XXVI.
Il passaggio a Nord-Ovest

Nonostante gli allarmi dei primi anni del millennio, nel 2007 il Polo Nord è onestamente in coda ai nostri pensieri. Togliendo i solitari emuli di Roald Amundsen e Robert Edwin Peary e qualche ostinato sognatore di terre inesplorate, nell’immaginario collettivo l’Artide è diventata un luogo piuttosto inutile e dimenticato, al massimo un posto per ricchi viaggiatori, decollo volo atterraggio emozione e ritorno compresi nel prezzo.

Quando Reinhold Messner nel 1995 ha tentato di spingersi al Polo Nord con uno dei tanti fratelli, che di professione fa il medico, ha sperimentato che più che una scalata era una navigazione su zattere di ghiaccio alla deriva, dove gli sci non bastavano a scavalcare i rivoli e i crepacci. Il Polo Nord era ghiaccio senza la terra sotto, dunque ben più insidioso del Polo Sud e del più cattivo ghiacciaio alpino o himalayano, soprattutto per un alpinista abituato a dominare un vuoto fermo, non un abisso in movimento o un «continente» in liquefazione. Messner era tornato indietro e nessuno aveva pianto per il suo insuccesso.

Dunque nel 2007 siamo ancora piuttosto cinici e distratti, e anche quando cominciamo a vedere in televisione pezzi di Artide che veleggiano verso mari sempre più caldi, fondendo e inabissandosi, e i climatologi ci spiegano che quella è acqua dolce, la più grande riserva del pianeta, e che senz’acqua l’uomo muore, forse qualcuno comincia a preoccuparsi, ma non troppo, e il ghiaccio polare resta una casella periferica del pensare virtuale e digitale. All’alba del Novecento il Polo era un mito, e per i miti si possono fare pazzie, l’Artide era la frontiera dell’avventura e della fantasia, ma all’inizio del terzo millennio è solo un deserto di ghiaccio che naviga sul mare e ritorna al suo mare. Perché perdere il sonno?

L’indifferenza svanisce nell’estate del 2007, quando il Polo Nord diventa un avamposto infuocato. Di colpo l’Artico degli avventurieri e dei sognatori fa gola ai mercati e alle nazioni. In un clima da guerra fredda salgono i livelli di attenzione e tensione, si mobilitano le navi e i sottomarini, si scomoda qualche stratega di politica internazionale e si allertano i media, perché l’economia post-capitalistica ha scoperto che la fusione dei ghiacci potrebbe schiudere le porte dei forzieri che sembravano inutilizzabili: dalle scorte di petrolio e gas metano che una stima americana pone a un quarto delle riserve mondiali, ai giacimenti di minerali rari, alle inedite rotte commerciali. Se si scongelasse permanentemente il passaggio a Nord-Ovest, a lungo «imprigionato» tra le isole ghiacciate del Canada settentrionale, l’Europa e l’Asia si avvicinerebbero. Gli itinerari navali che collegano i porti europei con l’Estremo Oriente, e viceversa, si accorcerebbero di circa quattromila chilometri rispetto alla classica rotta del Canale di Panama, e per le superpetroliere che sono troppo grandi per passare da Panama e devono doppiare Capo Horn il vantaggio sarebbe molto superiore.

Sono quasi cinquecento anni che i navigatori inseguono come una chimera il passaggio a Nord-Ovest e adesso sembra che gli venga consegnato con il fiocco. Ma di chi è quel pezzo di mare? È di qualcuno questo mare gelido?

Il Canada ha da tempo dichiarato il passaggio sotto il suo controllo in virtù della sovranità sull’arcipelago – spiega Federica Bianchi su «L’Espresso» –, ma ogni volta è stato contraddetto dal suo potente vicino di casa. Gli Stati Uniti sostengono che il passaggio si trovi in acque internazionali, aperte a tutti, e non sono disposti a transigere. Nel 1969 il viaggio dell’SS Manhattan, un enorme carro armato americano equipaggiato per camminare sul ghiaccio, testò la viabilità della rotta per il trasporto di petrolio. Il risultato fu negativo, ma portò a una nuova legislazione canadese secondo cui Ottawa aveva il diritto di controllare il traffico artico. Gli Usa si vendicarono riducendo le importazioni di petrolio canadese e si rifecero poi nel 1985, quando il rompighiaccio Stella Polare della Guardia costiera americana attraversò il passaggio senza chiedere il permesso...

Il primo ministro canadese Stephen Harper assicura che «verranno investiti oltre tre miliardi di euro per l’acquisto di sei rompighiaccio militari di media forza» e la costruzione di un nuovo porto artico. «Non è più soltanto una questione di sovranità», dicono gli esperti del Centro per gli studi strategici e militari di Calgary, «ormai è un problema di sicurezza nazionale». Da tempo i canadesi litigano con i russi e i danesi per la «proprietà» del Polo Nord, e se la vedono con le ambizioni commerciali dei norvegesi e dei cinesi, ma l’inaspettata apertura del passaggio in cima al mondo alza la posta in gioco.

