XXII.
Hielo Patagonico

«Cercansi uomini forti per lungo viaggio su piccola barca. Nessuna paga, nessuna prospettiva, poco divertimento».

L’esploratore britannico Harold William «Bill» Tilman, leggendario scalatore himalayano tra le due guerre e amico dei partigiani bellunesi durante la seconda guerra mondiale, ama reclutare i compagni di viaggio con un trafiletto infilato tra gli annunci del «Times». Il vecchio Bill promette ai navigatori «nessuna paga e poco divertimento», e non lo fa per sfottere i destinatari del messaggio. Piuttosto per non illuderli. E anche per non tradire se stesso. Ha sempre affrontato il mondo by fair means. Le sue avventure sono state austere e sottotono, inversamente agli obiettivi. C’è chi l’ha sentito affermare che una spedizione possa essere programmata sul retro di una busta; in casi eccezionalmente complicati, su un foglio di carta. Eppure Tilman ha tentato l’Everest e ha scalato il Nanda Devi.

Tilman condivide la filosofia di Eric Shipton, compagno per molti anni, ed Eric scrive che Bill

era un uomo che non si tirava indietro davanti a nulla, sempre pronto ad accettare qualunque scomodità e privazione; anzi, i suoi gusti ascetici mi facevano sentire un vero sibarita... Era un tipo schivo e misogino, che non mostrava alcuna inclinazione per i piaceri della vita: basti pensare che non era mai entrato in un cinema. Mostrava per contro grande sensibilità e compassione per gli animali e possedeva un frizzante senso dell’umorismo.

A cinquantasei anni Tilman sa di non poter più aspirare alle grandi montagne ma ha sempre un’inestinguibile voglia di viaggiare: «Io sentii che la vita aveva poco di meglio da offrire che camminare giorno dopo giorno in un paese sconosciuto verso un obiettivo irraggiungibile». Di recente ha scoperto la barca a vela e ha comprato un giallissimo cutter di quattordici metri, con il quale progetta di fare «dell’alpinismo anfibio».

La barca si chiama Mischief e ha solo otto anni meno del nuovo proprietario, e come lui ha bisogno di cure per tenersi giovane e avvicinarsi al primo obiettivo: i fiordi della Patagonia. Tilman e Mischief partono nel 1955 e con un piccolo equipaggio di marinai attraversano l’Atlantico e lo Stretto di Magellano, permettendosi due scali alle Canarie e in Uruguay. Quando raggiungono il Pacifico e le coste cilene si separano. Lasciati nave ed equipaggio in un fiordo profondo, a metà dicembre Tilman si veste da esploratore, prepara gli zaini e la slitta e si avventura su una promettente lingua di ghiaccio con il connazionale Charles Mariott, alpinista, e lo studente di ballo cileno Jorge Quinteros.

La regione è così remota che molti ghiacciai sono ancora senza nome; Tilman ne battezza uno: il ghiacciaio Calvo. Sulla slitta i tre uomini trasportano due mesi di provviste, segno che festeggeranno il nuovo anno sul ghiaccio. Presto mettono piede sulla sterminata distesa dello Hielo Continental Sur, la calotta gelata patagonica che si estende per oltre trecento chilometri dal Canal Baker al Seno Ultima Speranza del Canal Unión.

Il manto di ghiaccio ricopre quasi interamente i sistemi orografici interni della Cordigliera – osservano Gino Buscaini e Silvia Metzeltin, specialisti della Patagonia –. I pochi affioramenti rocciosi che ne emergono a guisa di isolotti vengono anche qui denominati con il termine eschimese di nunatak, il cui uso è abituale presso i glaciologi.

I rilevamenti aerei americani del 1944-45 hanno chiarito alcuni dubbi geografici sfoltendo le macchie bianche sulle mappe, tuttavia a metà degli anni Cinquanta lo Hielo resta una delle regioni più selvagge e inesplorate del pianeta. Per molti versi è simile alle superfici polari, anche se le temperature sono più alte e le condizioni atmosferiche probabilmente sono peggiori, a causa dei famigerati venti. Nessuno l’ha ancora attraversato da ovest a est, mentre padre Alberto Maria De Agostini s’è affacciato dalla parte opposta moltissimi anni prima scoprendo un mondo.

