LUCIANO BERIO
Tre grandi ‘B’ – Berio, Bussotti, Boulez – erano il nostro più affezionato habitat o bistrot musicale, quando si era molto giovani. E con la giunta di una quarta e suprema ‘B’: Cathy Berberian, of course, presto (ahimè) «mitica».
Dove e quando furono, i più bei momenti? Fra la Biennale Musica e l’Accademia Filarmonica Romana, e anche a Palermo e Spoleto, con una gran naturalezza immediata e spontanea di piacere e di gusto, senza teorizzazioni pregiudiziali o alcun ‘complesso’ di ignoranza scolastica, fra le Opere Aperte e i Works in Progress... Semplicemente, noi quattro gatti lettori abituali di Musil e Joyce, ascoltatori disinvolti o entusiasti di Sequenze ed Epifanie e Chemins e Circles, e di varianti incantevoli circa folk songs populisti o Beatles-schubertiani: gruppuscoli soddisfatti in platee magari deserte, sovente in transito fra Medea Bernstein-Callas, Rosenkavalier Karajan-Schwarzkopf, Walkiria Furtwängler-Flagstad, Wozzeck Mitropoulos-Gobbi, e i vari Requiem o Pelléas o Tristan con De Sabata (essendo allora quelli, i parametri qualitativi dell’utente medio, oltre ai normali cartelloni con Gieseking, Cortot, Kempff, Haskil, Backhaus, Milstein, Fischer, Benedetti Michelangeli, nonché Bruno Walter, a poche lire).
Grande felicità d’ascolto; fra i prodigi virtuosistici di Cathy (erano gli anni mirabili di Yma Sumac e di Katherine Dunham, oltre che della grande Maria, e del sommo Luchino), la stupenda dizione dantesca d’Edoardo Sanguineti e gli struggenti birignao illusionistici dei Swingle Singers, gli alacri assoli di strumentisti ancora sbigottiti nello strappo dal fondo orchestrale con un’improvvisa gratifica tutta per loro già cenerentole...
Ci si poneva un tema decisivo, durante e dopo: Stendhal o Cézanne possono attendere i destinatari giusti anche due o tre generazioni dopo, con opere immutate e intatte, mentre fino a poco fa i musicisti avevano esecutori e pubblico e critici nella loro stessa generazione e anzi stagione. Poi, si sa, subentrano i filologi con strumenti «d’epoca». Ma chi restituirà poi l’aura presto ‘arcaica’ o ‘storica’, il mood ‘autentico’? Con quali equivalenti (o espedienti) linguistici non emotivi e non astratti i fruitori e utenti riusciranno a descrivere e comunicare la loro esperienza critica, o estetica, a chi non era ‘astante’ all’Evento?
... Quando dal Laborintus II si sterza e ascende allo splendido tapis-roulant o tappeto volante di Sinfonia, con tutti a bordo del miglior Mahler per un «touch and go» con i più cari classici e successi del Novecento, dai ‘vip’ Strauss e Ravel ai ‘top’ da regalo, con un gusto già post-modern che addirittura «fa Savinio»: Narrate musici la vostra storia?... Teoria della Ricezione come «plaisir du texte», altro che Seminario sulla Programmazione delle Intenzioni...
... Nostalgie per discussioni ormai antiche circa il «prima» fra Musica e Parole: altro che Salieri e Capriccio, in epoca di atomizzazioni e metamorfosi tecnologiche dei fonemi, da ottonari di Metastasio o del Signor Bonaventura, da odi barbare o prosa ritmica o «ventinove-quarantuno-trentacinque-ottantatré»...
Poi si diventa tutti istituzionali e trasgressivi, cioè politically correct e dissidenti e celebrativi e contestatori e contromano e controcorrente e controvento. Controfigure, con contromarche.
