GIAN PIETRO LUCINI
Anche Gian Pietro Lucini ebbe le sue due anime lombarde. Una (la post-romantica) forse un po’ finta, preziosa fino alla leziosaggine, appartiene al grande filone del dandysmo simbolista da Baudelaire giù giù verso Huysmans, Barbey d’Aurevilly, Villiers de l’Isle-Adam, Gourmont, Schwob, Redon, Moreau, Rops... E qui, almeno un paio di battute classiche. Mario Praz: «Ah, quegli scrittori di pagina lasciva e di vita proba così tipici del decadentismo!». E Max Beerbohm: «Speriamo che Oscar Wilde si tolga la faccia, così potremo vedere la maschera che c’è sotto!». L’altra anima (la post-illuminista) è invece anarchica, libertaria, carica di indignazioni e di proteste, sempre qualche passo oltre il populismo beneducato, a fianco di Zola e di tutti i ‘ribelli’ nello smascherare i complotti dinastici e le vessazioni poliziesche e lo sfruttamento dei diseredati sotto la crosta spensierata della Belle Époque. Dunque, benché Lucini morisse quarantasettenne nel 1914, ecco una figura analoga ai Sartre e ai Chomsky nell’alzare costantemente la voce e la firma in favore delle ‘cause’ politiche e contro ogni iniquità sociale.
E tuttavia, auspicato revival, oppure doveroso caso letterario, l’ora topica di Gian Pietro Lucini, così misconosciuto e così rivalutato, pare sempre lì lì per ‘scoccare’, predisposta da proclamazioni concordi, da attenzioni autorevoli, da entusiasmi perentori. E invece, chissà come, non ‘scocca’ mai.
Lo ritroviamo in tutti gli incroci e gli snodi in quel garbuglio (che diventerà presto ripostiglio) lombardo fin-di-secolo dove l’illuminismo repubblicano da Beccaria a Cattaneo si metamorfosa in slanci positivistici e socialisti; dove la passionalità cantabile del Romanticismo melodrammatico si sfalda e stempera pigolando nei veleni rustici della Scapigliatura; dove tra gli obitori del Decadentismo e l’emergere di una borghesia ‘fatta in casa’ alla Felicita Colombo si sviluppa una fioritissima epifania di Stile Liberty pesantemente post-rinascimentale e artigianale; scatta e strilla prepotente il Futurismo, e «pesta i piedi»; e si prepara l’apparizione di Mussolini...
E poi, da un lato, Lucini risulta una cinghia di collegamento davvero indispensabile fra il riserbo mortuario e dabbene di Carlo Dossi (per cui la letteratura deve restare un vizio aristocratico e solitario, in un contrasto addirittura imbarazzante fra la genialità delle carte segrete e la melensaggine delle opere ‘pubbliche’) e la disperata eruzione espressionistica-espressiva di Carlo Emilio Gadda, per cui la letteratura altro non è che furibondo scoppio, sennò, per piacere, non è niente... D’altra parte, Lucini stesso intende piazzarsi quale contraltarino ‘alternativo’ rispetto a D’Annunzio, al quale l’oppone un contrasto di combinazioni chimico-estetiche addirittura derisorio. Partendo infatti da un medesimo ‘dato’ molto contemporaneo, la voga internazionale del simbolismo e del vers libre e di un Art Nouveau forte e deliquescente, l’Imaginifico di Pescara intende combinarlo col Rinascimento italiano più principesco e pontificio, anche un po’ di princisbecco, mentre l’Arrabbiato del Carrobbio lo vuole ricollegare alla carica rivoluzionaria e civile del Risorgimento lombardo. Insomma, l’uno si sta vagheggiando su un dorato soglio, di lì incoraggiando colpi di mano e manierismi artistici ugualmente sontuosi, mentre l’altro si vede tutto affaccendato a portare avanti le Cinque Giornate, da un appartamento di via Bigli magari falsamente intestato a Rovani Giuseppe.
