ALBERTO SAVINIO
In un passato ormai remotissimo – anni drammatici e terribili, verso il ’43, ’44, ’45, tra sfollamenti e oscuramenti ove si rischiava una formazione emotiva e culturale più luttuosa che reggimenti di cavalline storne, con pene e cordogli durevoli sopra tutta una vita – uscivano praticamente tutti insieme i libri maggiori di Alberto Savinio. Casa «la Vita», appunto, e Ascolto il tuo cuore, città, e Narrate, uomini, la vostra storia, e più tardi ancora Tutta la vita, in quei paleo-pocket di Bompiani («La Zattera»...) in un formato da lampadina sotto le coperte, sulla carta spessa e grigia di guerra della Cromotipia E. Sormani, con tanta neve e tanto ghiaccio fuori prima d’ogni effetto serra. E non solo da Bompiani, si recuperavano qua e là Dico a te, Clio, e Infanzia di Nivasio Dolcemare, e Achille innamorato, e Angelica o la notte di maggio, e Capitano Ulisse...
Posso ricordar bene come venivano letti e assaporati – parecchie edizioni in pochi mesi, nelle cartolibrerie – da tanti piccoli fans direttamente giunti dal romanticismo tedesco sublime e del saggismo inglese ironico, da studi classici giudiziosamente allargati fino a Luciano e Petronio, dalle ‘scoperte’ personali nelle prime collanine universali di Einaudi, Bompiani, Sansoni... Scolaretti consumatori incalliti di Bontempelli e De Chirico, ma abbastanza ignari delle avanguardie novecentesche, allora ancora ingiallite e impolverate nelle biblioteche dove giacevano riviste e plaquettes degli anni Dieci e Venti...
Forse eravamo dei post-moderni di allora, senza saperlo, scavalcando così irrispettosamente i riveriti realismi alla Steinbeck-Caldwell (che facevano tanto «doppio programma al cinema» se confrontati alle rovine colossali della realtà che stavamo vivendo...); e lasciando alle nostre zie pomeridiane e ossigenate gli erotismi alla Moravia, come se fossero le fantasie sessuali della professoressa di matematica... Abbandonando alla prof. medesima gli stupori ermetico-casalinghi della bozzetteria toscana su babbi noiosissimi e campagne deprimenti come fondi-oro riprodotti in bianco-e-nero...
... Certamente, si assaporavano soprattutto estri e destrezze iridescenti da martin pescatore o carpa a specchi, negli ‘intrecci’ saviniani su interruzione e divagazione e ‘tombola’ casalinga fra paesaggi mitici e ritratti aneddotici e itinerari libresco-surreali e geografico-onirici, dove la Struttura coincide con la Frattura, e l’a parte viene avanti come protagonista.
Verdi, Verne, Venizèlos, Collodi e Apollinaire, Felice Cavallotti e Isadora Duncan e Nostradamus e Stradivari e ‘poltromamme’ e toreri... E una Grecia neoclassica e per di più neogreca che si frappone tra la Baviera e Brera... E l’ironia subliminale di Stravinskij che pochi rari orecchi riescono a captare, lontana lontana, al di là del ron-ron rondesco degli Amici al Caffè di Amerigo Bartoli, all’Aragno. (Racconta Moravia che per sottrarsi a quella noia usciva a contare le macchine che passavano sul Corso in un’ora: cinque o sei, talvolta).
Ed ecco la signora Pina Poma (della rinomata ditta di scarpe «Calza Poma – Tutta Roma») che si reca al Festival di Salisburgo con la sua amica intellettuale Egle, nel ’37, e lì viene sedotta da Paracelso... E una notte di guerra del ’40 in casa di figli e nipoti Pirandello, mentre una Lenuccia (o Titina?) Maselli diciassettenne già espone quadri a Los Angeles – che preveggenza di Savinio... – già si parla del 1960 al passato remoto... Ma ecco uno svolazzo sulla grafia di «nicceismo» (da Nietzsche) dovuto ad Alfredo Panzini, nel corso di un ritratto di Arnold Böcklin che attraverso «ricreazioni vinose» da «quattro soldi al litro» progetta «velivoli icariani» per lo Stato Maggiore tedesco, ma rifiuta scenografie a Wagner perché «l’idea di associare tre arti per farne una sola, gli puzzava di pasticcio». (Allora come apparirebbe saviniano, un prolungamento sulla nipotina di Böcklin, la bellissima Anita Pallenberg, che fu compagna di uno sventurato Rolling Stone)...
