Gianni Barrella alla radio domenicale, e sulla passerella del Carcano fra Lia Origoni e Vera Worth: «Tiremm innanz, bagai, la vita è bella assai!». Tino Scotti parodiava la réclame del Vasenol con «Vas-de-nott sott-el-lett». E cantavano i Legnanesi: «Son la slandra del Verzee, la balossa del piacer!». Tale parve, a lungo, la coda dell’eredità di Carlo Porta.

«Diciamo senz’altro che il disinteresse per Delio Tessa, uno dei più grandi poeti del nostro Novecento senza distinzione di linguaggio, è una vergogna della critica italiana» dichiarerà P.V. Mengaldo nel 1978. Ma già Pasolini, solitario e assoluto, ne aveva inteso l’impressionante espressionismo, decadente e scapigliato, fin dal 1952 (ora in Passione e ideologia). Antonicelli e Fortini hanno valutato il Tessa. Contini, forse no.

Questa bellissima edizione critica curata da Dante Isella è un libro più volte drammatico. Nasce fra due tragiche date, il ’19 e il ’39, entro poche strade alle spalle di piazza Missori – via Fieno, via Amedei, via Rugabella – poi stravolte dalle bombe e dalle memorie successive: chiesa di S. Alessandro, palazzo Trivulzio, ginnasio Beccaria, teatro Arcimboldi, ristorante La Nôs, uno studio di De Pisis, un’abitazione di Vittorio Gregotti, la pasticceria Galli ove fu scoperta Lucia Bosè, un gay bar dove sventolava la barba di Allen Ginsberg... I temi e i nomi del Tessa sono anche più rionali: «Corni acustici, lavativi, parrucchine, calli, dentiere, cinti erniari, e una fila di quaresime maladive...». Interni di ciarpami cadenti; e figurette non di fumo ma di forfora accennate con lievi ammicchi sincopati a vicini di ballatoio o di portineria: spesso, importanti professionisti umanisti (Camillo Giussani, Arturo Toscanini, Luigi Rusca) eredi insieme di un illuminismo di successo, e di quel vertiginoso tetano o lupus che sviluppa agonia, come in Dossi, in Lucini, in Gadda, nel cuore civico della cultura più esuberante d’Italia.

Sbigottito, stralunato, con gli strumenti più esili e soft, l’avvocatino-poeta dialettale e conviviale è capace però di violenza, di orrore, di spasimo, come i più efferati drammaturghi e registi delle Lulu e delle Lole. L’incubo atavico di un’atroce invasione tedesca dopo Caporetto, fra le mangiate collettive del 2 novembre. Uno smarrimento in una nebbia simbolista belga, a Mombello, che evoca un amico diventato matto al piano di sopra. Il movimentato epico decesso di una vecchina che non cacava da cinquanta giorni e cinquanta notti. Il naturalismo onirico dei casini più lerci e fetidi della Vetra, con un inopinato vortice di antifascismo furibondo. E l’apparizione madornale a Porta Volta di uno struzzo vivo per il lancio del film esotico Trader Horn (soprannominato dai meneghini «Tredes corn», tredici corna).

Pasolini e Isella citano volentieri una pittura estrema, aggressiva e sfatta: Beckmann, Kokoschka, Heckel, Dix. Altri potrebbero menzionare Mino Maccari. Forse ancora un fantasma viene piuttosto evocato dal perfezionismo tutto acustico di un ‘dizionismo’ rapito e spettrale nelle alienazioni e fratture della foné e dei ritmi: la prima volta che si ascoltarono composizioni poetiche... «Besogna desgaggialla... ona fera... on’immensa passerera... la tontogna, la topicca, la rogna... »... tipo Anton Webern...

Le case della Vetra appartenevano per lo più a una zia Lisetta Gatti, assai tirchia, che mandava ogni sabato un ‘ragiunatt’ a riscuotere le pigioni dentro un cappello. E il Tessa declamava nei salotti borghesi, soprattutto per gli aspetti più pittoreschi. Ma quando mia zia Giugia vendette la villa di Limbiate e si dovette ricostruire un sepolcro con urne e lapidi al cimitero di Voghera, il capo dei lavori non volle niente, perché era il figlio della ‘Claròtt’ e aveva studiato a spese della nonna Manusardi senza che si sapesse. Poi mia cugina, figlia unica, si fece benedettina, consegnò i gioielli di casa all’arcivescovo Montini. Ed è così che quella cappella è piena di Gatti e Cavalli e Fiori sulle lapidi, genere Madame di Tebe.