Eppure, ahimè, alla lunga, rispetto proprio a D’Annunzio, lo sfortunato Lucini può apparire quale pasticcione di ingegno e pubblicista torrenziale che vede con scarso rigore il senso complessivo e profondo delle ‘operazioni culturali’, e geme soprattutto su un proprio ‘complesso’ di genio misconosciuto. Le trecento pagine fegatose e megalomani di Antidannunziana sono certamente troppe per sfogare un proprio astio accumulato contro uno scrittore dopo tutto eccellente; si fondano su un presupposto altrettanto insostenibile che «essa è puttana, io sono virtuosa, allora perché tutti vogliono scopare lei e non me?». E sembrano anche più di trecento, giacché Lucini mette continuamente avanti se stesso e le proprie benemerenze, cita i propri versi liberi, e i riconoscimenti più che decorosi ricevuti, e deplora che non ne ricevano di più, con gratitudini imbarazzanti per qualche recensione favorevole di Innocenzo Cappa, gran diffidenza per l’arrivo di Marinetti, qualche gustoso sberleffo ai danni del pascolismo e dei salesiani, e una triste sensazione di scarsa selettività.
Non può, non può, un antidannunziano – e per di più milanese – permettersi cose come questa: «Qui, il carattere italiano si rifonde come la persona che, dai detriti delle antiche stirpi e nelle matrici feroci delle donne nostre, si plasmava sopra la terra millenaria e mamertina la quale aveva disciolto, dentro di sé, dopo le guerre, corpi di legionarii, di barbari e fruttificava dalla confusa putredine, frumento biondo e sapido pel pane nostro, sopportando uomini nuovi».
Lucini nasce da una vecchia famiglia originaria del Lago di Como, «nella stessa casa e camera in cui nacque Cesare Correnti», nella attuale via Cesare Correnti, a Milano, nel 1867, l’anno d’inaugurazione della Galleria, del Mefistofele di Boito alla Scala, del Marin Faliero di Hayez a Brera, del primo numero de Lo Scapigliato, di buone opere di Induno (Vittorio Emanuele posa la prima pietra della Galleria Vittorio Emanuele), del Piccio (Bagnanti), di Mosè Bianchi (La Signora di Monza).
Suo padre era primo cassiere della Cassa di Risparmio. I primi sintomi della tubercolosi ossea che lo avvierà presto all’amputazione di una gamba si manifestano nell’appartamento di via Solferino, nel 1875, mentre si demolisce il Rebecchino per allargare la Piazza del Duomo in occasione della visita di Guglielmo I, e lo scultore Grandi allestisce sia un monumento in bronzo al Maresciallo Ney, sia le lampade in ferro battuto per la villa comasca di Carlo Dossi. Una decina d’anni dopo, i primi scritti e gli studi giuridici a Pavia sono contemporanei dell’Otello verdiano, delle Cucine economiche a Porta Nuova, dell’Ave Maria e del Castigo delle lussuriose di Segantini, del massacro di Dogali, della Duse nella Moglie ideale di Marco Praga. Anche molti piatti in argento e ferro ageminato, molti letti in stile ‘quattrocentesco-eclettico’ intagliati in palma e palissandro, molti fregi di putti intarsiati che reggono festoni di frutti, molti stipi in ebano e avorio e tartaruga, la fondazione del Partito dei Lavoratori da parte di Andrea Costa, e il Cuore. E nel ’96, tra Wally e Arabella, Catalani e De Marchi, Ada Negri e Bava-Beccaris, sposerà (contro la volontà dei genitori) una Giuditta Cattaneo un po’ più vecchia di lui e di stazione inferiore, molto bonacciona, un po’ sorda. Il padre in collera gli lascia solo una piccolissima rendita. Così, per tutta la vita, assalti sempre più gravi della malattia, e dipendenza finanziaria da una madre abbastanza tremenda. E inescappabilmente, Adua e Quarto Stato, barricate e Luca Beltrami, trionfo di Come le foglie e fiasco di Madama Butterfly, l’emergenza di Bissolati, l’apparizione delle prime automobili Fiat e degli ultimi versi di Mallarmé...
