III.
Il mondo dei morti
Il mito si è diffuso fino all’Oberland meridionale, nella Lötschental, dove i villaggi puliti e ben conservati sono incassati tra ripidissimi versanti. La valle e le case sono minacciate su ogni lato dai ghiacciai, e ci vuole del tempo a contarli tutti. L’unico valico relativamente abbordabile, il Lötschenlücke, comunica direttamente con il Grosser Aletschfirn e con il ciclopico bacino glaciale dell’Aletsch, il più esteso delle Alpi. Non lontano si alza il massiccio calcareo della Blüemlisalp, la Montagna fiorita:
In tempi lontani il ghiacciaio era un pascolo lussureggiante e fertile. Apparteneva al contadino più ricco della valle, che aveva un unico figlio, l’orgoglio della famiglia. Quando il padre cominciò a sentirsi vecchio, mentre il figlio diventava grande e forte, lo mandò sul pascolo alpino con i servi. Nel momento del commiato, l’anziano genitore gli porse la mano e disse: «Lavora di buona volontà e non gettare a piene mani ciò che il cielo ti concede». Il figlio promise e partì.
Trascorsero molti anni; il padre era sempre più vecchio e stanco. Aveva solo un ultimo desiderio: prima di morire voleva salire al pascolo per vedere come andavano le cose. Da tempo i compaesani mormoravano che lassù si dissipassero le sue ricchezze, ma il contadino non aveva dato ascolto ai pettegolezzi. Dunque a fatica cominciò a salire il fianco della montagna, e infine vide il misfatto: le scale della malga erano fatte con forme di formaggio, il pavimento era di formaggio e – cosa orribile! – i malgari giocavano a birilli con le palle di burro...
Dopo che ebbe bussato due volte alla porta con il bastone il figlio andò lentamente ad aprire, e gettandogli uno sguardo corrucciato e insolente gli chiese che cosa lo avesse condotto al pascolo. Il genitore rispose: «Ora non voglio più niente, ma dammi da bere che ho sete!». Il figlio riempì una scodella di larice, vi versò della sabbia e la diede al padre che portò la scodella alla bocca ma non bevve, si alzò, andò barcollando alla porta e promise con voce spezzata che non l’avrebbe più seccato. Quando fu in fondo al pascolo serrò il pugno e gridò: «Montagne venite giù e sotterrate mio figlio, il bestiame e tutto quanto!». Così fu.
Anime in pena
Il seguito della leggenda introduce il tema del purgatorio, l’asilo transitorio delle anime peccatrici. Lo stesso schema narrativo si trova nel repertorio orale della Valle del Lys e della Valle Anzasca, in Val d’Anniviers e in Val d’Hérens, dalla Val Formazza alla Lötschental, nella regione dell’Aletsch e anche nella valle di Chamonix, in alta Savoia. Ovunque i peccatori sono condannati al gelido confino in fondo ai crepacci, oppure a una peregrinazione senza requie sulle desolate superfici dei ghiacciai. Vagano ed espiano tra i seracchi sperando che le preghiere dei loro cari li traggano in salvo. Nel silenzio delle buie notti senza luna, a chi riposa negli alpeggi vicini ai ghiacciai capita di udire i lamenti dei defunti che invocano pietà, e talvolta i sentieri dei vivi incrociano quelli dei morti:
Alcune centinaia di anni fa – narra l’abbé Christillin – un uomo della valle del Lys che desiderava andare nel Vallese attraverso il ghiacciaio di Félik stava per raggiungere il colle quando cadde in un grande crepaccio. Fortunatamente l’uomo scivolò lungo una parete obliqua e si trovò in fondo senza altri danni che qualche leggera contusione. Dopo essersi ripreso dallo stupore, constatò di essere realmente sotto il ghiacciaio. Un po’ di luce che penetrava attraverso il crepaccio gli permise di rendersi conto di ciò che lo circondava. Era una grande sala oblunga, con la volta e le pareti in ghiaccio verdastro che si innalzavano sulla roccia viva...