E le osservazioni sul nome di Abbiategrasso («augurio giustificato dal risotto giallo»), sui fratelli Arrigo e Camillo Boito («sono stati gli angeli neri di Verdi nell’ultimo atto della sua vita, le sue suocere»). Notazioni alla Max Ernst: «L’anima ottocentesca non era ancora spenta, e l’uso delle mescolanze perdurava: un ombrello era ombrello e insieme bastone, un canapè era un canapè e assieme bagnarola, una stazione ferroviaria era il luogo di arrivo e partenza dei treni e assieme luogo di ricreazione». Aforismi alla Karl Kraus: «Nel Mondo c’era la Testa. Poi venne la Croce. Allora Testa e Croce si misero a giocare a testa e croce, e tutto il male viene di lì».
Riaprendo Ascolto il tuo cuore, città, ora si rimane soprattutto incantati dalla «affabilità della affabulazione», nel suo surrealismo bonario. Questo gentiluomo sapiente e ironico e un po’ affranto, che viene dai sottoscala del Mito e ha percorso una Monaco di propilei e parossismi, nonché la Parigi spiritata e piena di spifferi di Aragon e Breton (e papà Germont), conduce ora qualche flâneur di nuova conoscenza tra le pieghe magiche e domestiche di una magnifica «città sparita», la Milano bellissima distrutta da quei bombardamenti del ’43 che irrompono anche nelle ultime bozze del libro.
Affetto ed estraneità qui giocano singolarmente insieme; e Savinio discorre del Museo Poldi Pezzoli come di una sua bizzarra scoperta. Ma poi, visitandolo ed elencandone il Guardi e il Cima e il Crivelli e i cinque Ghislandi e i tanti curiosi ‘objets’, non si avvede di quel ritratto femminile del Pollaiolo che è il ‘pezzo forte’ più squisito della collezione. Né, ricordando che la mamma si chiamava «Rosa Trivulzio vedova Poldi», la ricollega a Cristina Belgiojoso: nata Trivulzio, ma nata soprattutto per diventar personaggio di Narrate, uomini, la vostra storia. Manca sovente il Dossi, in quelle variazioni fra nevrotico dantesco e scapigliature mefistofeliche: non si sentono, neanche come sottofondo, quelle Note azzurre di cui Ascolto il tuo cuore, città sembra talvolta una ‘azione parallela’. (Ma del resto, l’edizione Garzanti-Linati, espurgata delle Note, uscì nell’autunno ’44. E Savinio forse l’ha soprattutto sognato. «Io avevo due anni, lui era già sulla soglia della vecchiaia». Era «un sospiro d’uomo», all’incompiuto Dosso Pisani, sopra Como).
Savinio: «Lodi è illustre per tre cose: perché è patria del Lodigiano, perché ha dato i natali ad Ada Negri, perché possiede alcuni pezzi umani pietrificati dal professore Gorini».
Dossi: «I misteri della trinità. Omne trinum est perfectum. Gorini seppe aggiungere alla vita vegetale e spirituale la minerale».
Savinio: «Una volta, secondo che volevano la pioggia o il sole, i milanesi mandavano un’ambasceria di maggiorenti in Comune, perché dessero incarico al sagrestano di Santa Maria Segreta di esporre secondo i casi l’Angelo della pioggia o quello della siccità. Se il miracolo non avveniva, il popolo se la prendeva col sagrestano “che aveva sbagliato angelo”».
Dossi: «Note storiche spigolate dall’album di un contemporaneo. 1815. 26 marzo. Bonaparte fugge dall’Elba. Esposti gli Angioli a Santa Maria Segreta per 3 giorni: ma sembra che siansi fatto gioco di noi miseri mortali».
Savinio: «Erodoto aggiunge che le mogli dei personaggi illustri, e così pure le donne di riconosciuta bellezza e quelle di alto lignaggio, non sono consegnate agl’industriali dell’imbalsamazione subito dopo morte ma alcuni giorni dopo, per evitare che gl’imbalsamatori si uniscano con esse carnalmente».
Dossi: «Erodoto disse che quando la donna si spoglia della camicia si spoglia della vergogna. Presa l’Olanda – facilmente vassi – alla conquista dei paesi bassi».
Savinio, a proposito del Corriere della Sera: «È curioso notare che questo giornale così milanese, ossia così discreto e attento a non sparare la più piccola balla, fu fondato da Torelli Viollier che era napoletano ed era stato segretario di Alessandro Dumas padre, che era il re delle balle».
