XXIX.
Le nuove regole dei giochi
Il Cervino è quasi attaccato al Monte Rosa, sembra il proseguimento della stessa catena. O la discontinuità. Per chilometri prevale il ghiaccio e di colpo si alza la roccia. Per questo il Cervino è stato scalato più tardi e i suoi passaggi sono diventati celebri.
Il Camino, per esempio. La prima descrizione della Cheminée del Cervino è del pioniere londinese Edward Whymper, ottimo scalatore, ottimo scrittore, che prima di salire in cima dalla cresta di Zermatt tenta ripetutamente la salita del versante italiano.
Un’ora dopo aver lasciato il colle del Leone arrivammo alla Cheminée, che aveva mutato totalmente aspetto dall’ultima volta che l’avevo raggiunta. Era ora una gran roccia piatta e liscia entro due altre roccie consimili che formavano con la prima un angolo considerevole. La mia guida tentò di arrampicarvisi ma, dopo essersi spostata in mille pose una più grottesca dell’altra, mi dichiarò che non voleva intraprendere la scalata essendo certa di non poterla condurre a termine. Quando con un po’ di fatica ma senza aiuto di sorta io riuscii a raggiungerne la sommità, le lanciai la corda tentando di tirarla fino a me. Ma l’uomo era così maldestro che non riusciva ad aiutarsi e così pesante che non mi fu possibile sollevarlo; dopo inutili sforzi egli stesso si slegò dicendomi tranquillamente che intendeva tornarsene indietro. Gli diedi del codardo e del poltrone...
La seconda descrizione è dell’abbé Amé Gorret, il coraggioso prete di Valtournenche che il 16 e 17 luglio 1865 accompagna il bersagliere Jean-Antoine Carrel nella prima scalata della cresta del Leone. Alle nove del mattino la comitiva dei pionieri è già in vista della cresta, dove qualcuno ha lasciato del fieno nascosto in una fessura rocciosa. I montanari si riempiono la camicia per far fuoco la sera. Dopo qualche minuto sono alle prese con la Cheminée, che secondo le parole di Gorret viene superata arrampicando come gli spazzacamini, cioè aiutandosi con i gomiti, le ginocchia, i piedi e le mani.
Il Camino del Cervino non è affatto facile come scrive Whymper, ma è un quarto grado cattivo, infatti diventa uno dei passaggi chiave dell’ascensione. Forse il più bello. Le guide lo addomesticano con le corde fisse e la difficoltà scende di circa un grado, permettendo ai clienti di issarsi con un po’ di fatica. Poco prima di raggiungere la capanna in cui si passerà la notte ci si misura con il test di scalata. Chi sale il Camino è un candidato alla vetta, chi fa la figura della povera guida di Whymper è meglio che torni indietro.
L’ho scalato tre volte e mi sono sempre divertito. Scaricando il peso sulle gambe e sui piedi il Camino era una bella arrampicata, da manuale. Quando eri dentro ti sentivi protetto come se la montagna offrisse le sue mura ai piccoli uomini innamorati della cima, ma era solo un’illusione geologica perché il 18 agosto 2003 la Cheminée è precipitata. Le alte temperature hanno intaccato il permafrost che la teneva insieme e una delle porzioni apparentemente solide del Cervino si è sbriciolata come un castello di carta.
La Gran Becca è sempre stata soggetta a frane e crolli, ma la rovente estate del 2003 ha annunciato agli alpinisti e ai geologi che il processo distruttivo stava accelerando. Come se ormai si ragionasse su un’altra scala di valori termici. Nel 2007 i ricercatori dell’Università di Zurigo hanno piazzato diciassette rilevatori con sensori wi-fi sul versante svizzero per monitorare i movimenti della struttura e la ricerca pubblicata sul «Journal of Geophysical Research» ha fatto un po’ di luce sulle dinamiche dei crolli, imputandoli a due cause distinte ma interdipendenti. La prima causa è lo sbalzo delle temperature che di stagione in stagione provoca la solidificazione e la fusione del permafrost. L’alternanza di gelo e disgelo modifica la disposizione geometrica delle fessure finché la pietra si spacca. Tuttavia non è solo il ghiaccio ad alterare la stabilità della roccia: contribuisce anche l’acqua. Secondo gli svizzeri i distacchi sarebbero favoriti sia dalle infiltrazioni d’acqua nelle fessure quando le temperature si alzano sensibilmente e la neve fonde, sia dalle proprietà meccaniche dell’acqua gelata. A monte resta la causa principe: il riscaldamento climatico.
