MARIO SOLDATI
Prima di tutto, la voce. «Quella» sua voce: tanto per iniziare alla maniera degli ‘attacchi’ in poche parole ferme e basse tra Hemingway e la Bibbia che Soldati mimava dai venerati ‘incipit’ cauti e soft del Cecchi viaggiatore, e pesce rosso in barile. «Fu forse quel giorno». «Finalmente». «È una domenica di marzo». «Non avevo in tasca un nichel». «Volevamo a tutti i costi l’amore». (Quiz: cosa è dell’uno, o dell’altro? Ma il fiumicello stilistico è abbastanza carsico. Di chi è «Fu allora che vidi i leoni», e di chi «Fu allora che vidi il Pendolo»?).
Emilio Cecchi, nell’imminenza della guerra, tirava a dimostrare che l’America era amara, rispetto all’Italia che tuttavia aveva in casa un Adriatico già battezzato «amarissimo» da quel povero Imaginifico. (E la gente senza complimenti, nei bar più veristi al di sotto della prosa d’arte: so’ c... amari). Ma invece l’antico e cioè giovanissimo Soldati, nella struggente elegia su Times Square sì bella e perduta – si trova nella preziosa edizione su carta da cesso di America primo amore, edita dall’Einaudi romana nell’epocale autunno del ’45 – quando i marinai vestivano da marinai e i berrettini erano ancora berrettini, ricorda come i poeti d’una volta rammentavano le dame du temps jadis:
«L’usciolo del Gents che a spingerlo mi batteva il cuore, e i primi volti che capiscono, i primi sorrisi che rispondono, le prime mezze minacce. E fuori, sotto le réclames del Times, appoggiati al muro con le grandi curve schiene, le mani in tasca, le lunghe gambe divaricate, la sigaretta penzoloni sulle labbra, il berrettino bianco schiacciato sulla fronte, gli occhi socchiusi a spiare lo sguardo del passante, i marinai. Qui conobbi Jim, qui Oliver, qui Fred, qui Gene, qui la prima volta vidi il biondissimo Clyde. Da qui partivo per favolose gite notturne, verso alta o bassa città, con l’amico Toki. E qui soltanto New York e la miseria mi furono sopportabili, gli ultimi mesi del mio primo soggiorno».
E «ad ogni ritorno, Times Square è l’unico luogo di New York in cui mi trovi bene. L’ultima volta scelsi l’albergo in pieno Times Square. Ma non era soltanto il ricordo di ce que j’ai eu de meilleur. Times Square non è tutto mia illusione»...
Però il Soldati più tardo, nel post-cinema, circondato da sodali amanti della ripetizione del ‘numero’ col sigaro toscano, forse non avrebbe più detto semplicemente «la voce». Avrebbe urlato, anche a camerieri e avventori della trattoria, «THE VOICE! THE VOICE!», amplificando le urla di quella specie di gallinaccio prigioniero e sbraitante dentro Mario Soldati, un ex-gentiluomo torinese dagli studi così dabbene, giudicato «calligrafico» dai più rispettati critici di cinema (Filippo Sacchi, Mario Gromo, Alberto Spaini, Paola Ojetti, Vittorio Calvino, Diego Calcagno), e con amici gesuiti più riservati e torinesi di quanti poi svolazzeranno e sgallineranno, commentati come vecchie soubrettes.
«The Voice» eseguiva tutte le musiche – anche la poesia di Giacomo Noventa – in ‘fortissimo’, con un senso dello spettacolo assai variato da quando si avventurava in problematiche e sottilissime trame fra Stevenson e Fogazzaro con protagonisti-caratteristi superbi come Enzo Biliotti e Ada Dondini, lo zio perfido e la nonna spietata. Vedove padronali come Olga Solbelli e Olga Vittoria Gentilli... In un piccolo mondo piccolo-borghese ove potevano coabitare maestrine vagamente magiare con collettino di picché e sciantose variamente baraccone con piume in testa per rovinare un ingegnere. Ci voleva proprio la fantasia costumistica di Gino Sensani per abbigliare concretamente un Ottocento italiano non indegno, in equilibrio fra La cena delle beffe e le Sorelle Materassi e I promessi sposi. Nonché Sissignora.
«A tavolino» e «nel cestino» fantasticava l’Immaginario infantile sugli Elzeviri. Senza neanche concepire tavoloni e cestoni sul ballatoio, con qualche ovetto ogni tanto in tempo di guerra... Ah, come si mitizzavano quegli Ermetici che invece di ritirarsi in qualche pensione a tentar traduzioni da lingue ignote come l’inglese e il francese, bevevano un taglio d’amarena al seltz alle Giubbe Rosse e poi magari fuggivano nel mistero per giocare a soldi con i commercianti del rione, in un appartamento...
