Introduzione.
Forma scultorea e durata effimera

Se dovessi spiegare che cos’è il ghiaccio sceglierei un’alba in alta montagna, precisamente l’attimo prima dell’alba, quel momento inafferrabile in cui non è più notte e non è ancora giorno. Sul ghiacciaio si posa una mano gelata, le stelle sbiadiscono, la montagna tace e un soffio di vento restituisce la luce. Per i fotografi è l’attimo verde-blu, che è il colore del ghiaccio; per gli alpinisti è un lampo gelido, e corrisponde alla temperatura del ghiaccio; per gli artisti è creatività allo stato puro, la forma del ghiaccio.

Tuttavia, poiché pochi hanno avuto la fortuna di assistere alla nascita del giorno sulla pelle di un ghiacciaio ma quasi tutti hanno sfogliato un testo di geografia o un libro di avventure, l’immaginario dei più attribuisce al ghiaccio e ai ghiacciai altri significati: materia misteriosa e repulsiva, luogo selvaggio e inospitale, avamposto isolato, confine estremo, capolinea del mondo e della vita. Per lungo tempo i paesaggi ghiacciati e le relative esplorazioni sono stati associati a gesti temerari e sfide eroiche, odissee polari, vertigini alpine e conquiste himalayane. Se si escludono la fama leggendaria degli eschimesi, la stravaganza dell’igloo che i bambini disegnano a scuola e forse qualche ammaccatura – chi più chi meno – ricavata in maldestri tentativi di pattinaggio amatoriale, sembra che tra l’uomo contemporaneo e il ghiaccio si sia frapposta una distanza colmabile solo con la fantasia o la temerarietà, come se il ghiaccio incorporasse i significati più distanti dal vivere civile e domestico, e dunque ci appartenesse soltanto in opposizione alle certezze del buon senso e alle acquisizioni del benessere.

Nell’ultimo decennio l’immaginario è profondamente cambiato. Da quando gli scienziati ammoniscono l’umanità sulle conseguenze dell’effetto serra e nelle case, nelle scuole e nelle piazze la gente discute di riscaldamento globale, il ghiaccio è diventato il simbolo della materia preziosa ed effimera. Vedendo gli orsi polari che vanno alla deriva sulle zattere di ghiaccio, guardando gli iceberg che si disfano come castelli di carta, anche le persone distratte si sentono coinvolte e la paura e la presa di distanza di un tempo lasciano il posto allo stupore, all’identificazione e addirittura al rimpianto verso una meraviglia della natura che era nostra e forse non lo sarà più. Perché il ghiaccio è il termometro più visibile del cambiamento climatico e la fulminea fusione del ghiaccio e dei ghiacciai è la rappresentazione più inequivocabile dello squilibrio ambientale. In pochi anni la vecchia immagine del ghiaccio crudele e vendicatore è stata sostituita dall’idea di una cosa fragile che scompare senza lasciare traccia.

La prima magia del ghiaccio consiste esattamente in questo: incanto e caducità. L’acqua gelata genera solidi dalle infinite forme che crescono, si modificano, si uniscono, si separano, e infine fondono e scompaiono con il calore. La durata effimera del ghiaccio, la sua capacità di svanire come se non fosse mai esistito, è un processo così straordinario da accendere la fantasia degli artisti e degli scrittori romantici, e non solo. «Dio mio, se io avessi un cuore, scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei l’uscita del sole», scrive il messicano Johnny Welch in Lo que me ha enseñado la vida.

Gli autori di racconti e romanzi «gialli» hanno utilizzato l’incantesimo del ghiaccio per costruire trame di suspense. Almeno due schemi ricorrenti attraversano il genere. Nel primo, un uomo viene trovato impiccato in una stanza vuota e chiusa dall’interno. Nella stanza non ci sono sedie, non c’è niente. Come ha fatto l’uomo a togliersi la vita? Nella seconda storia gli investigatori trovano il corpo di una donna autopugnalatasi a morte, ma non c’è traccia del pugnale. Come ha potuto la poveretta uccidersi a mani nude senza alcun aiuto esterno? Entrambe le soluzioni sono di ghiaccio: infatti l’uomo è salito su un blocco di ghiaccio prima di passarsi il cappio intorno al collo e la donna si è uccisa con un pugnale di ghiaccio. Evidentemente il blocco e il pugnale, fondendo, hanno cancellato le tracce.

Anche nel teatro ha trovato spazio la simbologia del ghiaccio. Una delle rappresentazioni più potenti e innovative di fine Novecento, l’Amleto di Eimuntas Nekrošius, si basa su folgoranti effetti, tra cui il gelido lampadario che domina una scena boreale, disperata e feroce. Il regista lituano ha voluto espressamente collocare il monologo dell’«Essere o non essere» sotto un candelabro di cristalli di ghiaccio il cui stillicidio accentua la solitudine di Amleto, Ofelia e dello stesso re Claudio. «Essere o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine.» Il lento sgocciolare del ghiaccio che perde luce e lineamento segna l’inquietante dilemma dell’uomo moderno.