Se crolla il Cervino, la montagna di roccia per antonomasia, è chiaro che ci sono dei problemi. Tanto più che di recente sono crollati anche i Drus sul versante francese del Monte Bianco e il Pizzo Cengalo nelle Alpi centrali, le pareti granitiche per eccellenza. I terreni d’alta montagna, un tempo quasi o completamente sicuri, stanno diventando impraticabili nei mesi caldi e delicati negli altri mesi. La pratica dell’alpinismo è sempre più legata ai capricci delle temperature e diventa un terno al lotto quando sulle Alpi arriva l’anticiclone africano. L’isoterma a cinquemila metri, evento non raro nelle ultime estati, significa che la neve non gela neanche in piena notte in cima al Monte Bianco, che sulla Vallée Blanche si sguazza nelle pozzanghere, che le pareti nord si spogliano entro giugno, i crepacci si allargano, le cornici e i seracchi precipitano e le rocce che erano assemblate dal ghiaccio si staccano senza preavviso, coinvolgendo chi si trova sul percorso. Quando ho scalato la parete nord-est della Grivola alla fine degli anni Settanta ho trovato solo un piccolo strato di pietre scistose che interrompeva la continuità del pendio ghiacciato. Quattro o cinque metri di roccia su cinquecentocinquanta metri di neve e ghiaccio ben assestati. Oggi le proporzioni si sono invertite e la parete è quasi completamente grigia. La vela della Grivola è diventata un muro di ghiaia inclinato a cinquantacinque gradi. La «Grivola bella» del Carducci è irriconoscibile: imbiancata d’inverno, impraticabile d’estate, pericolosa quasi sempre.
La crisi dello sci
La pratica turistica che sta subendo con maggiore evidenza il cambiamento climatico è lo sci, un settore che negli ultimi decenni del Novecento sembrava capace di offrire neve, proventi e soddisfazioni eterne. Era un abbaglio che non teneva conto delle fluttuazioni del clima e soprattutto del crescente peso dei gas serra prodotti e dispersi perfino in alta montagna.
Lo sci di massa si è diffuso nei decenni del secondo dopoguerra quando il riscaldamento era molto più lento di oggi, e si è affermato negli anni Settanta, quando addirittura fu registrata una breve fase di raffreddamento sulle Alpi e nei paesi alpini. A quei tempi c’era la neve naturale, e bastava. In seguito la situazione è cambiata rapidamente, e dopo il Duemila è precipitata.
Lo sci è un’industria piuttosto giovane e piuttosto arrembante; dal giorno in cui è nata costruisce e vende divertimento outdoor e da qualche tempo produce anche la materia prima, la neve, un po’ come se gli impianti balneari fabbricassero l’acqua del mare. Da circa vent’anni lo sci di pista è una pratica artificiale a tutti gli effetti, anche se la promozione turistica insiste ad ambientarla tra candide vette e immacolati versanti. Lo sci artificiale si basa su un meccanismo che deve funzionare in ogni condizione climatica, a Dubai come sulle Alpi, anche su nastri posticci che sembrano strisce di carta igienica. Si chiama neve programmata ed è l’unico adattamento individuato dagli imprenditori del settore per rispondere al riscaldamento climatico: la fake snow, com’è stata definita da Daniele De Luca sulla rivista online «Estreme conseguenze». La conseguenza, appunto, è che sciare costa sempre di più e che il settore è sostenuto dal finanziamento pubblico.
Anche gli sci sono cambiati, non più lunghi e affusolati ma corti e larghissimi, democratici, così che tutti girano facilmente, allo stesso modo, e se dalla seggiovia guardi uno sciatore ne hai visti mille, egualmente colorati, confortevolmente omologati. Inoltre sono cambiati gli impianti di risalita, non si fanno più le code alle ovovie e alle funivie, e le cabine sono così accoglienti che quando arrivi in cima vorresti restare dentro ancora un po’. Infine sono cambiate le temperature, evidentemente. Con il riscaldamento globale la neve sale a quote sempre più alte e le montagne sbiancano sempre più in fretta.
