XX.
Messe in scena
Sempre in Svizzera, un secolo prima. Il Tartarino creato nel tardo Ottocento da Alphonse Daudet non è né forte né coraggioso. Non è nemmeno un alpinista, lo sprovveduto Tartarino di Tarascona, ma semplicemente un visionario: crede che le Alpi siano il teatro di una straordinaria finzione scenica e i montanari recitino per i cittadini. Per Daudet il turismo è il frutto di una rappresentazione globale in cui la Compagnia Internazionale delle Alpi dipinge e infiocchetta il paesaggio, illumina le cascate, addestra i «camosci selvatici», attrezza i ghiacciai con porte girevoli e mantiene una popolazione di impiegati e commedianti. La Svizzera è una Disneyland e la Jungfrau dell’Oberland è la parodia del monte di ghiaccio.
Per questo Tartarino non ha paura della montagna: l’alpinista venuto dal Sud è convinto che i pericoli siano finti e che le guide improvvisino per farlo felice. Tartarino pensa che in fondo al crepaccio spaventoso ci sia un materasso pronto ad accoglierlo se mai il capocordata decidesse di allentare la corda. Ma Tartarino è anche l’ultimo turista che affronta con le proprie forze i dislivelli della Jungfrau, la giovane vergine, fino ad affacciarsi senza fiato sulle onde ghiacciate dell’Aletschgletscher. Dopo di lui provvede la tecnologia.
Il 27 agosto 1893, durante un’escursione allo Schilthorn, il manager di ferro Adolf Guyer-Zeller individua un tracciato per salire in treno la Jungfrau e «permettere anche alle persone fisicamente impedite di godere delle bellezze alpine». È un progetto un po’ folle non solo per i problemi di natura tecnica, neanche lontanamente paragonabili alle ferrovie del Gornergrat e del Montenvers, ma anche perché si tratta di trasportare dei turisti non acclimatati oltre i quattromila metri. Si eseguono esperimenti su animali in laboratorio, e poi sull’uomo, monitorando sessanta turisti-cavia sulla vetta del Breithorn, il più facile quattromila del Monte Rosa. Nasce un’agguerrita società a capitale privato e l’impresa può finalmente incominciare.
La prima tratta è facile e panoramica, proprio ai piedi dell’Eiger, l’«Orco» dell’Oberland. Il 19 settembre 1898 viene inaugurata la stazione presso il colle della Kleine Scheidegg, che diventerà tristemente famosa nel Ventennio con la tragica corsa all’Eigerwand, quando i turisti si accalcheranno ai cannocchiali per seguire l’agonia degli alpinisti in parete. Oltre il colle erboso arriva la parte più difficile, perché il treno entra in un budello di oltre sette chilometri scavato nella roccia dell’Eiger e del Mönch, inerpicandosi verso il Jungfraujoch con pendenze fino al venticinque per cento. Per ragioni di cantiere che ben si sposano con le esigenze di spettacolarizzazione dell’opera, i convogli della cremagliera salgono a pochi metri dal vuoto e in due punti la ferrovia si affaccia sulla vertigine.
Il destino non è benigno con Guyer-Zeller, che muore nel 1899 senza vedere realizzato il suo progetto. La direzione passa di mano in mano e i lavori proseguono nel nuovo secolo; le mine brillano per molti anni nella pancia della montagna, finché i costruttori si arrestano al colle della Jungfrau senza raggiungere la cima della montagna.