Ottomila anni fa

Nel 2016 la scienza fa nuova luce. Nelle estati di ottomila anni fa, quando la temperatura del pianeta era circa due gradi superiore all’attuale, il passaggio a Nord-Ovest sarebbe stato libero dal ghiaccio marino. Come riporta il Consiglio Nazionale delle Ricerche, coautore della ricerca con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e il Niels Bohr Institute di Copenhagen, la scoperta viene dall’analisi di campioni di ghiaccio estratti in Groenlandia «attraverso i quali è stato possibile stimare l’estensione della calotta artica nel corso degli ultimi diecimila anni». Si tratta della prima ricostruzione attendibile della storia del ghiaccio marino artico, che i satelliti osservano solo dal 1970. È frutto di un’intuizione scientifica: «Nella stagione primaverile una reazione chimica innesca il rilascio in atmosfera di grandi quantità di bromo naturalmente presente nel ghiaccio marino», spiega Andrea Spolaor, glaciologo del Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica di Ca’ Foscari. «Il vento lo trasporta e con la neve si deposita sulla crosta ghiacciata della Groenlandia, spessa chilometri. Nei nostri laboratori siamo in grado di misurare la quantità di bromo immagazzinata nei millenni negli strati delle carote di ghiaccio estratte nel continente e stimare così la quantità di ghiaccio marino stagionale.» Si profilano nuovi scenari attraverso la ricostruzione di 120.000 anni di storia artica e migliori proiezioni sul clima:

Il riscaldamento globale – precisa Carlo Barbante, direttore dell’Istituto per le dinamiche dei processi ambientali del CNR – potrebbe portarci a condizioni climatiche già verificatesi sul pianeta 8-10.000 anni fa, con un Oceano Artico più caldo di 2-3 gradi e privo di ghiaccio in estate. Resta da capire quando raggiungeremo queste condizioni, oggi innescate dai gas serra... L’aver scoperto un metodo per ricostruire la storia del ghiaccio marino potrà aiutarci a comprendere meglio le sue interazioni con il clima futuro.

Intanto le navi ne approfittano. Nel 2012 la The World attraversa il passaggio a Nord-Ovest ed è la prima nave da crociera di sempre. Nell’ottobre 2013 la Nordic Orion, una città galleggiante di duecentoventicinque metri di lunghezza, è il primo cargo commerciale a percorrere la rotta scongelata risparmiando sessantamila euro di carburante. Trasporta carbone coke dal porto canadese di Vancouver a quello finlandese di Pori, recapitando il carico all’acciaieria Ruukki Metals.

La tragica scorciatoia polare

Dopo cinquecento anni di ricostruzioni mitiche, imprese leggendarie e morti senza sepoltura, il passaggio a Nord-Ovest svela dei segreti. Nel settembre del 2014 il mare restituisce il relitto della nave inglese Erebus ed esattamente due anni dopo riappare il fantasma della Terror adagiato sul fondo della Terror Bay. Tra i più ambiti trofei dell’archeologia subacquea, si tratta delle due famose, modernissime navi britanniche salpate nel 1845 per aprire la via di Nord-Ovest e misteriosamente scomparse nelle acque polari. L’ultimo avvistamento è stato quello di una baleniera al largo della Groenlandia, poi più niente: il comandante John Franklin e i suoi centoventotto uomini sono spariti nei mari estremi.

Quando gli esperti della Marina britannica hanno previsto il peggio, nel regno della regina Vittoria si è scatenata una delle più imponenti operazioni di soccorso della storia. Partire per il Polo era una missione, quasi una crociata. Per mesi, anni, oltre dieci navi inglesi e americane hanno perlustrato le acque ghiacciate e le terre adiacenti, raccogliendo reliquie e notizie sulla spedizione Franklin, che durante l’odissea ha lasciato tragici resti sul passaggio. I soccorritori hanno trovato sconsolanti relitti, comprese le tombe di almeno tre membri dell’equipaggio. Unendo le allarmanti testimonianze del popolo inuit ai due messaggi abbandonati sull’isola di Re Guglielmo, si è riscostruito il triste quadro degli eventi.

Il primo messaggio, datato 28 maggio 1847, confermava che la Erebus e la Terror avevano svernato tra i ghiacci sulla costa nord-occidentale dell’isola, senza tradire alcuna preoccupazione: «Sir John Franklin comanda la spedizione», si leggeva sul manoscritto. E poi: «Tutto bene». Il secondo messaggio annotato sui margini dello stesso foglio di carta era molto più realistico e inquietante. Datata 25 aprile 1848, la nota riferiva che la Erebus e la Terror erano rimaste intrappolate dal ghiaccio per un anno e mezzo e l’equipaggio era stato costretto ad abbandonarle giusto da tre giorni, la mattina del 22 aprile. Ventiquattro uomini avevano nel frattempo perso la vita e lo stesso capitano Franklin era morto l’11 giugno 1847, due settimane dopo la stesura del primo messaggio. Francis Crozier aveva assunto il comando della spedizione e i sopravvissuti avevano deciso di mettersi in cammino il giorno seguente, 26 aprile, per cercare la salvezza a sud, verso il fiume Back.