I ricercatori dell’Istituto Elvetico per lo Studio della Neve e delle Valanghe sostengono che in questo secolo il manto nevoso naturale potrebbe assottigliarsi del settanta per cento, e che un aumento di temperatura superiore ai 2°C provocherebbe la scomparsa della neve nel quaranta per cento delle località sciistiche alpine. Le stazioni sotto i 1500 metri saranno presto condannate alla chiusura, ma il climatologo francese Jérôme Chappellaz, direttore dell’Institut polaire Paul-Emile Victor, sostiene che siano a rischio addirittura quelle sotto i 1800 metri d’altezza. In Svizzera si sta già provvedendo a smantellarle. Cresce dunque la sete di neve artificiale, nutrita da copiosi contributi regionali, che come osserva Claudia Apostolo di Legambiente Alpi è il prodotto finale di un lungo processo che precede il soffio dei cannoni: «Servono energia, chilometri di tubazioni interrate, torri di raffreddamento ed edifici di servizio che occupano permanentemente il territorio, e servono fino a 45.000 euro all’anno per innevare un chilometro di pista». Con un metro cubo d’acqua si producono circa due metri cubi di neve artificiale. Condizione essenziale è la bassa temperatura, anche se la start up NeveXN (Neve Perenne) ha inventato un sistema per produrre neve con temperature ben superiori allo zero. Il brevetto è stato industrializzato dal colosso degli impianti di risalita Leitner e ha ricevuto dall’Europa un finanziamento incoraggiante.
Neve rossa
Torniamo al 2003, l’estate più calda degli ultimi due secoli. Manca poco a ferragosto quando Matteo Speroni scrive sul «Corriere della Sera»:
Niente più sci estivo sulla Marmolada e al Tonale. Fa troppo caldo: la neve è un miraggio. E così sono stati chiusi gli impianti sui ghiacciai. Stringono i denti allo Stelvio e in Val Senales, ma di notte si è abbondantemente sopra lo zero anche a 3500 metri. Pure a Cervinia la superficie sciabile è ridotta. Sul Tonale le piste sono state chiuse già un mese fa. È l’intero settore in crisi: un calo che dura da anni, perché la moda dello sci d’estate si è affievolita. Quest’anno l’assenza di neve ha dato un ulteriore colpo. La Marmolada ha dovuto arrendersi. Impossibile proseguire l’attività estiva con questa canicola. C’è solo quel che rimane del vecchio ghiacciaio grigio e crepacciato, un’immagine penosa...
Un operatore del Consorzio Adamello Sky dice che la neve del ghiacciaio è rossa, e così fonde ancora più in fretta. Il rosso non è frutto di magia o allucinazione, e probabilmente l’uomo delle piste non ha mai letto la storia della città di Félik: «La sera stessa cominciò a cadere neve rossa come il sangue. Eppure gli abitanti passarono la notte nei piaceri. Intanto continuava a nevicare e l’indomani nessuno poté uscire di casa. Nei giorni seguenti la neve scese ostinatamente seppellendo per sempre la città maledetta sotto il suo lenzuolo e formando quello che oggi si chiama il ghiacciaio del Félik...».
Comunque la leggenda non c’entra, anche se l’analogia fa pensare. La neve rossa è un deposito di sabbia desertica trasportata dai venti e l’accostamento tra il bianco alpino e il rosso sahariano esprime meglio di ogni metafora la globalizzazione del clima che, ampiamente annunciata e tenacemente rimossa, sta cambiando abitudini, gusti ed economie. Se l’invenzione dello sci aveva scacciato l’angoscia dell’inverno alpino trasformandolo nella stagione più attesa e redditizia dell’anno, la moda dello sci estivo lanciata negli anni del boom sembrava capace di vendere il paradosso. Si occupava la pubblicità, di rappresentarlo, diffondendo immagini di donne in scarponi e bikini sulle nevi del Livrio o ai piedi del Cervino. Era la quadratura del cerchio: sciare, sì, ma come al mare, approfittando dei ghiacciai «eterni» e delle nevi «perenni»; unire estate e inverno in un sogno folle; aggiungere il sale dell’erotismo a una disciplina vestita e abbottonata come lo sci.
Quando arrivano gli anni Novanta del Novecento per lo sci estivo comincia il declino irreversibile. Sono cambiati i gusti degli sportivi e sciare in estate non è più cosa alla moda; è aumentata la concorrenza dei viaggi esotici e delle mete lontane; si è ridotto il manto nevoso, penalizzato dalle estati sempre più calde e dallo sfruttamento troppo intensivo della neve. D’estate i cannoni non funzionano a causa delle alte temperature e i patetici lenzuoli stesi sui nevai per proteggere l’oro bianco non sono altro che palliativi.