La realizzazione è comunque sbalorditiva perché proietta i turisti nei territori degli alpinisti. La stazione del Jungfraujoch, a quasi tremilacinquecento metri, diventa un avamposto tecnologico d’alta quota, con locali e attrazioni ricavate nella pietra, grotte di ghiaccio, balconi di luce, un laboratorio per studi di fisica, l’osservatorio meteorologico e astronomico abbarbicato sulla roccia dello Sphinx. Dopo un tragitto cupo e misterioso negli anfratti delle pareti nord, durante il quale, oggi, gli schermi al plasma dei vagoncini restituiscono il panorama rubato dalle gallerie, il visitatore si affaccia di colpo sul bianco serpente dell’Aletschgletscher, il più grande ghiacciaio delle Alpi, che gli è già stato ampiamente anticipato dalle immagini ad alta definizione e dai video promozionali. Come ogni invenzione turistica la salita in cremagliera al Jungfraujoch fonde l’esperienza reale con la rappresentazione virtuale. Aveva ragione il vecchio Tartarino.
Le città della neve
Negli anni Trenta del Novecento gli sport invernali raggiungono dimensioni popolari. Il regime fascista promuove i treni della neve, Giovanni Agnelli compra i terreni in cima alla Val Chisone e Vittorio Bonadè Bottino progetta Sestriere. Si afferma un’idea ultramoderna della montagna, non più avamposto del mondo abitato ma protesi urbana attrezzata da città, in un luogo che un tempo era adibito a pascolo e colle di transito.
L’invenzione e la costruzione di Sestriere sono fondate sulle torri cilindriche e altre architetture d’avanguardia, automobili che portano gli sciatori ai bordi dei campi di sci, impianti di risalita meccanica che allontanano lo spettro della fatica e promettono divertimento in cambio di denaro. Nel 1930 viene inaugurata la prima funivia Alpette-Sises, con annesso ristorante. Con la consulenza di un tecnico norvegese si progetta e si testa il trampolino di salto del Lago Losetta. Il 18 gennaio 1932 entra in funzione la funivia del Sises. Al Colle compaiono gli sciatori e i gitanti della domenica, che si affiancano alle attrici, ai divi e ai signori dell’alta borghesia. In primavera riprende la costruzione dell’albergo Principi di Piemonte, crollato durante i lavori, e intanto inizia a salire nel cielo la Torre di Sestriere. Tutto è pronto per Natale: a 1800 metri nasce la metropoli bianca.
La dissoluzione dei modi di vita storici – osserva l’architetto Antonio De Rossi – porta allo spopolamento della montagna interna, e le Alpi assumono il ruolo di banlieue blanche finalizzata al divertimento settimanale o stagionale delle popolazioni urbane... Scompare la percezione indigena del paesaggio montano, mentre l’immagine complessa della realtà piemontese tende a contrarsi fino a sovrapporsi e coincidere con quella dell’area metropolitana torinese... Sestriere introduce anche altro: un connubio montagna-automobile, una modalità dinamico-tecnologica di consumare turisticamente le Alpi, che segna gli immaginari di quasi mezzo secolo.
Cambia il costume. Le donne dalle forme generose campeggiano sui manifesti promozionali introducendo la dimensione erotica su un terreno che è sempre stato appannaggio degli uomini duri: gli eroi della montagna. Infine il lusso esibito dei ricevimenti mondani, dei raduni alla moda e delle soubrette immortalate sui campi di neve allontana per sempre dalla stazione invernale la memoria austera della montagna, ormai confinata in valli e località per loro sfortuna (o per fortuna, secondo i punti di vista) inadatte alla pratica dei nuovi sport. Lo sci di massa reinventa la montagna e colora la sua neve, trasformandole da ambiente a cornice naturale, da luogo storico a stadio e palcoscenico.
Naturalmente il modello è replicabile. Se a Sestriere la famiglia Agnelli ha creato una città della neve, ai piedi del Cervino non resta che imitare l’idea, migliorandola se possibile. I cittadini incalzano i montanari perché cedano la terra ed è solo una questione di prezzo. Nel 1933 la famiglia Maquignaz vende all’ingegnere biellese Dino Lora Totino e alla sua cordata di imprenditori il primo lotto di pascolo: 11.000 metri quadrati a 10 lire al metro. Nell’ottobre del 1934 la prima automobile FIAT entra nella piana del Breuil sulla nuova strada sterrata, due anni dopo la funivia raggiunge Plan Maison e Gianni Albertini inaugura l’Hotel Cervinia, progettato dall’architetto Mario Cereghini.