Intanto era scesa la notte e l’uomo gemeva penosamente sotto la roccia, in preda alle più crudeli angosce. Ad un tratto, una luce viva brillò ai suoi occhi e nello stesso momento tutta la grande sala di ghiaccio fu inondata di luce, come in un incantesimo; una tavola apparve improvvisamente nel mezzo carica di ogni specie di cibo; un gran numero di convitati, seduti o in piedi, stavano attorno a quel banchetto ma sembravano colpiti da grande tristezza...
L’uomo notò allora in un angolo della tavola una donna ancora più triste degli altri convitati; piangeva e sembrava inconsolabile. In capo a qualche minuto ella s’avvicinò al nascondiglio in cui stava il nostro uomo, che le chiese in nome di Dio cosa significasse tutto ciò e se potesse aiutarlo a uscire dal ghiacciaio. Allora la donna gli rispose con voce debole e languida:
«Sì, vi posso aiutare ad uscire di qui, ma a condizione che anche voi mi aiutiate ad ottenere la stessa grazia, pregando per me che così sarò liberata dalle pene. Tutte le persone che avete visto sono anime che soffrono ed espiano qui le loro colpe, prima di entrare nella gloria di Dio. Molti secoli fa, in questo luogo esisteva una città che, una sera, fu punita a causa dei suoi peccati...»
Era la città di Félik, che aveva negato la carità al santo mendicante.
Nella cultura walser il culto dei morti è molto vivo, con una presenza tangibile dei defunti nelle icone e negli oggetti di casa, sulle mulattiere che salgono all’alpeggio, sui sentieri devozionali dei cimiteri, nelle croci lignee e in altri simboli domestici. In alcune valli, per esempio in Valsesia, si provvede ad aprire la finestrella di casa per permettere all’anima del defunto di spiccare il volo. Nella Valle del Lys si usava apparecchiare tavola al parente morto. Durante la notte dei Santi bisognava lasciare un po’ d’acqua e un mucchietto di legna accanto al focolare per le anime in cerca di pace.
Il contatto tra i vivi e i morti prende forza nella notte del primo novembre, quando le barriere si aprono e le anime scendono dal monte seguendo i sentieri della dézarpa, la calata dall’alpeggio. A Ognissanti i cari defunti sono accolti dai parenti, ritrovano le case, si scaldano e si rifocillano prima di intraprendere il penoso ritorno verso la solitudine del ghiaccio. Naturalmente si tratta di incontri eccezionali, perché i due mondi sono separati dalla morte. Nei restanti giorni dell’anno solo la preghiera degli uni può mitigare le sofferenze degli altri, come nota a metà Ottocento il teologo Giuseppe Farinetti:
I ghiacciai che scendevano lungo i fianchi del monte, solcati da larghe e profonde crepaccie, erano un luogo di espiazione per le anime dei trapassati, le quali vi dovevano rimanere per qualche tempo prima di salire al soggiorno dei beati; vi potevano essere suffragate dalle preghiere degli amici e congiunti, preghiere tanto più efficaci se venivano fatte nel luogo stesso della pena; quindi, nei tempi passati, si vedevano non di rado frotte di gente, donne specialmente, recarsi nella stagione estiva in pio pellegrinaggio sopra qualche ghiacciaio, ed ivi, prostrandosi, perseverare nella preghiera sinché potevano resistere all’intensità del freddo, che giungeva talvolta al punto da levare la pelle e far spicciare il sangue dalle ginocchia nude dei devoti pellegrini. In questo caso l’effetto della preghiera era certo, ed aveva giovato non solo ai defunti ma benanco ai vivi, perché una pia tradizione diceva che chi erasi recato con scopo devoto ai ghiacciai mentre era in vita, non vi sarebbe stato mandato dopo morte.
La versione della Lötschental è moralistica e poetica:
Il lago del ghiacciaio nasconde meravigliosi segreti proprio dove l’acqua è più limpida, lassù sulla montagna. Il vento soffia fiocchi di neve e non si ode altro mormorio di fonte. Lo possono testimoniare le povere anime che in gran numero, nelle profondità del lago, tremano, singhiozzano e si struggono per la salvezza. Il lago è nutrito dalle loro lacrime: per questo le acque sono così chiare e pure.