Dossi: «In questi ultimi tempi è uscito uno sciocchissimo libro che vorrebbe essere il galateo della nuova società. Si intitola La gente per bene e ne è autore credo, sotto lo pseudonimo di Marchesa Colombi, la moglie di uno de’ più schifosi gazzettieri di Milano, certo Torelli-Viollier».
(Telepatico? Medianico?). Savinio prende tempo nell’accostarsi a Milano, scappa continuamente verso il Veneto e verso l’aneddoto. «Tito Ricordi voleva fare di Venezia “la Bayreuth italiana”. Era il tempo che una cosa, per essere qualcosa, doveva essere quello che è un’altra cosa. De Amicis era “il Dickens dell’Italia”, Lecce “l’Atene delle Puglie”». «La volta della cappella Scrovegni è azzurra a stelle d’oro, come la cupola che nel 1908 Galileo Chini dipinse per la Biennale di Venezia. Immortalità delle idee...». Ma dopo un giro vicentino sui luoghi di Fogazzaro e Cornaro e Pigafetta – dove manca però il villinetto così fogazzariano-saviniano dell’Abate Zanella – entra definitivamente in città come un discepolo stendhaliano di Apollonio di Tiana, di Luciano, del melodramma, degli etruschi.
In compagnia di Fabrizio Clerici visita la Casa di Riposo G. Verdi, ove cantanti già celebri disimparano soavemente la musica; e uno «scrimolo ghiaccio» che non è un verso di Montale, ma una cripta, con «pèndule gocce di cristallo». Riecco inevitabilmente la «casa torva, scontrosa, inamabile» di G. Muzio in via Moscova: «l’angolo è smussato per facilitare la fuga di quei pochi che riescono a evadere dal Carcere del Bisogno». Anche una Triennale che si direbbe abbastanza spaventosa. Forse mentre Gadda, proprio lì, ispezionava – fra le meraviglie d’Italia – una memorabile Mostra Leonardesca ove tutti si venne condotti piccini. (Ma alla Fiera lo accompagna indubbiamente un invisibile Achille Campanile).
Fra gli incanti giornalistici di Savinio, si possono ricordare le variazioni di gaia scienza psicanalitica circa i refusi usciti dall’inconscio della sua macchina da scrivere, quando ancora libri e giornali erano privi di errori di stampa, né era apparso il delizioso Lapsus freudiano di Sebastiano Timpanaro, circa le papere e i granchi degli amanuensi ‘classici’, analoghi per meccanismo alle distrazioni o banalizzazioni quotidiane dei tastieristi o correttori d’oggidì. (Ecco qui una ‘Zeitung’ messa al maschile in una traduzione da Enzensberger, ecco un plurale di diari francesi che diventa non ‘journaux’ ma ‘journals’...).
Lo sfruttamento dei viaggi anche piccoli: quanti articoli sapeva cavare Savinio da un soggiorno ad Aosta o a Torino... Su quanti termini allora innocenti (scopare, uccello...) potrebbe intervenire qualche censura interiore, dovendoli usare commentando un quadro di Böcklin... E quando scrive «nevosi giganti» trattando di igiene psichica a Courmayeur, la sua macchina da scrivere non si sarà lasciata tentare da «nervosi gitanti»?... Ma qualche suo collega pittore gli avrà chiesto perché non li ha citati. Giacomo Balla, per esempio: «Savinio, perché non mi ricordi, quando per la moda maschile a colori vivaci menzioni solo Bérard e Cocteau?». O un apocrifo di Van Gogh a Bianchi Bandinelli: «Ranuccio, perché in quel bellissimo ritratto di Nostradamo che incomincia con “Erano fioriti i campi di Provenza”, arrivi in accelerato a Saint-Rémy, guardi la casa dell’astrologo e Les Antiques, e tralasci la clinica che è lì a un passo, e cui ho dipinto varie volte le facciate e i chiostri? Mi si dice che il paesaggino col campanile sia ora di proprietà di Elizabeth Taylor».
Savinio elogia le stazioni e i formaggi, spiega le etimologie degli Omenoni e del Lazzaretto, apre e chiude minuscoli teatrini della crudeltà, viscontei e un po’ spaesati; si aggira diligente per Brera; e com’è tuttora vera quella Milano notturna «ove non una finestra appariva illuminata, non un occhio aperto». Poco milanese, osserva che la voce tosa, per ragazza, «viva ancora in qualche dialetto della Lombardia» (credendola a torto una rarità arcaica). Ma è commovente la sua letizia davanti a una vetrina in Galleria che annuncia «Fin Cra»: «l’apocope di “fini cravatte”, esempio del linguaggio rapido, sintetico di coloro che vivono modernamente». (Fosse arrivato alla Certosa di Pavia, avrebbe potuto gustare il «Gra Car», liquore dolce da «Gratiarum Carthusia». Antica specialità dei frati, in un vasto gracidio di rane poi rapidamente estinte e portate congelate dal Vietnam, per le zuppette tipiche).