L’invenzione semantica di Cervinia è un chiaro omaggio al fascismo, in dispregio all’etimologia francofona. «Cervinia, nome squillante ed italianissimo», si compiace nel 1937 il suo inventore Lora Totino. Sulla scia di Sestriere anche a Cervinia s’impone il binomio automobile-sci, con un’innovazione in più: la via aerea, la funivia dei ghiacciai, il filo che punta ai quattromila. Auto, sci e funivia sono i simboli del futuro.
I primi ospiti di Cervinia sono i gruppi sportivi delle università di Oxford e Cambridge, nel 1936. I giovani rampolli inglesi imparano a sciare sotto gli occhi del maestro Zeno Colò, poi tornano a casa e parlano bene del villaggio. «Meglio di Zermatt», dicono, perché c’è il sole e si mangia italiano. L’inverno successivo arrivano molti altri inglesi, e gli americani. Una calamita. Presto, passeggiando per le vie del paese, ci si può imbattere in Herbert von Karajan, Enrico Fermi e Albert Einstein. E poi attori, attrici, registi, il bel mondo del cinema e dello spettacolo, la gente tutta. È nata la montagna delle masse.
Il filo teso
«Bisogna aprire una nuova via fra due nazioni sorelle», rilancia Lora Totino pensando al Monte Bianco. In tanti scuotono la testa all’idea di gettare un filo sopra cinque chilometri di ghiacciaio, o addirittura di bucare la montagna con un traforo. Ma il conte ha la testa dura: «La prima idea è nata naturalmente dal fatto che avevamo finito le funivie da Courmayeur al rifugio Torino e da Chamonix all’Aiguille du Midi. Volevamo collegare queste due stazioni con un altro sistema. Ma è stato difficile acclimatare le renne e soprattutto fare una strada in mezzo al ghiacciaio, perché fra l’Aiguille du Midi e la Punta Helbronner non c’è che ghiaccio». Nel 1953 il sindaco di Chamonix Paul Payot accetta malgrado gli «inconvenienti sentimentali», valutando i vantaggi economici. Quando cominciano i lavori dice per lavarsi la coscienza: «Queste funi e queste cabine saranno come polvere nell’immensità della Vallée Blanche».
La storia si ripete, anche se la visione è cambiata dai primi decenni del Novecento. L’inverno dei regimi e l’inferno delle guerre hanno spazzato i sentimenti romantici. I progetti della funivia della Vallée Blanche e del traforo del Monte Bianco, sopra e sotto il tetto d’Europa, nascono dalla volontà politica di legare due paesi divisi dal fascismo e riavvicinati dalla resistenza, e si inquadrano nel clima di euforia consumistica che sta sfociando nel turismo di massa. Tuttavia il progetto della Liaison della Vallée Blanche non può essere letto solo come il congiungimento di due impianti preesistenti. Porta con sé un’idea nuova, una profanazione più definitiva, perché non si limita a raggiungere il ghiacciaio ma lo attraversa. Un conto è affacciarsi sugli scrigni gelati della Mer de Glace o del Gornergletscher restandone comunque alla periferia, altro conto è dominare con i cavi il cuore di ghiaccio del Monte Bianco. Non a caso le maggiori opposizioni si sollevano dal mondo delle guide alpine, che si vedono private della competenza sul tradizionale terreno di lavoro.
La novità dell’impianto è confermata dalle difficoltà tecniche. Le due stazioni sono distanti 4972 metri con un dislivello di 311 metri. Bisogna trovare il modo di sostenere gli oltre venti chilometri di funi di acciaio necessari al collegamento, perché non si possono piantare i piloni sul ghiaccio. Viene individuato il Gros Rognon, l’unica roccia lungo il percorso, ma il Rognon è fuori angolo di diciotto gradi rispetto alle due stazioni, e da solo non basta a sostenere le funi. Allora si ricorre al pilone aereo, l’invenzione decisiva. Trenta tonnellate di peso restano appese al «pilone volante» che non tocca la neve.