Attualmente, signore mie, a lunghi spettacoli pretenziosi e pomposi corrispondono recensioni sempre più rispettose e sbrigative. Per noi vecchie volpi va benissimo, perché ci si congratula comunque evitando scocciature e turlupinature. Ma per una difesa basica del consumatore medio, il ‘discorso’ potrebbe limitarsi a indicare la ‘trovata’: Otello bianco, Giulio Cesare nero, Traviata chez Benetton o a Sarajevo, Salome in una macelleria, Tosca nel Bronx, la Butterfly muore per Aids... E concludere che la Metafora è un Microcosmo, mentre il Microcosmo sarà una Metafora, e comunque «less is more».
Malgrado le origini liguri, l’apprendistato milanese, e l’appartamento romano con una illustre critica di balletti («in Rai tutti prima o poi finiscono per abbinarsi» dicevano in Rai), il centro delle attività di Luciano era soprattutto New York, e la Julliard School, mentre da qualche tempo sarà Parigi, con l’istituto fondato da Pierre Boulez per la ricerca musicale e acustica al gran centro culturale Beaubourg, già famoso prima di inaugurarsi, presso le vecchie Halles.
«Enormi discussioni se crearlo decentrato in periferia, oppure in centro, vicino a tutte le altre arti. Vince l’interdisciplinarietà, allora in centro. Ma non c’era spazio, bisogna demolire una vecchia scuola, d’accordo. Però non si può demolire anche una chiesa gotica per far posto alle arti moderne, dunque l’IRCAM viene costruito in cinque piani sotterranei, dovendo anche risolvere dei notevoli problemi tecnici».
Boulez direttore; divisione in cinque dipartimenti, e Berio dirige quello dell’elettroacustica, cioè la musica elettronica proiettata nel futuro. Un dipartimento ‘diagonale’ coordina e ricicla il tutto. Direttori e consulenti presi dalle università e dalle industrie. E finalmente, la presidenza all’Accademia di Santa Cecilia, per Berio. Negli intervalli, «forse per ragioni personali, di età, di ubi consistam, di spirito del luogo», un lavoro intensamente solitario, in una fattoria toscana isolata.
«Per Radio Colonia preparo un pezzo per coro: una vera fiesta musicale, strutturata come un’antologia di modi tecnico-vocali, di svariatissimi aspetti acustici collegati con mano omogenea, su testi poetici di canzoni popolari jugoslave di lavoro e d’amore. Il coro viene atomizzato: cioè, le sezioni del coro vengono trattate come tanti solisti, proprio coi membri del coro seduti accanto ai corrispondenti membri dell’orchestra, in tante parti strumentali e corali perfettamente integrate; e un testo di Neruda ritorna in forme diverse e su livelli diversi come un ritornello che ne interrompe e commenta il flusso...
«Ancora, un pezzo per violoncello e piccolo complesso strumentale destinato a Rostropovic: lui suona e dirige e irradia le qualità supreme dei virtuosi di vecchio stampo... magari pagate con l’incapacità di vedere al di là del proprio involucro, di armonizzare se stessi come individui con la realtà che li circonda...».
E poi, la direzione artistica dell’orchestra da camera di Israele: due settimane, quattro volte all’anno, e lo stupore di fronte a «un Israele che ha bisogno di una quantità enorme di musica, arma più importante e più giusta del cannone, tanto vero che su mezzo milione d’abitanti Tel Aviv ha 35.000 abbonati alla Filarmonica, contro i 14.000 di New York... E il senso d’una funzione reale della musica, giacché buona parte della popolazione viene dall’Europa orientale, memore di un passato pieno di violinisti: basta sentire i giovani strumentisti russi ebrei, che appena arrivati e ancora stravolti dall’emigrazione eseguono Paganini e Brahms e Cajkovskij con un suono stupendo!».
Torniamo all’Italia... «Certe cifre, da noi, lasciano allibiti. Attualmente, la tournée della Scala a Londra costa 450 milioni, contro i 120 milioni della tournée del Covent Garden a Milano; e anche la London Symphony Orchestra e il Royal Ballet, quando vanno all’estero, non vengono sovvenzionati, eppure riportano a casa qualche migliaio di sterline».
