ALBERTO MORAVIA
Nei tempi dei tempi quando le considerazioni letterarie erano critiche e saggistiche hard-boiled, e non cronachetta quantitativa e passacarte rosa e soft, l’immensa produttività e il vasto presenzialismo di Moravia suscitavano per lo più due gruppi di riflessioni, fra i giovani letterati meno reverenti.
Aveva inventato uno stile italiano ‘semplificato’, chiarificatore e nitido, intellettuale e immediatamente comunicativo, in una culturaccia dove la prosa appariva per lo più oratoria e lutulenta (Bacchelli) o casareccia e marpiona (Baldini), dunque più noiosa e più goffa del Times e del New York Times. Anche Albert Camus del resto aveva teorizzato una prosa ‘bianca’, neutra e funzionale, nei confronti dei compiacimenti retorici e dei birignao estetizzanti degli Accademici in feluca e ciabatte. E Italo Calvino lo seguirà nella ricerca della chiarezza efficace, anche conveniente per la facilità di traduzioni non traditrici nelle diverse lingue.
Il rischio della nitidezza razionalizzatrice, si osservava – una volta assestati sulla piattaforma della chiarezza – può essere quello di una semplificazione che per far contenti tutti rinuncia all’oscurità, alla notte. Dunque lascia perdere ogni mistero, dubbio, ambiguità, enigma, introducendo nella letteratura lo stile ‘fattuale’ (appunto) del New York Times. E certamente si raggiungeranno così tutte le edicole degli aeroporti e tutti gli ombrelloni con una lettrice sotto... Ma forse per questo la mia generazione tendeva piuttosto ad autori di densità problematica (Musil, Nabokov, Borges, Beckett...), mentre nella prosa italiana si privilegiava l’espressività espressionistica di Gadda, Longhi, Contini, dove la ricerca appassionata e tormentosa di una certa parola definitiva e inevitabile sapeva provocare un diletto artistico paragonabile all’ascolto di una grande musica ‘live’.
(E naturalmente di qui ci si addentrò lungamente nelle riflessioni circa la sociologia della letteratura e del controllo di qualità: perché proprio solo nel nostro ‘ramo’ si dovrebbe venire incontro alle richieste dei consumatori che pretendono prodotti «alla portata di tutti», cioè al livello più basso del commercio, mentre nel mangiare e nei vestiti e magari nelle altre arti esigono qualità ‘exclusive’ e ‘vip’ e ‘top’?).
Altre analisi – quando i libri non si dividevano ancora in volumi presentati da ministri e volumi non presentati da ministri, non abbondavano i capolavori postumi a detrimento delle opere in vita, e il discorso letterario non riguardava solo le cifre delle tirature e dei soldi, che ora costituiscono l’unica ‘trama’ di ogni romanzo – esaminavano piuttosto la specificità del narratore nel Novecento, attraverso le crisi che hanno devastato il romanzo intellettuale per far riemergere il romanzo commerciale.
Un mondo poetico e spirituale con tutte le sue ossessioni originarie, dopo tutte le filosofie e le avanguardie, non potrà evitare di identificarsi con una sola «opera di tutta una vita», come nel caso di Proust e Musil e forse altri Classici del nostro secolo (ma... anche Manzoni?). E non sarà piuttosto ‘vittoriana’ la serialità dell’iterazione di un nuovo romanzo dopo ogni romanzo scorso?
La prolificità, poi, non c’entra forse tanto con l’Ottocento ma piuttosto col vitalismo; e sullo sperpero culturale e spirituale nel vedere (e recensire) tanti film e spettacoli balordi, il grande morso dell’anima può coinvolgerci in molti. Anche se con grande nostalgia per la piccola belle époque quando Moravia e Alvaro e Flaiano e Chiaromonte recensivano Visconti e Strehler e Fellini e Antonioni, e noi molto più giovani eravamo esigentissimi, facevamo i difficillimi. Polemiche spettacolose, che coinvolgevano decine di amici, animavano e agitavano tanti ricevimenti, premi, caffè...
Da ragazzo, Moravia era seccante e antipatico. Raccontava un famoso clinico che quando loro giovanotti andavano a prendere le due sorelle maggiori per qualche thé dansant, e la mamma De Marsanich li accoglieva amabilmente, il giovane autore degli Indifferenti si divertiva a tagliare e a cucire le loro maniche e tasche in anticamera. Nella sua età di mezzo, era dispettoso e prepotente. Quanti dissapori. Me ne ha fatte di tutti i colori. Finalmente, in vecchiaia, magro e non più tozzo, diventò giocondo e piacevole. Non ripeteva più «uffa uffa», piuttosto diceva «semo tutti peracottari». Anche perché in trattoria si chiedevano le pere cotte. Per vezzo, portava giacche chiare e foularini al collo. Gliene regalai sette, naturalmente di Charvet, per i suoi settant’anni. Commentò: «A Roma si chiamano strangolini». Purtroppo non sono andato a un ultimo suo pranzo, da Elisa Olivetti (Bucci Casari e quindi napoleonide), che avendo sposato un Maraini fratello del padre considerava Dacia come nipote, e Alberto scherzando anche. Stava bene. Morì in bagno. Ci mancherà moltissimo.