La Funivia dei ghiacciai apre alla fine del 1957 senza il taglio di nessun nastro. Semplicemente le cabine cominciano a girare. I primi biglietti sono venduti alla vigilia di Natale, e avanti così, un ovetto dopo l’altro, ogni giorno dell’anno. Migliaia e migliaia di passeggeri sospesi nelle cabine rosse passano come marionette in faccia alla Tour Ronde, al Grand Capucin e ai pilastri del Mont Blanc du Tacul, abbacinati dal riflesso e storditi dall’altitudine. Passano Brigitte Bardot e Vittorio Gassman, e poi politici, artisti, cantanti, gente famosa e turisti qualsiasi. Passano in sogno, affacciati sul più bianco palcoscenico d’Europa.
La commercializzazione del sogno
L’eccezionale diventa pane quotidiano e il mito si offusca progressivamente. Perfino la catena himalayana – esplorata e addomesticata con campi, corde fisse, ponti radio e collegamenti satellitari – si riduce e si abbassa nell’immaginario degli alpinisti occidentali. L’Himalaya è semplicemente la copia fuori scala delle montagne di casa e ne condivide il destino.
Come sulle Alpi duecento anni prima, la caduta delle inibizioni e il palesamento dei segreti dell’alta quota anticipano il disincanto, il business e l’affollamento. Sulle cime dell’Asia si replicano l’accelerazione e la specializzazione che hanno cambiato faccia all’alpinismo europeo. Negli anni Ottanta, a cominciare dal Nepal, viene esportata anche la logica dei grandi numeri, che impingua le casse dei governi locali, assicura il lavoro degli sherpa e produce preoccupanti fenomeni di inquinamento. Nel 1990 almeno 16.000 persone hanno già tentato di raggiungere un ottomila e circa 1800 ci sono riuscite; tenendo conto che nel 1978 il totale era inferiore a 500, si può immaginare la crescita dell’impatto economico e ambientale.
Non tutte le montagne subiscono lo stesso assalto. Al pari del Cervino, del Monte Bianco e del Monte Rosa sulle Alpi, le cime himalayane più famose sono decisamente le più ambite da chi è a caccia di un trofeo. Le altre non hanno appeal. Come succede per i quattromila alpini, in Himalaya il feticcio degli ottomila metri fa la differenza. La maggior parte dei pretendenti cerca la cima che porta un nome blasonato e vuole il numero otto con tre zeri.
Il processo di commercializzazione si allarga presto al Karakorum, osservano tre alpinisti italiani commentando l’affollamento stagionale al Circo Concordia:
Gasherbrumville è una piccola metropoli – scrivono Slonina Ubaldini, Mutti e Bruschi –. Ci sono i ricchi e i poveri, gli occidentali e gli orientali, le tribù e i solitari, i manager e i dilettanti, i pagati e i paganti. Nel ‘quartiere’ di Chinatown abitano solo quattro giapponesi senza portatori né radio, poi ci sono gli yankees, i vikinghi, gli svizzeri, gli inglesi e, naturalmente, non può mancare l’esercito che, non pago di difendere la Sella Conway dagli indiani, ha pure dato l’assalto al Broad Peak.
Nell’estate del 1986 ben undici spedizioni tentano il K2, una delle cime più difficili. Sull’ambitissimo sperone sud-ovest, la Magic line di Messner, operano contemporaneamente Renato Casarotto, l’équipe di Quota 8000 e un gruppo americano. Il 21 giugno una valanga travolge due giovani alpinisti dell’Oregon: Pennington e Smolish. Due giorni più tardi l’équipe franco-polacca composta da Liliane e Maurice Barrard, Michel Parmentier e Wanda Rutkiewicz tocca la cima dalla via normale e in discesa è sorpresa dalla bufera: i due Barrard non fanno ritorno. Il 16 luglio il grande Casarotto muore in un crepaccio vicino al campo base, ma ai primi di agosto le cordate riprendono la strada della vetta. Altri sette alpinisti la raggiungono, il tempo cambia di nuovo e Julie Tullis, Alan Rouse, Alfred Imitzer, Hannes Wieser e Dobroslawa Wois-Miodiowicz muoiono di sfinimento.