Recluso appassionato e febbrile nella casa familiare di Breglia, alta in cima a un colle ripidissimo sopra Menaggio, con qualche soggiorno a Varazze, e questa gamba amputata, Lucini legge davvero tutti i libri, e dalla sua biblioteca ricchissima partecipa con vivacità inesausta a tutti i movimenti intellettuali milanesi nella tormentosa ‘frizione’ tra Scapigliatura e Futurismo. La sua erudizione colossale – antichità anticlassica, filosofie rinascimentali, decadentismo europeo, tecniche di versificazione, e tutte le più mediocri polemiche d’attualità – viene continuamente riversata in ‘posizioni’ delicatamente simbolistiche o furiosamente anarchiche, invade una immensa produzione saggistica e poetica inverosimilmente frammentaria ed eclettica, carica di risentimenti per il provincialismo culturale italiano, per le stoltezze della critica, per i plagi del D’Annunzio, per la difficoltà pratica di pubblicare non a proprie spese, per l’avidità insoddisfatta di riconoscimenti al proprio pionierismo in fatto di scoperte culturali e di verso libero.
Negli smisurati ricettacoli di questa opera capillare e proliferante e indomita, si accatastano le preziose fosforescenze spampanate della pittura di Rossetti e Burne-Jones e Moreau e Redon (come già in Dossi), e la risoluta gestione dell’eredità Verri-Cattaneo contro le cannonate dell’esercito di re Umberto I sulla folla proletaria in rivolta; le graziette rococo delle operine pseudo-settecentesche di Wolf-Ferrari e Pick-Mangiagalli, e macabre anatomie fra Poe e Benn, Camillo Boito e Otto Dix; l’intrepida invettiva antimilitarista e libertaria, e la rievocazione tenerissima delle barzellette dialettali degli allegroni post-manzoniani e post-portiani e soprattutto molto post-rajbertiani nelle osterie fra le ortaglie sul sito odierno della via Vivaio; i libretti delle opere di Ponchielli, di Catalani, di Franchetti, e un alessandrinismo da traduzioni di Ettore Romagnoli; un aggiornamento continuo sulla poesia francese fin-di-secolo; un antigozzanismo beffardo tutto a cerniere cigolanti, e sogghigni alle spalle di Giacosa. E le tipiche ‘querimonie’ dell’inedito incompreso; ma con un fraseggio così paradannunziano da potersi utilizzare tutt’al più come frappa per la bara di Giannettaccio, e un’implacabile irosità fin de race contro i tabù e i birignao di una piccola borghesia impiegatizia che sta sprofondando la nazione intera nell’imbecillaggine. La scomposizione delle luci della Galleria come negli esperimenti pittorici di Boccioni e Carrà, però anche insieme tutti i coperchi delle scatole di amaretti, di baìcoli, di assabesi, di brutti-ma-buoni... in un mirabolante baraccone traboccante e confusionario...
Ah, se avesse scritto un po’ meno, e riletto di più!... Ma dal baraccone escono a tratti delle sorprendenti composizioni in versi insensati, pseudo-canzoni all’italiana che usano forme iper-leopardiane o meta-petrarchesche per organizzare catastrofici tornei notturni fra maschere malipieriane guitte e grulle, magari sospinte (come fa Luciano Berio con le sinfonie di Mahler) sopra tapis-roulants smandrappati e inaffondabili per attraversare come un’astronave da cartoon colorato i momenti più magici e le più sconsiderate goffaggini...
... E nella parlerie sconfinata dei suoi archivi si trova davvero di tutto, giacché quei quintali di carte scritte continuano a parlare, e a parlare di ogni cosa: Lucini rifugge da ogni sintesi o scorciatoia, sente piuttosto nella Congerie, nell’Accumulo, nello Sperpero, uno strumento privilegiato di conoscenza ‘artistica’; si dichiara continuamente disponibilissimo a qualsiasi avventura («tutto mi occorre, perché tutto concorre; tutto leggo, tutto digerisco: da ogni e qualunque libro; come l’ape da ogni fiore, so estrarre nutrimento a piacere»), anche se poi con incoerenza rimprovera proprio l’instabilità di Fogazzaro e l’eclettismo dell’odiatissimo D’Annunzio...
