MARCO BELLOCCHIO

I pugni in tasca era un film avvincente per parecchie ragioni. Strutturalmente, solido e sicuro come un romanzo «ben costruito». Però, come contenuto, il ‘tema’ della Rabbia. Interpretazione d’una eccentricità precisissima: il protagonista era un James Dean ‘geometrico’. Per di più, quest’opera prima solitaria emergeva inaspettata da una regione fra le più vive dell’Italia d’oggi, tra le più fitte di trame intellettuali: ma spiccava isolata, senza alcun nesso con le ‘linee’ culturali attualmente à la page nel nostro Paese.

Di fronte a un debutto così deciso di un regista così insolito, le approvazioni sono state immediate, unanimi; e più che riguardose le riserve mescolate ai consensi. Gli obiettori si limitavano a osservare un certo larvato anacronismo d’una ‘macchina’ romanzesca con tutte le giunture così puntualmente a posto, proprio mentre il giovane cinema s’avventa nel Discontinuo, s’impossessa degli Informali lasciati disponibili dalla letteratura e dalle arti figurative. Ancora: una predilezione forse anche troppo confessata per i personaggi, i fatti, la trama, il ‘milieu’; magari per gli artifici del grande ‘effetto’ convenzionale, dalla crisi epilettica «più vera del vero», all’uso del melodramma verdiano con effetti «a contrario»... Ma riusciva abbastanza impressionante, nonostante tutto, la stralunatezza gestuale del protagonista, «ultimo avanzo d’una stirpe infelice» nel sordido ‘fondo’ di un’intimità familiare appiccicosa e irritata, nel desolato inverno appenninico... una collera così risolutamente dissimile dalle infinite sfumature accomodanti della nostra cordialità cinematografica e teatrale, letteraria e televisiva...

Anche più vivi del solito, dunque, la curiosità e il timore che accompagnano ogni esordio a sorpresa: in quale misura era criticamente programmata, l’opera prima a grande successo? quali misure prenderà adesso l’autore per progredire oltre questo primo gradino, evitando i passi falsi e i passi indietro?

Sono le domande che vado a proporre ora a Bellocchio, al lavoro – a Imola – in un nuovo film con un titolo molto promettente (La Cina è vicina), e vagamente imbarazzato in un salotto di damasco rosso: in un solenne palazzo affittato per girare gli interni, ma talmente affastellato di quadri e suppellettili fra il papalino e il gozzaniano che dev’essere necessario sfrondare un bel po’ di languori funesti e di voluttà luttuose, per non franare direttamente nelle Vaghe stelle dell’Orsa.

Fino a che punto gli interessano i problemi stilistici? Cioè, su quale ‘programma’ di scelte e di esclusioni e di calcoli predispone un congegno e ne preventiva i risultati?

L’inquisizione strutturalistica tipo «che senso ha questa operazione?» potrebbe anche limitarsi a una descrizione fenomenologica elementare: cosa è per Bellocchio questo suo nuovo film? come lo vede? cosa gli importa? come lo racconterebbe? cosa gli preme di più? di che cosa s’è innamorato? di una storia, di un ambiente, di una serie di fatti, di un gruppo di personaggi, di una tematica congeniale o inquietante?

Oppure invece, magari, come suggerirebbero i soliti formalisti russi, il senso dell’operazione consiste appunto nel gioco estremamente impegnativo del «montaggio di un congegno significativo di per sé»? (E si sa bene, d’altra parte, come gli interessi più appassionati delle varie arti, dalla pittura alla narrativa alla musica, abbiano per oggetto non già la Realtà o la Natura, ma i propri procedimenti tecnici...).

 

Sorprendentemente, solitario anche qui, Bellocchio risponde: mi appassiona soprattutto dirigere gli attori; prima stabilendo un rapporto emotivo che attraverso tutta una serie d’aggiustamenti conduce alla definizione del gesto e della battuta... Nei Pugni in tasca, piuttosto per ‘costruire’ dei personaggi a tutto tondo; nel nuovo film, tirando specialmente a ottenere un risultato di stile... E poi, aggiunge, mi attrae molto la possibilità delle diverse soluzioni a un problema apparentemente marginale: le differenti distanze dell’attore dalla macchina da presa. (È dunque molto contento, dicendogli che proprio su questo terreno Mike Nichols ha fatto un lavoro straordinario nel film Chi ha paura di Virginia Woolf?: proprio ‘inventando’ per ogni battuta un diverso tipo d’inquadratura, risolto esclusivamente sulla base della ‘distanza’, appunto).

Anche La Cina è vicina sarà, come I pugni in tasca, un dramma tutto sommato di costume, centrato su una famiglia provinciale in dissoluzione – i figli di un commerciante e d’una gentildonna, un vecchio palazzo... – su uno sfondo più sensibilmente ‘politico’. Ma la fisionomia del nuovo film viene caratterizzandosi soprattutto in una serie di confronti col primo. Secondo l’autore, I pugni in tasca era essenzialmente un gesto di furore eliminatorio, abbastanza allegorico e simbolico in quanto liquidatorio di «cose già morte». Perciò, un protagonista spiccatamente ‘tipo’, molto fotogenico, e una tecnica narrativa serrata, un po’ «all’americana», con un montaggio volutamente ‘invisibile’.

Nel nuovo film, invece, ‘stile’ marcatamente più trasandato, come una ‘scrittura’ più sciatta. E cinque attori molto meno ‘tipi’, cioè fotogenici in un ‘genere’ tutto diverso, nel senso in cui non sono mai ‘tipi’ convenzionalmente fotogenici i protagonisti di certi film dell’Europa orientale, come Gli amori di una bionda. Attori di teatro: fra cui Elda Tattoli, Glauco Mauri, Paolo Graziosi; e molto, molto dialogo, d’impianto quasi teatrale... Ma pochissima, invece, psicologia. Niente fastidiose ‘motivazioni’. Essenzialmente gesti, fatti, azioni: secondo uno schema compositivo a base di simmetrie matematiche, in un campo di probabilità limitate: dati questi cinque ‘casi’, il risultato non potrà essere (empiricamente) che...

 

Se dovesse stabilire una tavola di ‘affinità’ con linee o tendenze della cultura italiana d’oggi, Bellocchio, a chi si sentirebbe più prossimo? Sorride molto; scuote gentilmente la testa: i registi giovani, in genere, sono dei godardiani. Oppure dei comunisti delusi... E in letteratura? No, no... Farebbe un film da un libro? No: solo come spunto, da un racconto di fantascienza, forse. E in teatro? Sì, una regìa volentieri; ma scrivendo prima il testo; come si fa con un film.

E dopo?

I pugni in tasca e La Cina è vicina, dice, esauriscono e concludono un suo rendiconto di ‘ragioni’ autobiografiche – motivi di formazione, d’educazione, l’ambiente, la provincia... – che sono percepibili anche attraverso fessure e aperture nel primo film: sia pure con un certo distacco, il trattamento è stato scritto abitando a Londra... «Però mi piace lavorare con calma... non far mai più di un progetto per volta...».

Questo secondo film nasce ‘singolare’ anche organizzativamente. Lo producono infatti Bellocchio stesso e la Tattoli, in economia, su una somma ‘bloccata’ assegnata dalla società Vides. Ed è stato scritto direttamente ‘sugli’ ambienti e ‘sugli’ attori, abitando e lavorando nelle medesime sale.

Dopo... forse, un lungo giro all’estero. Forse un nuovo film a Londra.

Ritratti italiani
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