Seconda magia del ghiaccio: alla caducità della materia si contrappongono la durata, la persistenza e il potere conservativo. Da una parte la candela che si consuma al sole, dall’altra il relitto gelato fossile, duro come la pietra. Un corpo di ghiaccio può nascere e morire in poche ore, può trasformarsi in forme fantasmagoriche e plastiche, ma può anche resistere al buio per decine e decine di millenni. Basti pensare alle carote di ghiaccio dell’Antartide, che entro il 2025 ci restituiranno un campionamento del clima terrestre di un milione e mezzo di anni, oppure all’eccezionale ritrovamento, nel 2016, di due cuccioli di caribù e lupo mummificati nel ghiaccio dello Yukon da quasi cinquantamila anni, ovvero dall’epoca dell’Uomo di Neanderthal. La materia più effimera e volubile che esista al mondo è allo stesso tempo un forziere della natura, il più affidabile frigorifero del pianeta e l’insostituibile archivio dell’evoluzione terrestre. Il ghiaccio contiene l’acqua, la luce e la storia.

Il colore del ghiaccio tende all’azzurro e allo smeraldo. Quando un fotografo ritrae la neve e il ghiaccio ottiene quasi sempre una dominante blu. Se una parete è tappezzata di ghiaccio vetroso gli alpinisti dicono «ghiaccio verde». L’esploratore di ghiacci groenlandesi Robert Peroni sostiene che il ghiaccio incorpori i colori della natura che incontra:

quello che ho sempre amato del ghiaccio è la sua totale disponibilità nei confronti del prossimo. Se gli mettiamo dietro una roccia, ne prende il colore; se racchiude dei fiori, ne assorbe il profumo e il sapore. Il ghiaccio sa che l’altro lo renderà migliore, quindi non si oppone, non critica, accoglie il diverso dentro di sé e lo esalta. Questo è anche l’atteggiamento degli Inuit...

Il ghiaccio ha un suono di cristallo. L’artista americano Tim Linhart, che dalle sculture di ghiaccio è passato ai violini e ai violoncelli, e ogni inverno tiene concerti di ghiaccio sul Presena dell’Adamello, ha scoperto che le forme cristalline sprigionano una gamma di suoni «profondi, delicati, armonici, caldi e intensi... Il ghiaccio ha voce angelica».

Invece il suono della neve è una specie di non suono, almeno secondo il biologo Bill Streever:

se si colpisce un tamburo l’aria sottostante viene compressa e rilasciata. Quando si parla le corde vocali comprimono l’aria nella laringe che poi si muove verso l’esterno in un’onda. Le onde sonore che viaggiano nella neve aumentano momentaneamente la pressione dell’aria, spingendola nei pori tra i fiocchi di neve e i cristalli di ghiaccio. Quando la pressione delle onde cala, l’aria esce dai pori... Dentro e fuori, da cento a ottocento volte al secondo, e a ogni passaggio perde energia. La neve ha inghiottito il suono.

Il ghiaccio riverbera i suoni e la neve li inghiotte. Può essere un punto di partenza, ma esistono svariate forme di ghiaccio e quasi infinite configurazioni di neve. Le molte storie e i moltissimi ambienti raccontati in questo libro illustrano la ricchezza e la complessità del tema e chiariscono che il ghiaccio si manifesta in luoghi, figure e contesti eccezionalmente differenti. Escludendo il ghiaccio e la neve prodotti artificialmente dall’uomo e concentrandosi sulla criosfera, cioè sulla superficie terrestre coperta dall’acqua allo stato solido, il nostro racconto riguarda le coperture gelate dei mari, dei laghi e dei fiumi, le coperture nevose delle montagne, i ghiacciai e le calotte polari, senza trascurare il suolo ghiacciato in modo perenne, detto «permafrost», che è un importante indicatore del cambiamento climatico. In altre parole, si viaggia per sterminate superfici bianche, si scalano giganteschi iceberg galleggianti sui mari, si pattina sulla crosta ghiacciata dei fiumi nordici e ci si infila in meandri di ghiaccio oscuro e repulsivo, esplorando i crepacci, le bocche dei ghiacciai e i misteri della terra incollata dal gelo. Oppure, affinando lo sguardo, ci si sofferma sulla luce vetrosa di una stalattite di ghiaccio, sulla sfumatura celeste di un seracco d’alta montagna o sulla stupefacente complessità di un cristallo di neve.