Forse Lucini aveva sotto sotto la ‘stoffa’ di un Karl Kraus italiano di sinistra? Nessuno meglio di lui dimostra così ‘lampante’ una vocazione autentica di ‘animatore di cultura’ sempre affaccendato a demistificare stupidaggini che morrebbero comunque presto da sole, e a sprovincializzare un intero milieu intellettuale, scoprendo linee e filoni e presentando sempre in anticipo autori che di lì a poco sarebbe comunque impossibile ignorare... «Cane da tartufi» pungentissimo, prolificissimo, anche assai popolare in vita, immediatamente dimenticato alla morte, e riscoperto qualche decennio dopo da una generazione che riconosce nel ‘garbuglio’ degli editi e degli inediti un viluppo di ‘anticipi’ o ‘ritardi’ addirittura inquietanti...
Così, in quei madornali ricettacoli che sembrano appena attraversati dal Bon Pantagruel dei Faicts et Dicts Heroïques insieme al Mallarmé della Dernière Mode, si possono incontrare affastellati i voluminosi bozzetti ellenistici de Le Nottole ed i Vasi, mimiambi da chincaglieria di ricordini, con brillanti malizie sintetiche per castigare con esemplare cattiveria moderna «le moderne produzioni franco-nordico-slavo-italico-portoghesi che si vantano ripugnante miscela nazionale»; e quell’ambizioso e verboso Metello della Bassa Padana che è Gian Pietro da Core, romanzo-affresco socialista-umanitario di progressismo rurale, epico e lirico e oratorio e divisionista come se fosse stato messo a punto a molte mani da Pellizza da Volpedo e dai Giganti della Montagna. Angosciata rapsodia d’una sommossa contadina con saccheggio di villa padronale, ubriacatura di spigolatrici, distruzione di bibelots, brindisi da Cavalleria rusticana, cariche di cavalleria alla Bava-Beccaris, ed effetti prosastici con antecedenti ideologici e stilistici riscontrabili (testi alla mano, riga per riga) nel giovane D’Annunzio e nel vecchio Garibaldi...
Dietro i lavori più impegnativi, come le Revolverate, poi, continuano ad affastellarsi quelle smisurate letture, con scelte non tutte di ‘prima’. I Greci un po’ alessandrini, certo; e sempre i tedeschi arrabbiati o ironici come Heine; e anche i poeti inglesi dell’Ottocento, studiatissimi da tutti gli italiani fin-di-secolo, perfino dal Carducci, ma preferendo spesso quelli più simili a Prati o Aleardi. Rapporti difficilissimi con i connazionali contemporanei, giacché Lucini doveva sentirsi giustamente isolato sia fra i necrofili sia fra i balordi, non può davvero gradire né la tisica all’obitorio né la burla villereccia al procaccia. Così come dei suoi compagni di strada futuristi non gli garba affatto né il nazionalismo euforico e belligerante, né il mecenatismo falso che manda poi il conto a casa. E insomma, quando si scappa inseguiti dal Ballo Excelsior e dal Radames Discólpati, e non si apre davanti neanche una porta, anche quella rabbia dannunziana intensissima pare cosa umana, fin troppo umana.
Anche predilezioni deplorevoli, però: tutta quella paccottiglia veneziana, il Kitsch settecentesco degli Arlecchini e delle Colombine, ancora più cilapposo del Kitsch primo-Novecento del Pierrot triste mentre il Carnevale impazza e la folla gode. Accanto ai cuscini ricamati e agli almanacchi profumati e alle scatole di biscotti e di cipria, poi, mucchi di quella pubblicistica francese politica-galante che monta e sbatte e sfrutta in opuscoli strapazzosi da bibliotechina grassoccia le trame che allacciano i Governi alle Alcove, come se queste servissero a spiegare quelli, o magari viceversa. Come in quei tormentoni che si domandano senza risposta come farà mai lo Stato Maggiore tedesco, se lo prende nel sedere dalla mattina alla sera in calze a rete, a far fuori in ogni occasione una intera penisola di italiani tutti mamma e casino. E senza vedere come siano buttate via le indignazioni atroci e ‘storiche’ a proposito delle sarabande sessuali dell’Imperatrice Eugenia o della Duchessa Litta o dell’Arciduca Rodolfo o di Leopoldo del Belgio. Senza apparentemente accorgersi che la sveltezza di coscia li rende semmai più disponibili per ‘biografie romanzate’ riabilitanti e gustose, mentre volendo ‘beccare’ le nefandezze del Secondo Impero o dell’Italia umbertina o del colonialismo nel Congo bisogna affrontare ben altri temi, altro che la fica delle favorite. E senza nemmeno sentire che un’ira ciceron-carducciana full time è uno strumento stonato per rapsodizzare le sventure di casa Asburgo, funziona meglio il decadentismo innamorato di un altro scapigliato milanese come Luchino Visconti di Modrone.