Le povere anime una volta se la spassavano. I giovani e le vergini ridevano e scherzavano nelle capanne e nelle taverne. Occhi belli e traditori attiravano i compagni ai segreti convegni notturni, per banchettare, ballare e fare baldoria. Ora versano lacrime di dolore e pentimento per i pensieri e i desideri proibiti, gli sguardi lascivi e le parole vuote con le quali hanno sedotto e ingannato, e per le gocce di sudore che hanno versato nella danza. Solo con l’ultima lacrima di pentimento potranno volare in una chiara notte d’inverno, trasformate in luce come stelle, e oltre, verso il creatore...
Ma adesso nelle notti di luna escono dal carcere gelato e si stringono le bianche mani, inscenando una specie di danza tra le sponde. Quante più anime emergono dalle acque tanto più si allunga la catena, finché l’abbraccio cinge il piccolo e il grande Hockenhorn. Non si ode alcun rumore di passi, non risuona nessuna musica, non echeggia un grido di gioia, ma le lacrime cadono sulla neve senza sosta e si trasformano in stelle di cristallo. Nelle notti di tormenta le povere anime sono costrette a tornare sui luoghi dei loro peccati. Passando davanti alle capanne, alle stalle e alle case in cui un tempo sfidarono Dio con giovanile tracotanza, ammoniscono i viventi affinché chiudano le porte e le finestre, interrompano gli incontri notturni, spengano le luci e si raccomandino all’angelo custode...
La buona Catherine
La leggenda delle anime dannate è piuttosto diffusa anche nel Vallese. Il più grande scrittore svizzero di inizio Novecento, Charles-Ferdinand Ramuz, vi ha dedicato una novella intitolata Amês dans le Glacier. Philippe Joutard la riassume così:
La vecchia Catherine va ad abitare all’inizio dell’estate in una casa ai margini del ghiacciaio. Fin dalla prima notte ode dei gemiti e intravede delle figure esangui: sono le anime che espiano il purgatorio nel ghiacciaio; di notte hanno l’abitudine di rifugiarsi nella casa per trovare un po’ di calore, di giorno stanno in attesa sul fondo dei crepacci... Catherine stringe amicizia con le anime e resta talmente incantata dalla bellezza e dalla serenità dei loro canti che, alla sua morte, preferisce unirsi a loro piuttosto che essere trasportata in cielo dagli angeli.
Leggenda e cronaca si sovrappongono nell’estate del 1937, quando alcune ragazze di città legate in cordata devono attraversare il ghiacciaio dell’Aletsch per raggiungere il campo della Fafleralp. Eccitate dalla scalata appena compiuta chiacchierano amabilmente, ma l’anziana guida si acciglia. Fermo sul bordo del ghiacciaio, l’uomo chiede alle giovani di fare silenzio perché è il momento di «ascoltare le acque che colano e gemono». Sono i pianti delle anime in pena, spiega la guida, ci vuole rispetto quando si marcia sul ghiacciaio. Poi si toglie il cappello e fa il segno della croce, recitando una preghiera incomprensibile. Le ragazze ammutoliscono e s’incolonnano dietro il vecchio. Si guardano, s’interrogano, non afferrano il senso. Pensano che la guida si riferisca ai rischi che il ghiacciaio riserva a chi non rispetta le regole dell’alpinismo, perché non conoscono la leggenda.
Tra alti e bassi il racconto mitico resiste fino a un pomeriggio d’estate del 2009, quando i turisti di Fiesch salgono in funivia alla stazione di Fiescheralp. Prima del tramonto, impugnando i bastoncini da trekking, raggiungono quel che resta del lago glaciale che rovesciò disastrose alluvioni sulla valle del Rodano. È il 6 agosto ed è quasi sera quando incrocio i viandanti sopra il Lago Märjela: assorti, ricordano una processione contemporanea. Vestono i colori alla moda degli escursionisti, hanno facce abbronzate e non sono saliti per il panorama. Li guardo mentre si dispongono in riva al lago e ai margini dello sconfinato Aletschgletscher, del quale, nel buio, potranno sentire l’alito gelido sulla faccia. Il sole muore, l’aria si ferma e tra le rocce lisciate dall’erosione comincia la rappresentazione teatrale:
«C’era una volta una brava vecchia che abitava una casupola sul ciglio del ghiacciaio...».