... Mentre gli Elzeviristi incessantemente enunciavano «Amo i lillà, amo le tuberose, amo le albe, amo i classici minori», come le signore che al Circolo sussurravano, sopra un liquorino nazionale dolce, «amo le opaline, amo le rose gialle, amo l’Adige», avendo deciso di rivelar tutto, ma proprio tutto di sé a un avvocato o a un capitano che rispondeva pensoso e sorseggiando il digestivo dei frati «adoro il mare, e anche la montagna»... I più moderni: «E il Moravia?».
... E noi piccini, in provincia, con niente da fare, quando si leggeva «Prediligo i meriggi...», tutti lì a immaginare come sarà la faccia dell’elzevirista mentre sta prediligendo, e se la qualità della camicia e delle calze e della moglie è all’altezza come finezza oppure se il resto della stanza è di seconda e di terza, e quali odori stanno arrivando nelle quiete stanze dalla cucina e dal gabinetto, e quanti bagni farà alla settimana o al mese, e magari avrà le scarpe finte-inglesi degli eleganti di Parma portati poi a esempio con severità da Pietrino Bianchi e Attilio Bertolucci?...
E sennò, che cavolo predilige? Gli faccio vedere io delle cose mai viste che determinano una svolta nella poetica, con tutta l’esegesi dietro?
Ma forse l’autore delle Lettere da Capri e delle Due città rimase l’ultimo italiano a credere nella possibilità o sopravvivenza di qualche minimo enigma psicologico in un Paese totalmente privo di mistero, dove la più banale ‘curio’ può diventare quiz di un rebus, o interrogativo da inchiesta, ma dove poi dietro le chiuse imposte si ripetono, al massimo, le battute della televisione. (Dovute magari a Soldati medesimo?).
Col suo nome da semplice recluta, e con i suoi ammicchi da zio beffardo che fa intraveder retroscena anche in un pezzetto di formaggio, Mario Soldati si affacciò – subito seducente e amatissimo – avendo presto e furbamente capito il tedio o vomito causati da quell’elzevirismo per vere signore nonché dai neorealismi dell’obbligo, su noi piccini più o meno spiazzati e vaghi. Fra allegre spiagge e più o meno scatenati night-clubs, spontaneamente ci si puliva il dietro con le estetiche togliattesche uso Rinascita, anche in epoche minacciosissime, e senza vantar precedenze in pizzeria. Con patenti anche false, truccate da Groucho Marx, Soldati si fece passare a lungo e sul serio per agente segreto di Henry James, incaricato di individuare schiamazzando segreti minimali e profondi negli abissi degli animi e dei villini e dei cassetti, delle valigie e del cuore.
Non si era ancora sparsa la cultura di un sospetto: che tanti famosi lestofanti contemporanei, in una società piena di traffici e imbrogli, fra banche e bombe e droghe e logge e spie di Est e Ovest e Nord e Sud, ma umanamente piatta e senza interesse, tirassero soprattutto a costruirsi case più cafone delle altre, ove dare parties sempre più sgallettati e lì invitare le squinzie più famose nell’universo dei settimanali di pettegolezzi e programmi tv. Ma in questa non-società senza spessori e senz’anima, già avviata a trasformarsi in un mucchio di zombi e di soldi, e dove neanche Graham Greene avrebbe saputo tirar fuori qualche curiosa ambiguità spirituale, Soldati insisteva nel puntare su formule per mysteries immaginosi e improbabili: chissà quali Giri di Vite fra le puntarelle e le oliere alla Trattoria Romana, chissà quali Ritratti di Signora dietro le finestre illuminate al neon in Via della Mercede, chissà quali Carteggi Aspern al fermo-posta di San Silvestro fra i turisti in torpedone...
Souvenirs... Nei tardi anni Quaranta, o nei primi Cinquanta, Soldati abitava a Milano. Mi pare in Via Cappuccio, comunque scendendo qualche gradino, ed entrando al pianterreno in una sontuosa biblioteca dove c’erano (oltre al cospicuo resto) tutti i volumi in fila del Littré (mentre allora io possedevo solo un Petit Littré, poi superato da altri vocabolari). Una sera mi invitò alla Rocca de’ Giorgi, per un pranzo con presentazione di un film girato lì da lui, con una starlet amichetta di un produttore per caso. Mai trovato un ricordo di quell’ultimo film così minore.
Memories... Nei tardi anni Cinquanta abitavo sui tetti di Via Frattina, con una scrivania monumentale senza cassetti (erano serviti a un trasloco di camicie di Franco Zeffirelli), le agavi dal Circeo di Comisso, e uno stereo per terra con dischi allora d’avanguardia. Insomma, la scena di D’amore si muore. Anzi, «venite subito a vedere! tale e quale!».
Viene su a sentir musica uno di quei seminaristi tedeschi in tonaca rossa che giocano a palla in Piazza Mignanelli come nei quadri turistici del pittore Caffè. Ma non appena sente Lotte Lenya sings Kurt Weill, esclama «Vade retro Satana!», e si butta per i cinque piani di scale. (Ma io non volevo approfittare di Brecht).
Poco dopo emerge dai cinque piani Mario Soldati. «E io, potrei sentire Lotte Lenya?».