I versi di Lucini sono orribili. Anche volendo ricorrere a quelle stupende analisi della Poesia tipo «qui ce n’è tanta, qui ce n’è poca, qui non ce n’è». Infatti, in questa produzione così abbondante e spropositata, l’impressione più profonda che si ricava è costantemente «ma è mai possibile che, neanche questa volta, rileggesse ciò che aveva scritto? e magari, possibilmente, a voce alta?». Forse è appunto qui la radice di un certo «caso Lucini» – ovvero: come mai un poeta così intelligente, così impegnato, così ‘giusto’, non ebbe pubblico e non trova lettori? – su cui non cessano d’angustiarsi i suoi più ragguardevoli fans.
La programmazione infatti è impeccabile. C’è tutto! C’è il sarcasmo, c’è il civismo, c’è il grottesco, ci sono le barricate, c’è il verso libero, e c’è anche il Savini. Ci sono (lo dichiara Sanguineti) «la coscienza della radice sociale della espressione», e «la definizione linguistica dell’ideologia», e «la citazione stravolta di una pratica sociale del discorso umano», tutte cose che c’erano, volendo, anche in Shakespeare... Sembra perfino affiorare un lampeggiamento di Majakovskij, fra i troppo frequenti «Guerra! Guerra!» anti-austriaci (perché non ribattergli «O dolce Vienna, tu»?) e i troppo rari salutini a Mallarmé... Ma poi càpita come a quei musicologi sapienti che azzardano una cabaletta e non azzeccano gli ‘attacchi’. O come in architettura: il discorso teorico sarà portentoso, l’edificio finito rimane invivibile.
La vocazione più vera di Lucini poeta sembra piuttosto giornalistica, invece: nelle Revolverate, che sono il suo testo decisivo di polemica e satira politica, pare infatti un Fortebraccio (dell’Unità) del suo tempo. Però, un Fortebraccio così legato ai personaggi dell’attualità e agli eventi della cronaca, da risultare incomprensibile già pochi giorni dopo senza uno sterminato corredo di note, che chiarisca ai lettori chi siano mai le centinaia di ministri e cocottes e generali e sergenti e martiri continuamente menzionati; e sbrigati poi, come faceva anche il Carducci (tipo, nel ça ira), con la secchezza balenante di quelle definizioni da Novissimo Melzi: «Wagner Riccardo, celebre musicista tedesco autore di opere molto lunghe».
Ma perché fingere ancora con se stessi? Per anni e anni ostinati si è velleitariamente e doverosamente cercato di apprezzarlo, questo sfortunato e noioso crepuscolare nostrano, e la sua recalcitrante contropoesia. Però talvolta il disagio rasenta il fastidio: come a quegli spettacoli dove il cuore e la mente vorrebbero ma la natica si rifiuta e la palpebra crolla.
Forse l’insofferenza nasce già dalle Maschere, e dai loro intollerabili Drami: già petulanti nella miglior poesia simbolistica e pantomimica fra Verlaine e Barrault, poi assai moleste nella pittura di Rouault e nelle operine di Malipiero, e addirittura «da strozzare tutte» nel tormentone ricattatorio-pagliaccesco dove non solo «il cuore sanguina mentre il carnevale impazza», come da copione, ma (chissà perché?) «lo spettacolo deve andare avanti ad ogni costo», anche se tutti cantano o recitano da cani, invece di rimborsare civilmente il biglietto. Da questa confettura complice di metafore vischiose e pelose non se ne salvano poi molte, di belle mascherine: forse soltanto il Pierrot Lunaire di Schönberg, Petruška e Pulcinella di Stravinskij. Ma loro non sono trappoloni strappalacrime né ciarloni insopportabili.