Padre De Agostini

Il missionario salesiano di Pollone è uno dei pionieri indiscussi dell’esplorazione patagonica. Nei lontani anni Venti del Novecento il sacerdote piemontese punta già ad avventurarsi all’interno della Cordigliera perché ha contratto il «mal di Patagonia» e pensa ogni giorno alle cime immacolate, ai ghiacciai raschiati dal vento e ai graniti scolpiti e bianchi, segno evidente della bellezza di Dio. Senza tradire sentimenti poetici, ogni volta che punta gli occhi all’orizzonte padre Alberto si chiede come possa il vento della Patagonia ricamare con tanta cura il ghiaccio sulle rocce, al punto che non sembrino più roccia.

Missione pastorale a parte, De Agostini non è un carattere facile. Il sacerdote fa il suo mestiere ma l’uomo non è incline alla collaborazione e all’amicizia. Ha modi discutibili e da convinto patriota non esita a battezzare i luoghi che incontra con toponimi italiani: catena Roma, ghiacciaio Italia, eccetera. Per le spedizioni preferisce avvalersi di guide pagate piuttosto che costruire rischiose relazioni umane. In questo modo nel 1930 mette insieme un’équipe d’indubbia esperienza, facendo arrivare da Courmayeur le guide del Monte Bianco Evaristo Croux e Léon Bron e arruolando nel gruppo Egidio Feruglio, un udinese che lavora per i giacimenti petroliferi di Comodoro Rivadavia ed è interessato ai rilevamenti geologici. I quattro partono prima di Natale da Rio Gallegos, diretti al Lago Argentino.

L’inverno australe è stato particolarmente crudele e le temperature sono scese fino a trentadue gradi sotto lo zero. Sempre attento agli usi delle popolazioni locali, padre Alberto annota che «la copiosa neve ha cagionato la morte di migliaia di pecore, i cui corpi vediamo infatti ammonticchiati dai pastori qua e là nella pianura, pronti per essere bruciati».

Il 5 gennaio 1931 gli italiani scalano il monte Mayo, «il gigante andino che erge quasi verticalmente la sua piramide per oltre duemila metri sopra le acque del Lago Argentino». Dalla cima De Agostini verifica l’arretramento dei ghiacciai patagonici:

Al termine del fiordo trabocca dall’interno della Cordigliera il ghiacciaio Mayo, che cinge il fianco sud-ovest del monte. La sua lingua ghiacciata, che in epoca non molto lontana doveva giungere fino al lago, si trova ora a circa un chilometro dallo stesso. Il tratto di terra che separa il ghiacciaio dal lago è formato da depositi morenici, dentro i quali scorre un torrente glaciale.

Più avanti gli alpinisti ammirano il ghiacciaio Moreno, che De Agostini definisce

una massa di cristallo scintillante di niveo candore, imperlata di riflessi verde-turchino, che scende maestosamente dalla Cordigliera come un immenso fiume di ghiaccio, tutto dentellato di giganteschi seracchi simili alle guglie e ai pinnacoli di una cattedrale gotica, che produce nel viaggiatore un senso profondo di stupore, meraviglia e timore... Nel lento movimento del ghiacciaio, la gran mole di ghiaccio, come sospinta da una mano poderosa, invisibile, si spezza, si sgretola con sordo crepitio e scarica sul lago le sue piramidi di alabastro.

Il 24 gennaio 1931, assistiti dal bel tempo, gli italiani affrontano la traversata del tormentato ghiacciaio Upsala; il 26 montano le tende su un ripiano erboso sulle pendici moreniche del monte Cono, dove De Agostini s’impegna a classificare «alcuni arbusti tra cui una bella composita Chiliotrichum amelloides costellata da graziosissime margherite bianche, un’ericacea dalle foglie spinose e costellate di bacche rosse, dolciastre, e altri fiori delicati che contrastano con lo squallore del paesaggio». Il 27 gennaio il tempo cambia e per una settimana «il vento e la pioggia si alternano giorno e notte con incredibile costanza». L’uragano colpisce senza sosta le tende, come se il motore di un turbogetto di nuovissima invenzione rovesciasse vortici d’aria sull’accampamento.