Per ironia della sorte, o forse per nemesi storica, i ghiacciai più in difficoltà sono quelli su cui gli alpini e i soldati del kaiser combatterono la Guerra Bianca del 1915-18: il ghiacciaio del Presena presso l’Adamello e il ghiacciaio della Marmolada nel cuore delle Dolomiti. Il ghiaccio era rosso anche allora, ma di sangue, e anche oggi si combatte, ma per un fazzoletto di neve.
Orizzonti turistici
In due secoli il turismo ha rivoltato le Alpi dal punto di vista fisico e culturale, con un processo tutt’altro che lineare. Dalla scoperta pionieristica dell’Ottocento, spesso intrecciata con l’alpinismo, si è passati alle elitarie villeggiature del primo Novecento, agli attendamenti popolari del Ventennio, alle prime stazioni moderne e alla diffusione di massa dello sci, il rivoluzionario attrezzo che rovesciando il paradigma della montagna anticipa l’edonismo alpino e lo sfruttamento industriale degli anni Sessanta e Settanta. L’ulteriore trasformazione turistica di fine Novecento ci porta alla situazione attuale, che nonostante la crisi economica e i cambiamenti climatici vede le Alpi sempre in testa alle mete mondiali. Le statistiche dell’OCSE calcolano tra i sessanta e gli ottanta milioni di turisti l’anno, mentre la Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi valuta cento milioni, che nelle settimane di punta equivalgono a quasi dieci volte il numero dei residenti. L’impatto è sempre più notevole e l’indotto ammonta a circa cinquanta miliardi di euro annui.
Già negli anni Ottanta del Novecento qualche illuminato metteva in discussione il modello intensivo del turismo alpino, stigmatizzando l’invasione dei motori alle alte quote, l’inquinamento atmosferico e acustico, l’impoverimento culturale, le pesanti infrastrutture e l’impianto edilizio d’ispirazione urbana. La Convenzione europea delle Alpi del 1991 metteva in guardia sullo sviluppo insostenibile, rivalutando il patrimonio ambientale della montagna estiva e invernale. Oggi si fanno i conti con le illusioni e gli errori del passato. Grazie alla nuova consapevolezza ecologica, si scopre che il turismo alpino funziona solo nelle località in cui è stato pensato, gestito, orientato e contenuto. L’industria turistica può permettersi un cauto ottimismo precisamente nei luoghi in cui ci si è presi cura del territorio e non si è investito su un unico modello di sfruttamento, preparandosi così al cambiamento climatico, alle estati calde, alla riduzione della neve e alla fusione dei ghiacci.
Nella primavera del 2013 la Quarta relazione sullo stato delle Alpi, a cura del Segretariato della Convenzione alpina, ha confermato che «le Alpi sono tra le regioni turistiche europee più forti, ma si trovano a un bivio: l’impatto del turismo di massa sull’ambiente (l’84 per cento dei visitatori si sposta in automobile), la ‘piaga’ delle seconde case, la crisi congiunturale e l’innalzamento delle temperature che minaccia di stroncare lo sci a media quota mettono a rischio il futuro». Anche se gli operatori troveranno il modo di adattarsi al riscaldamento globale, e non hanno altra scelta, il turismo montano non sarà mai più quello del Novecento, come confermano sulla rivista dei «territorialisti» italiani i climatologi Daniele Cat Berro e Luca Mercalli:
Se da un lato la riduzione della copertura glaciale e dell’innevamento renderanno meno attraenti diverse regioni montuose, con ripercussioni in particolare sul turismo invernale legato allo sci, che si trova peraltro di fronte all’insostenibilità economica e ambientale dell’innevamento programmato, nuove opportunità sono all’orizzonte: conversione dell’offerta verso attività alternative quali l’escursionismo, l’equitazione, il turismo culturale e l’agriturismo, che tenga conto di modi più maturi di vivere il paesaggio e la cultura alpina.
I due esperti della Società Meteorologica Italiana ipotizzano che il turismo estivo potrebbe avvantaggiarsi considerevolmente nella nuova congiuntura climatica quando dalle città arroventate «le persone saliranno verso luoghi freschi in cui vivere, lavorare o riposarsi, con possibilità di rivitalizzazione del tessuto sociale alpino». Inversamente a quanto avvenne nella seconda metà dell’Ottocento con l’«invenzione» turistica dell’inverno e degli sport della neve, è molto probabile che l’estate torni a essere la stagione di punta.