E la critica, la nostra cultura musicale? «Ecco, in Italia, come in tante altre cose, anche nella musica ci sono degli estremi: di qualità, rendimento, atteggiamento, valore!... ma è raro che la critica assolva un vero compito di aiuto e comprensione delle realtà musicali... Infatti, ci sono da una parte critici supremi come d’Amico e Mila, quali non ne esistono altrove; e operano su orizzonti e prospettive inimmaginabili, ad esempio, per la critica americana, che è piuttosto miserabile... Però non credo che esista la categoria del musicista e quella del critico... e qui finisce l’uno, e lì comincia l’altro... Si può far musica anche parlando e scrivendo, e questo rende l’atto musicale così aperto e così bello: si è storico, suonatore, esteta, filosofo, e per di più, per ragioni proprie, si scrive sui giornali... Ma come “cosa a sé”? quando uno fa solo il critico, e non ha altre attitudini o istinti? ma allora è l’orrore! La visione della musica è complessa, e la critica musicale ha senso se ha radici “altrove”, altrimenti non esiste, a meno che non si dia peso alle idiozie. Se infatti la critica ha radici solo in se stessa, cioè se vive in sé e per sé, allora può fare molti danni, per esempio svolgendo funzioni diseducative in un quotidiano romano. Ma del resto lo diceva già Adorno: la musica rispecchia i livelli della società, anzi di quella classe media che la tiene insieme»...
... Filiazioni e nepotismi musicali dopo la voce «Ascolto» dovuta a Roland Barthes e a Ronald Havas nell’Enciclopedia Einaudi... «Nell’ascoltare un brano di musica classica l’uditore è chiamato a decifrarlo, cioè a riconoscerne la costruzione, codificata al pari di un palazzo della sua epoca. Viceversa, nell’ascoltare una composizione di Cage, si ascolta un suono dopo l’altro, non nella sua estensione sintagmatica, bensì nella sua significanza bruta e come verticale: in questa decostruzione l’ascolto si esteriorizza, obbliga il soggetto a rinunziare alla sua intimità». E ancora: «Non è possibile immaginare una società libera, se si accetta che in essa vengano mantenuti gli antichi luoghi d’ascolto: del credente, del discepolo, del paziente».
Quanti arzigogoli, sofismi, cavilli... Quali capziosità, sottigliezze, elucubrazioni... Mentre per Berio, come per tanti altri musicisti antichi o moderni, conta soprattutto l’acustica dei luoghi musicali specifici: un Auditorium o un altro, Santa Cecilia, Scala, Rai... E per esempio concreto, a Venezia, la Fenice assolutamente sì, e San Marco complessivamente no. Malgrado i vari Gabrieli, si commentava ascoltandoli sul posto. (E le qualifiche artigianali e pratiche del compositore, a parte ogni birignao circa l’apollineo e il dionisiaco?).
... L’Ascolto, insomma, è una decifrazione ermeneutica?... Uno spazio intersoggettivo di transfert dove «io ascolto» vuol dire anche «ascoltami»?... Strutturato come un linguaggio... Ritto e fermo come un animale in agguato, come un doppio imbuto orientato verso l’esterno... Un teatrino dove si affrontano due moderne deità, l’una negativa e l’altra positiva: il Potere e il Desiderio... E mai la presenza di un Significato, bensì una dispersione di Significanti...
Vi sarà allora un’indifferenza al senso delle parole proiettate nella musica e con la musica? O sciogliendosi da qualunque intento di comunicazione verbale, si assaporano piuttosto le possibilità tecniche dell’organo vocale? le sue particolarità onomatopeiche? l’attività fisiologica del cantare attraverso meccanismi, strutture, processi, linguaggi riciclati, gesti, gerarchie, geografia e sociologia dei vari strumenti nell’orchestra? Musica quale ultimo linguaggio comune ancora pensabile prima di eventuali estreme Torri di Babele?