Napoleone nudo in sogno a Brera, davanti alla mamma di Camilla Cederna che rimpiangeva la cioccolata al Theobroma sui Navigli... Fra’ Galgario al Poldi Pezzoli, con quei ritratti di gentiluomini e gentildonne in posa, per il Testori con «drammaticissima concentrazione di rammollimento cerebrale»... Poi, Enrico Cuccia gotico ogni domenica nella pasticceria di corso Venezia, sotto lo studio di Franco Fornari, e poi a colazione con la famiglia espressionistica da Peppino... Via Durini, Wally Toscanini al 20 con una formaggia aperta e i bei quadri nella collezione di suo padre... Lo zio Alfonsino fratello di mia nonna al 2, già espulso da tutte le Università del Regno perché in seguito a qualche scommessa vi entrava a cavallo. Ma «col maestro Giordano qui sotto, tutte le sere Gigli e Caniglia e altre canaglie cantano fortissimo, sembra di avere qui la Scala dentro in casa! Bisognerà vivere sempre a Peschiera Borromeo o a Roma, all’ultimo piano del Bristol»...
... Flânerie associativa fra sogni, segni, lapsus, aneddoti liberi... Miti decaduti, Kitsch quotidiano con dietro esperienze fra le più prelibate del Novecento... Monaco e Ferrara e Parigi, Böcklin e Klinger, Jugendstil, metafisica, psicanalisi, caratteri arabo-gotici... La grecità alessandrina, fra Alessandria e Atene, e le due Alessandrie di Filippo Tommaso Marinetti con base a Tortona, e palco di famiglia al Sociale di Voghera... Una Milano ancora gaddiana, con amici e parenti che si chiamavano Gatti, Cavalli, Fiori, Oliva, Bucalossi...
... Letteratura come Vita Vissuta? Vita Vissuta come Letteratura?... Bravi soldatini che non si lamentano? Gli ideali del Saggio indifferente o incosciente? I lapsus della macchina da scrivere, nella sedentarietà del dopoguerra? Qualche lirismo attonito sulle meschinità domestiche tirate a quattro spilli dabbene?... Signora mia, se sapesse?...
Ah, quanto rimpianto Kitsch per non essere nati nel ’24, quando con poche lire ci si sarebbe potuti comportare malissimo al Nerone di Boito, alla Cena delle beffe di Giordano, ai Cavalieri di Ekebù di Zandonai, al Diavolo nel campanile di Lualdi, alla Bella e il mostro di Ferrari Trecate... E quel leggendario 1938 con Margherita da Cortona di Refice, La morte di Frine di Rocca, Proserpina di Bianchi... Cose già da Paolo Poli...
Le scocciature che suscitarono l’indignazione giovanile – per le loro pretese di solenne o estrema unzione oratoriale e reverenziale, e vacua ‘gravitas’ – furono soprattutto l’Atlántida incompiuta e informe di De Falla (altro che i suoi amatissimi capolavori brevi), affibbiata a Tommy Schippers debuttante sprecato. Con la regina Isabella di Castiglia che deve cantare in catalano arcaicizzante (a Granada) «Allo spuntar dell’alba chiara, un colombo io ho sognato»... E il coro ammantellato, dimenandosi con regìa di Margherita Wallmann: «C’è qui Cristoforo!». E rotolano dentro le caravelle, dove già un Ercole in mutande aveva fatto sorgere con la sua clava i Pirenei, su richiesta della mitica regina morente Pirene, che glieli chiede urlando «Expiro!». E poi la fondazione di Barcellona, i dragoni velenosi, le danze delle Pleiadi, il mostro Gerione a tre teste, una quantità di magìe, stregonerie, malefizi, incantesimi... Ecco ancora l’interminabile David di Milhaud, su cui subito corse la diceria di un illustre collega parigino che si congeda nel primo intervallo, già con su il paltò, all’Opéra, chiedendo all’autore «vous restez?».