Fatto salvo l’elemento di base, cioè l’acqua sotto gli zero gradi centigradi, il racconto oscilla tra il gigantesco e il microscopico. La qualità e la varietà del ghiaccio non dipendono dalla dimensione dell’oggetto ma dalla temperatura e dall’umidità che lo generano, così che le figure e le trasparenze della materia, le fantasie, i colori, perfino i suoni, sono presenti tanto nelle sconfinate lande polari quanto nelle microformazioni architettate accidentalmente dal gelo, che in natura si manifesta in forma di ghiaccio, neve, brina, galaverna, gelicidio e calabrosa. A ogni variante corrisponde una gamma di paesaggi diversi in base alla temperatura e all’umidità, ma anche all’insolazione, alla latitudine, all’influenza del vento e, non ultima, all’azione dell’uomo. Si tratta insomma di un mondo meravigliosamente vario, misteriosamente fuggevole e drammaticamente fragile, che gli uomini hanno imparato a temere e ammirare nel corso dei millenni, con cui si sono adattati a convivere, lottare e patteggiare, infine a godere e sfruttare fino a comprometterne l’esistenza. In ogni caso il ghiaccio ha accompagnato e condizionato il destino dell’umanità.

Per esempio le ondate di freddo, le bufere di neve e il terreno gelato hanno cambiato le rotte delle invasioni e condizionato le sorti delle guerre, fin dai tempi di Alessandro Magno, tre secoli prima di Cristo, quando storia e mito narrano che una nevicata frenò la marcia del capo macedone verso l’India. Nell’inverno del 1572 il gran gelo aiutò gli archibugieri olandesi a beffare con i pattini da ghiaccio l’esercito spagnolo. A metà maggio del 1800 la neve e il ghiaccio ostacolarono seriamente la discesa di Napoleone in Italia attraverso il Colle del Gran San Bernardo, costringendo il generale Marmont a impiegare slitte e tronchi d’albero per trasportare i pezzi dei cannoni, e l’armata a marciare di notte per evitare le valanghe.

In pieno Novecento, durante la prima guerra mondiale, la neve e il ghiaccio trasformarono il fronte alpino austro-italiano in una frontiera dai caratteri himalayani. Il ghiaccio, la neve e le basse temperature furono i nemici più seri da combattere nel corso della Guerra Bianca. L’abilità alpinistica, l’abitudine ai rigori della montagna e la capacità di sopravvivenza dei soldati contarono assai più delle armi e delle strategie. La storia si ripeté nella seconda guerra mondiale con la tragica ritirata di Russia, quando le tormente, la fame e il gelo siberiano annientarono la resistenza dei giovani militari allo sbaraglio:

Non ho il coraggio di parlare ai miei compagni di case, di vino, di primavera – scrive Mario Rigoni Stern in Il Sergente della neve –. A che gioverebbe? A buttarsi sulla neve e dormire e sognare queste cose e poi svanire nel nulla, nel niente, e sperdersi, sciogliersi con la neve a primavera nell’umore della terra.

In tempo di pace il ghiaccio ha condizionato le rotte dei commerci navali dall’estremo nord al più selvaggio sud del pianeta, il ghiaccio ha ispirato nuove architetture e prodotto futuristiche tecnologie, il ghiaccio ha modificato gli stili di vita dei popoli del freddo generando adattamenti e risposte geniali, e attrezzi risolutivi. I ghiacciai e le distese polari, descritti come le ultime macchie bianche del pianeta, hanno acceso le sfide dell’esplorazione difendendo le frontiere della geografia e soffiando sul mito dell’ultima Thule.

Oltre il confine della conoscenza svanivano le certezze della scienza e iniziavano le visioni degli avventurieri. Nell’estrema Thule si perdevano gli occhi stanchi e consumati, ma non sazi, di Jorge Luis Borges e del suo Elogio dell’ombra: «A studiar presi il linguaggio di ferro che usarono i miei antichi per cantare solitudine e spade...». A partire dai pittori fiamminghi, spaziando dall’Europa agli altri continenti, il ghiaccio e la neve ridisegnavano panorami di mondi e persone. Il tema del ghiaccio allargava i margini dell’arte e della letteratura contemporanee, ispirando la pittura romantica, la fotografia ottocentesca e il cinema del Novecento, scavando in profondità paesaggi sconosciuti e sentimenti nuovi. «Vi aleggiava un cenno di risata, ma una risata più terribile di ogni tristezza: una risata senza gioia come il sorriso della sfinge, una risata fredda come il gelo...», tratteggia lo scrittore avventuriero Jack London nell’incipit di Zanna Bianca, celebrando il mito del Grande Nord.

Se è forse eccessivo ipotizzare uno sguardo trascendente di natura «boreale», certamente è esistita ed esiste una spiritualità del gelo. O almeno un’intimità. «Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno – sogna Dino Buzzati – e, stretti assieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.» Nella continua ambivalenza tra attrazione e rifiuto, interesse e distacco, amore e terrore, la storia tra l’uomo e il ghiaccio affianca la «calda» metafora dell’inverno a immagini e significati inesorabilmente negativi – cuore di ghiaccio, sguardo di ghiaccio –, sottolineandone la natura ambigua. Di lì il fascino, e l’attualità senza tempo.