Per fortuna il 5 febbraio la bufera si placa, il cielo schiarisce, le creste si puliscono e la lancetta del barometro cambia direzione. Con la pressione atmosferica sale la fiducia degli uomini: forse si può ripartire. Nella notte i quattro naufraghi ritrovano anche la luna che era sparita dietro le nuvole, «che diffonde i suoi raggi sull’immenso anfiteatro di vette e di ghiacciai e ben si accorda con la quiete sovrana che è piombata di colpo su quel tempestoso regno». Con la testa e i timpani ancora squassati dall’urlo del vento, gli alpinisti riescono finalmente a rilassare i nervi e riposare. Il 6 febbraio rimettono piede sul ghiacciaio e puntano risolutamente a un colle senza nome, impazienti di scoprire che cosa ci sia oltre la cresta.

L’altipiano sospeso

Dietro il colle De Agostini si aspetta altre catene e altre valli, invece scopre con sorpresa

un vastissimo altipiano di ghiaccio in direzione nord-sud, a mezzodì di una elevata catena di montagne a cui diamo il nome di catena Roma. A occidente emergono in lontananza alcune candide vette: sono i baluardi occidentali della Cordigliera, che stendono le loro basi sulle acque del Pacifico. La scoperta di questo immenso altipiano ghiacciato, che noi denominiamo Italia, ci riempie di contentezza, tanto più che ci sorride più sicura la speranza di raggiungere i canali patagonici...

A misura che ci inoltriamo il paesaggio si fa sempre più severo e assume l’aspetto di una regione prettamente polare... Quantunque sbarrato da catene di monti, il grande mantello di ghiaccio e neve continua ininterrotto il suo corso, risalendo le vette, dilatandosi in altri estesi ripiani, per poi traboccare in ogni direzione.

Più che soddisfatto di aver valicato lo spartiacque della Cordigliera scoprendo un inaspettato oceano di ghiaccio, padre De Agostini rinuncia ad attraversare l’altipiano e ritorna sui suoi passi dopo aver salito con le guide una cima minore. Forse l’impresa non era matura, forse non lo erano gli uomini del 1931.

Passano venticinque lunghissimi anni prima che arrivino Tilman, Mariott e Quinteros dalla parte opposta. Li abbiamo visti salutare la barca Mischief e i compagni di mare prima di avviarsi sul ghiaccio con la slitta e le zavorre. Il 1955 ha lasciato il posto al 1956. In quaranta giorni di lavoro duro i tre esploratori cercano e trovano un varco sopra il fiordo Calvo, entrano nello Hielo Continental, lo attraversano in circa dieci giorni da ovest a est e raggiungono le acque del Lago Argentino, a eccezione di Mariott che si ferma all’ultimo campo. In riva al lago il compassato Tilman si spoglia, si getta nell’acqua gelida, esce dall’acqua, si asciuga, si riveste ed è pronto a tornare indietro. Con un cammino in senso contrario i tre uomini ritrovano la Mischief sulla sponda del fiordo.

Superata una frontiera se ne apre un’altra. Dopo il viaggio di Bill Tilman l’incognita non è più salire sull’altipiano, e neppure attraversarlo. La nuova sfida è percorrere la calotta glaciale nel senso lungo, «nuotando» in alto mare, in mezzo all’oceano gelato. Ci pensa il vecchio compagno d’avventure di Tilman, Eric Shipton, che a sua volta ha scoperto la Patagonia e ha perso la testa per lo Hielo e i suoi misteri. In un certo senso Shipton s’è perso prima di partire:

Dopo aver rimuginato a lungo e con lo stato d’animo di chi, non sapendo nuotare, sta per tuffarsi nella parte più profonda della piscina, decisi di tentare la traversata della calotta meridionale da nord a sud. Poiché si trattava di partire dalla costa disabitata del Pacifico, la prima difficoltà era l’itinerario: bisognava trovare e risalire una valle che ci consentisse di raggiungere il margine settentrionale del plateau. Una volta arrivati sul plateau, i maggiori problemi sarebbero diventati il clima e la rotta.