Fu invece burrascoso e spiritoso il successo di scandalo ‘realistico’ (dovuto a una Topolino scassata in scena) per La gita in campagna di Mario Peragallo, elegante compositore talmente estroso che partì dai freschi dugenteschi di Giovacchino Forzano con Ginevra degli Almieri, passò alle poesie di Spoon River e ai racconti di Moravia, e approdò con molto sense of humour alle mie canzonacce per Laura Betti: «Ho dei bei riccioloni, – dei braccioni robusti, – la vestina al ginocchio – e non porto mai busti. – Leggo solo Pinocchio».
Con Savinio ci si identificava volentieri, perché era passato in tempi non sospetti attraverso la Monaco dei due Ludwig (il neoclassico e il romantico), ove la Grande Ideologia era già implosa in una ‘décadence’ non aliena dal più autentico Kitsch post-wagneriano, e riscoprendo la grecità lungo un asse diretto collezionistico e dinastico Baviera-Atene piuttosto marmoreo, senza cioè le deviazioni viennesi di Edipo sul sofà col raffreddore e l’emicrania e la sciarpina e il plaid. E raccontava con un certo distacco ironico la Parigi delle ultime avanguardie Art Déco, non ancora infestata dall’esistenzialismo degli untorelli e stenterelli...
Appariva isolato, anomalo, eccentrico, in una Roma o una Versilia non più e non ancora di salotti, bensì di salette e tinelli? Benissimo! La sua ilare melanconia faceva sentire ancora più vicina la liberazione dai tinelli (ci mancava poco...) quando fra un Pimm’s e un gin-and-tonic con ragazze e ragazzi bellissimi e scoperecci in gruppi tipo Laocoonte nei bar girevoli in cima al Nob Hill di San Francisco, o ballando in cravatta nera al Savoy dopo un balletto con Galina Ulanova al Covent Garden, si sarebbe morti dal ridere pensando che in quel momento un sor Coso e una sora Gegia, sorseggiando nocino e centerbe in tinello, si ripetevano ancora che l’America l’è amara quanto l’Albione l’è perfida...
Dal grande racconto-saggio surrealista, Savinio andava semplificando nel piccolo elzeviro corrieresco la «divagazione con sprezzatura» colorata come una conversazione ‘à bâtons rompus’ che tratta anche la più alta cultura con understatement elegante e con citazioni giuste, invece di sdottorare con ‘gravitas’ minacciosa sulle sciocchezze, come facevano praticamente tutti, salvo poi rimangiarsi tutto con analogo impegno, e sostenere severamente il contrario, perché nel frattempo ci si è un po’ vilmente pentiti, voltando seriosamente gabbane, e calando austeramente mutande...
... Fra Caniglia, Carosio, Casorati, Chauviré, Clerici... Si finì per andare in bicicletta a Como, per vedere Tamara Toumanova fanciulla in bicicletta nella Vita dell’uomo di Savinio.
Ascolto il tuo cuore, città finisce con i bombardamenti che distruggono Milano, e un giro di saluti alle statue rimaste in piedi. Ma poteva anche finire con un’altra antica storia, dovuta a un coetaneo, Luigi Barzini jr...
Il vecchio Conte di Torino, cugino di Vittorio Emanuele III, nato nel 1870, e in ristrette circostanze, viveva al Palazzo Reale di Milano, e usciva ogni mattina per raggiungere a piedi la Stazione Centrale, prima della guerra, attraversando la piazza e cortesemente scostando i venditori di bondieuseries. Prendeva un direttissimo, scendeva a Bologna, andava a colazione dalla sua amica Contessa Bosdari, e sempre a piedi e col ‘permanente’ ferroviario tornava a Milano in serata. Un pomeriggio, sotto i portici bolognesi, un crocchio di brillanti cadetti dell’Accademia Militare di Modena, senza riconoscerlo, incomincia a dileggiarlo per il suo ‘palamidone’ di foggia antica. (Cfr., in Savinio, il capitolo «Fallatajà», cioè «Falla tagliare!», grida e motteggi di monellacci a un filosofo molto chiomato, in Galleria). Così, a un colonnello a passeggio in Via Indipendenza, si presenta con raccapriccio questo inaudito spettacolo: allievi ufficiali in divisa che tirano per le code un Collare dell’Annunziata. Subito li fulminò sull’attenti e agli arresti, e: «Altezza Reale, voglia compiacersi di dettare Ella stessa la motivazione della punizione!». E Vittorio Emanuele Torino Giovanni Maria di Savoia-Aosta, figlio di Amedeo d’Aosta, ex-re di Spagna: «Si facevano beffe di un povero vecchio».