Viluppi e garbugli di segnali e messaggi perentori ma anche decostruttivi si riversano così dalla Scala sugli ascoltatori e spettatori de La vera storia di Berio e Calvino. Forse affascinati dall’illusione che l’allestimento possa ampliare o sottolineare i significati e le invenzioni musicali, anziché immiserire ogni aspettativa nelle mestizie del ‘riduttivo’... Solite traveggole: tanti diavolini da discoteca con le loro calzabraghe rosse e i loro cornini a posto riusciranno a superare l’immaginazione di Goethe grazie a qualche lampo e botola? O sarà preferibile Gustaf Gründgens, visto a Venezia, con un Faust falsettistico e tutto gestuale «di testa» nel Nulla? O magari qualche patchwork sonoro di gran magistero tecnico potrebbe avvantaggiarsi dei correlativi gestuali forniti dal limitatissimo lessico visivo dei mimi per esprimere festività o sofferenza, dunque passetti e corsette e visini afflitti o ridenti con pacche sulle spalle per Beethoven o Händel e Joan Baez come per le fiaccolate di Comunione e Liberazione...
Ancora il Bello o il Brutto come tanto tempo fa, consultando prima il programma con le istruzioni... Ma poi, alle repliche, quanti compreranno il biglietto, non essendovi più un «luogo di socializzazione» tipo foyer?
«Ben altre», e inevitabilmente più difficili, certe varie vicende svolte nella musica. Secondo i programmi, questa Vera storia di Berio e Calvino si riferisce a ‘topoi’ del melodramma ottocentesco, preferibilmente del Trovatore. Però si riceve presto la sensazione di assistere in questi nostri anni Ottanta a una resa dei conti molto cool con le musiche elaborate negli anni Venti e Trenta da quei compositori della generazione del 1880, fra Casella e Respighi, e soprattutto Gian Francesco Malipiero (Sette Canzoni, Torneo Notturno...), che nelle loro Scarlattiane e Tartiniane e Pergolesiane e Vivaldiane operavano rivisitazioni di Classici analoghe ai riciclaggi di Paolo Uccello e Piero della Francesca da parte dei loro coetanei pittori del Ritorno all’Ordine.
Tipicamente, in Verdi non si può ignorare chi dà una festa e quali sono i buoni o i cattivi. La musica specifica i personaggi e le motivazioni fino a renderli inconfondibili, indimenticabili. Per di più, praticamente si capisce ogni parola dei libretti. In Malipiero, invece, la narrazione viene sostituita da situazioni, funzioni, emblemi, allegorie, senza identità o fisionomia. Nel Torneo Notturno ecco un Disperato: «Mangio pane con lacrime, acqua amara – i dolori e i travagli m’han nutricato. – Come la notte tenebrosa ogni cosa fa nero, – così è ogni cosa nel cuore cui preme l’affanno». Nella Vera storia, il Condannato: «L’ala nera si abbatte – ora su me, forse su te domani – se la città continua sotto l’incubo – di chi ci vuole schiavi». E il Coro di Berio e Calvino: «Tutte le feste in una – il carnevale il santo – la città è solo festa – il corteo lo sbaraglio». Per Malipiero, il Coro: «Noi cantiamo in allegria – per noi sempre è carnevale – noi vogliam cantar – noi vogliam ballar – carnevale impazza». E mai che impazzi o esulti in Quaresima, con cori pubblicitari tipo «Viva lo Shampoo», «Adoriam le Patatin», e il sempre valido «Abbasso il Potere». Cori di Baldoria? Per Berio e Calvino: «Canta e balla! Canta e balla! Chi non nuota non sta a galla!».
Sempre queste ingordigie inesauste di iniquità alternative? Corsi e ricorsi tematici? Costanti topiche preferenziali, intatte attraverso ogni strategia e trasgressione e arguzia di qualunque generazione successiva di anti-melodramma e post-melodramma?... Un cuore che si diverte mentre la Quaresima incombe su istituzioni e opposizioni e nazionalpopolari folk in preda a cori e negazioni polemiche fra innamorati, guerrieri, avventori, orfani, buontemponi, sventurate, maschere... Segni che cambiano segno: eremi, gitane, orridi campi, salottini rococò, gobbi, tricoteuses che sferruzzano, uve addentate dal basso, patti di suicidio al suono di un corno fatale...