Nasce anche da quel «Setteciuento», la revulsione: cioè, da quel perverso gusto caramellaro e parrucchieresco per nèi e cicisbei, gondole e merletti, ventagli e bautte, Rosaure e Lindori. Ma come, Lucini! Siamo simbolisti, e cantiamo la Pompadour? (Bisognerebbe essere almeno Aubrey Beardsley, in questi casi, oppure un produttore di Hollywood nel Trenta, così come bisognerebbe essere il Laforgue delle Moralités légendaires o almeno lo Schwob delle Vies imaginaires, per affrontare il mimiambo, e risolverlo non in trecento pagine ma in tre).
Facciamo i positivisti, con spadino e parrucca? Ci diciamo anarchici, e giù scialli ricamati, caschimpetti dorati, panciotti di broccato, zecchini, rubini, rosolii, baiadere... Meglio l’abate Parini, allora, che i suoi giovin signori li adora full time e senza vergogna, però dissimula i suoi inconfessabili affetti in un rococo talmente vistoso da riuscire a ingannare generazioni di professori bennati... E meglio anche il solito Luchino Visconti, naturalmente, che quando si invaghisce di un orrore come la Manon Lescaut di Puccini la ama così sul serio da farla sembrar quasi bella!
E forse viene anche dall’‘improvvisato’, dal ‘tirato via’, la diffidenza. Questi Drami sono per lo più lunghi monologhi (di Arlecchino, Colombina, Brighella, Pierrot, e altri schifi, altri strazi), con prologhi e fole, gavotte e princisbecchi. Sono molto evidentemente l’opera di un solitario geniale che li legge davvero, tutti i libri, ma con una carne molto, troppo triste; e anche senza digerirne nessuno, forse, in tutto quell’aggiornamento sorprendente con la cultura internazionale à la page in un’Italietta provinciale da piangere...
Lo smodato entusiasmo per il verso libero sospinge verso una poesia priva di formalizzazione e dimensioni, fiume in piena abbondante e inarrestabile sul quale galleggia fitto e denso e in disordine il trovarobato senza fine delle Collezioni Universali, trascinando gorghi di viole e carole e mandole e arazzi e topazi con risucchi di ideologie contestatrici, Don Giovanni e Alcifroni, Chelidoni e Poveri Fornaretti, enciclopedisti e Regine di Saba, Hedde Gabler e Mandragole, gerle di Papà Martin e galvanoplastiche... e centinaia di citazioni, richiami, allusioni, bozze, rinvii... e carnefici e vittime come nel quarto d’ora della pubblicità al cinema... rasentando qui Ezra Pound e lì Ermete Zacconi, rimbalzando fra Goldoni e Sem Benelli, urtando sovente contro l’Imaginifico, e fornendo alla fine un’immagine di Catalogo Generale della Casa Editrice Sonzogno messo in musica dal Maestro Ildebrando Pizzetti...
Ah, se Lucini avesse scritto davvero dieci, cento, mille volte meno, e avesse riletto dieci, cento, mille volte ciò che aveva scritto! Magari, non scambiando la Storia con la Fiera di Sinigaglia e la Cultura con la Casa d’Arte Caramba!... Togliendo una Francesca da Rimini di qui e un Tristram Shandy di là, lasciando riposare Caterina di Russia e i reziari del Circo, nascondendo la malìa e il desìo e il gonfalone e il falerno e la conocchia e soprattutto il destriero e il levriero, separando Titania da Montesquieu, Cleopatra dal Dottor Balanzone, Turandot da Chateaubriand, allontanando tutti da Piazza San Marco... e dando a Gabriele ciò che è di Gabriele, a Giosuè ciò che è di Giosuè (o magari viceversa)...
... Forse poteva anche non abbandonare la Crisi della Modernità a «vecchi» come Eliot, Hofmannsthal, Rilke, Valéry, Benn... Ma qui la sua vocazione profonda può rammentare (pateticamente) quella di Pound: bravissimo nel tagliare i versi altrui, insensibile al proliferìo di ciaffi nei propri.