Alla lista nera si aggiungono i polacchi Tadeusz Piotrowski e Wojciech Wróz, caduti al ritorno da due exploit: Piotrowski ha aperto con Kukuczka l’interminabile via sul versante sud del K2, raggiungendo quasi esanime la cima; Wróz ha finalmente risolto con Piasecki e Bozik il rebus dello sperone sud-ovest, ma è precipitato esausto e deconcentrato dopo la vetta.
Intanto sull’Everest la situazione degenera, alzando il prezzo e stravolgendo il senso della montagna madre. Al tempo di George Mallory, il sacro Sagarmatha era il luogo dell’estrema solitudine terrestre, un posto in cui si dialogava con il mistero della vita e della morte. La vetta irraggiungibile ricordava all’uomo che lassù abita il dio del ghiaccio; chi la sfidava era un eretico, o un pazzo, o un uomo di esagerata fede. Infatti Mallory non tornò. Poi sono venute le spedizioni pesanti, che con spirito sciovinista e strategia militare hanno messo in riga il tabù degli ottomila metri. Scalare l’Everest è diventato un problema di organizzazione, una specie di guerra senza il nemico, finché i giovani ribelli degli anni Settanta hanno detto «basta!, via le zavorre e le bandiere!, bisogna fare pace con la montagna». I ragazzi della contestazione sono saliti con la leggerezza delle farfalle e le loro corse hanno riacceso il mito, reinventandolo e democratizzandolo. Di questo ha approfittato il marketing di fine secolo: «l’Everest è facile, l’Everest è per tutti». Non era vero, naturalmente, occorreva lavorare sul prodotto con sofisticate tecniche di promozione, le stesse delle agenzie turistiche, ed evoluti materiali da scalata, cioè un arsenale di bombole piene di ossigeno, chilometri di corde da alpinismo e scale, tante scale. Mentre al Colle Sud nasceva la pattumiera più alta della terra, le agenzie lavoravano per commercializzare il sogno. Bisognava far scendere quella benedetta cima e così hanno fatto, preparando la trappola del 1996, quando tra il 10 e l’11 maggio otto alpinisti sono morti sulla via nepalese. Il maltempo ha investito improvvisamente il massiccio dell’Everest e ha sorpreso le spedizioni commerciali, decimandole.
Il trend di crescita del business himalayano non si è più fermato: nella stagione premonsonica 2019 il Ministero del Turismo nepalese ha rilasciato 868 permessi di scalata sul territorio nazionale, in particolare per l’Everest, il Lhotse, il Makalu e l’Ama Dablam. 659 alpinisti sono arrivati in cima al tetto del mondo da sud. Solo uno c’è riuscito senza usare l’ossigeno. Quasi tutti facevano parte di spedizioni commerciali e tutti usavano le corde fisse. Aggiungendo i 264 scalatori saliti da nord fanno 923 persone sull’Everest in una stagione, che è il nuovo record, non certo l’ultimo. Le fotografie con le cordate incolonnate all’Hillary Step come ai grandi magazzini hanno fatto il giro del mondo, trasformando il simbolo di maggiore inaccessibilità del pianeta in un affollato luogo di consumo. Nonostante l’organizzazione più lunare che terrestre predisposta dalle agenzie, undici clienti hanno perso la vita sulla montagna in poche settimane: nove sul versante nepalese e due su quello tibetano. Solo una delle undici vittime è precipitata durante la scalata; tutti gli altri sfortunati alpinisti sono morti per impreparazione fisica e per patologie d’alta quota.