‘Problems’ a Salisburgo, oltre tutto. Un increscioso dissidio fra Luciano Berio compositore e Italo Calvino librettista. Imbarazzante per chi era amico ‘storico’ di ambedue, incaricato di sorvegliare gli andamenti, ma fondatamente persuaso che il musicista abbia soprattutto ragione. (Come Verdi, Puccini, eccetera). Un Re in ascolto, non già ‘opera’ ma ‘azione musicale’, apparve sfortunata malgrado Lorin Maazel e Götz Friedrich, sia per qualche incapacità musicologica del pubblico, sia perché il pranzo celebrativo si dovette spostare in un locale secondario a causa di inadeguatezze nei vestiti italiani, senza la «cravatta nera» lì di rigore.
Ecco qua allora un monumentale compianto, affettuoso e commosso, sui livelli e le qualità spettacolari che periranno in un teatro moderno ormai all’antica, rappresentato da un protagonista turbato e altero, un impresario-regista imperatoriale vagamente somigliante a Max Reinhardt, qui ovviamente di casa. E sognante «un altro teatro oltre il mio teatro»... Nel primo tempo, il tema dell’Ascolto appare sopraffatto dalla Visività in questo allestimento di Friedrich: parecchio espressionismo circense, Fellini clownesco, un pochino di Ljubimov e di antico Felsenstein... Clowns, acrobati, prestigiatori, ballerine, divette, sarte, Giuliette, Cabirie, spiriti, macchinisti, luci del varietà, prove d’orchestra, poliziotti, malori fra scenografie in movimento, coccoloni coronarici, decostruzioni, All that jazz... Faticose e difficili, quelle interessanti vicende che vanno svolgendosi nella musica... E quel mito dei tardi anni Sessanta, uno spettacolo turbato e vivificato dall’intrusione conflittuale di manifestanti e poliziotti: come già a Spoleto, e come si ritroverà a Vienna in una mirabile rappresentazione storica di Jonny Spielt Auf di Krenek.
Frattanto, Berio tira e sviluppa in questi nostri anni Ottanta le ricerche più interessanti e i risultati più felici dei decenni passati. Omaggi e recuperi fortunati e toccanti della vocalità indimenticata di Cathy Berberian, fra dispute artistiche e audizioni di soprani. Finalmente, placatosi il movimento dei figuranti e degli scenari, un vasto concertato grandioso come un corale solenne accompagna il trapasso di questo Re animoso e compianto con la sua corona storta in testa. E in Calvino stesso, come già nel Bafometto di Pierre Klossowski, che partitura impareggiabile di soffi e sbuffi e soffietti e aliti in luoghi sconsacrati: «Atrii, gradinate, logge, corridoi del palazzo... Ogni starnuto echeggia, rimbomba, si propaga orizzontalmente per un seguito di sale comunicanti, vestiboli, colonnati, porte di servizio, e verticalmente per trombe di scale, intercapedini, pozzi di luce, cappe di camini, vani di montacarichi, e tutti questi percorsi acustici convergono nella sala del trono, già un grande orecchio in cui anatomia e architettura si scambiano nomi e funzioni: padiglioni, trombe, timpani, chiocciole, labirinti...».
E già «l’orecchio è una conchiglia», nel libretto della Vera storia. Dunque, peccato che manchi una voce sull’Udito, in questa Enciclopedia Einaudi. Non manca però un «coro di congiurati», in Un Re in ascolto: «La lama del pugnale nella guàina – Sfila ed affila. Affidati al suo filo. – Infilzi? No, defilati. Diffida – Dell’ombra. No, dell’ambra. Dell’Alhambra. – All’ombra dell’Alhambra affina il fiuto. – Assembramento infido. Vibra un cobra. – Sguàina! Un guaito? Ombre sghembe sfilano...». Come sempre, c’è un Prigioniero. «E forse la fine del mondo è già avvenuta».
‘Affolée’ per le mancanze italiane di stile – lini bianchi invece di black tie – la gentilissima padrona di casa passò praticamente tutto il tempo al telefono, per organizzare comunque una tavolata chic, ove però non poteva giungere il Maestro, impegnato in un self-gratulatory dinner col cast.