A quel punto era cominciata la vera odissea dei superstiti impazziti di fame e solitudine, come avevano confermato gli Inuit della regione. S’era udita l’eco disperata dei colpi di moschetto rimbalzare sul ghiaccio, e poi più niente. Un silenzio di morte. I naufraghi trascinavano pesi esorbitanti sulle scialuppe perché non avevano saputo rinunciare alle loro cose. Nel relitto di un’imbarcazione i soccorritori avevano trovato due scheletri di marinai e alcuni resti molto personali, tra cui stivali, fazzoletti di seta, sapone profumato, posateria d’argento, spugne, pantofole, sigari, pettini, spazzole e una copia rilegata de Il vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith.

Nonostante l’evidente insuccesso del viaggio polare e le ombre di cannibalismo che gravavano sulla sfortunata spedizione, i media vittoriani avevano celebrato sir Franklin come un eroe. I monumenti eretti in suo onore gli attribuivano la scoperta del passaggio a Nord-Ovest, mentre il sacrificio degli esploratori diventava soggetto di opere d’arte, poesie, drammi, racconti e romanzi, e si diffondevano strazianti canzoni popolari come Lady Franklin’s Lament, che cantava l’amore di lady Franklin per il marito scomparso tra i ghiacci. L’opera di Wilkie Collins e Charles Dickens The Frozen Deep andava in scena alla Manchester Trade Union Hall e alla Royal Gallery of Illustration, dove si organizzava una speciale rappresentazione per la regina Vittoria. Infine era il mare gelido a immortalare e sigillare la tragedia, affondando i relitti delle navi.

Ancora una volta è stato il riscaldamento dell’Artide a riaprire il forziere della memoria. Nel settembre 2016, a quasi cento chilometri dal luogo in cui i sommozzatori canadesi dell’Arctic Research Foundation cercavano il relitto, a sud e non a nord dell’isola di Re Guglielmo, è stato annunciato il ritrovamento della Terror. «The Guardian» ha elencato alcuni oggetti a conferma che si trattava proprio della nave di Crozier, il secondo comandante: la campana sul ponte, i caratteristici locali interni, due bottiglie di vino d’annata e alcune casse vuote ma riconoscibili. Tutti gli elementi combaciavano. Secondo il team di archeologi subacquei il vascello si presentava nella stessa condizione in cui era stato abbandonato dall’equipaggio quasi due secoli prima, con i boccaporti sigillati e gli alberi, sebbene lesionati, sempre allo stesso posto. «Svuotata dall’acqua la nave dà l’impressione di poter navigare ancora», hanno dichiarato i ricercatori.

Amundsen

Da ragazzo Roald Amundsen scopre la storia di John Franklin e resta impressionato. «Mi entusiasmò più di ogni altra lettura», confessa. In particolare, il giovane è colpito da quello «svantaggio fatale comune a molte delle precedenti spedizioni artiche» che invece di regalare a Franklin la felicità lo trattiene per sempre tra i ghiacci.

Amundsen non dimentica il sogno di sir John e tra il 1905 e il 1906, a bordo della nave Gjöa, realizza lui stesso la prima traversata del passaggio a Nord-Ovest dalla Baia di Baffin allo Stretto di Bering. È un viaggio interminabile che alla fine dell’estate 1905 porta l’esploratore norvegese sul posto dove sono sepolte le vittime della sventurata spedizione Franklin: «E con le bandiere spiegate in loro onore passammo vicino alle tombe in silenzio solenne... rendendo omaggio ai nostri sfortunati predecessori». Tra acque basse e gelate la Gjöa procede quasi alla cieca verso ovest; Amundsen non si fida della navigazione a vista e nei punti più insidiosi fa calare una scialuppa per scandagliare il fondo del mare. Prima la barca, poi la nave. Insperatamente la mattina del 26 agosto la vedetta avvista una vela all’orizzonte, segno che la Gjöa ha raggiunto le acque navigate, ma il viaggio non è ancora finito. Con una dozzina di baleniere restano bloccati dai ghiacci artici per un altro inverno.

Alla fine il passaggio è aperto, anche se la rotta non è pratica per il commercio; le acque sono troppo poco profonde, il viaggio è molto rischioso e richiede oltre un anno di navigazione. Per il primo passaggio in una sola stagione bisogna addirittura aspettare il 1944 e la seconda guerra mondiale, quando la St. Roch, uno schooner della Royal Canadian Mounted Police, riesce nell’impresa che resta comunque un evento eccezionale per altri sessant’anni, finché il riscaldamento globale non rivoluziona la geografia dell’Artide.