In ghiaccio aperto

Questa volta gli esploratori dello Hielo Continental meridionale sono quattro: due britannici, cioè lo stesso Shipton e Jack Ewer che l’ha accompagnato in perlustrazione l’anno precedente, e due cileni che rispondono ai nomi di Eduardo Garcia e Cedomir Marangunic. Cedomir è un mineralologo e si caricherà di pietre durante il cammino.

I quattro uomini trasportano cinquecento chili di materiale, compresa una quantità di viveri che si assottiglierà con il passare dei giorni; come Tilman portano la slitta e non usano gli sci.

Partono dal fiordo Calén alla fine del 1960, incontrando una delle estati australi più inclementi del secolo. Sono completamente soli nella landa patagonica «con duecentotrenta chilometri di montagne accidentate da attraversare, senza conoscere l’itinerario per raggiungere il plateau e senza possibilità di ritirata». Avventura totale. Le prime settimane sono estenuanti perché devono trasportare il peso oltre la zona accidentata, caricandosi come muli e ripetendo più volte il percorso. Per giunta Shipton si ustiona un piede con il fornello e deve fermarsi una settimana. Finalmente il 28 dicembre, tre giorni dopo Natale, arrivano sul bordo dell’altipiano innevato e approfittano dei primi due giorni di bel tempo per fare strada, poi la bufera ricomincia e devono affidarsi alla bussola come ciechi.

All’inizio non riuscivamo a tirare la slitta per più di dieci minuti senza fermarci a riprendere fiato, ma con il passare dei giorni le nostre prestazioni migliorarono fino ad arrivare a venti minuti filati senza soste. Al primo toccava la maggiore fatica, perché oltre a tirare la slitta doveva fare la traccia nella neve molle e contemporaneamente tenere d’occhio la bussola.

Procedono in un limbo bianco di neve, con il latte del cielo sopra la testa, il grigio della nebbia davanti agli occhi e la nenia nauseabonda del vento nelle orecchie. Prima ancora di perdere la strada ci sarebbe da perdere la ragione se gli uomini di Shipton non riuscissero a mantenersi calmi e fiduciosi. In fondo basta fare un passo dopo l’altro durante il giorno e un bivacco dopo l’altro la notte. C’è molto understatement nel loro cammino.

Il 2 gennaio «avvistano la terra», annota Eric nel diario. Dalla nebbia emerge una parete rocciosa che sembra la quinta di un palcoscenico ed è uno spettacolo eccezionale per chi non ha ancora visto niente. Nessun paesaggio, nessuna meta. Due ore dopo la tormenta ruggisce di nuovo e per molti giorni non vedono altro. Per la prima volta disperano.

Stavamo cominciando a dubitare della correttezza della rotta quando l’8 gennaio la nebbia si diradò rivelando una massa scura alquanto più avanti, in cui Jack e io riconoscemmo, prima con qualche dubbio, poi con crescente certezza, il nunatak che avevamo raggiunto l’anno precedente. Ci invase un sentimento di meraviglia ed esultanza nel constatare come dopo quel lungo volo cieco in cui non avevamo mai potuto verificare la posizione, la nostra prima meta si trovasse davanti a noi.

La seconda metà del viaggio scorre più serenamente della prima e il gruppo di Shipton gode perfino di qualche giornata di sole. Riprendono fiducia, scherzano, scalano qualche cima e si gustano il paesaggio della Patagonia. Dopo due mesi sono di casa sul ghiacciaio. Se chiudono gli occhi possono credere di essere nati, cresciuti e vissuti in mezzo al ghiaccio dello Hielo, se li aprono vedono le creazioni del vento. È come camminare in una galleria d’arte in cui ogni mattina il gallerista perfeziona l’esposizione.

I venti incessanti e carichi di umidità creano intensi accumuli di brine che scendono come bianche cortine sulle pareti verticali, formando immense cornici sul lato sopra vento delle creste e un universo di forme irreali e bizzarre, con guglie e funghi giganti, e doccioni aggettanti decorati di fiori di ghiaccio. Visto da lontano è uno scenario bellissimo; trovarsi dentro è favoloso.

Cinquantadue giorni dopo la partenza escono dall’altipiano per il ghiacciaio Upsala e si godono il primo sonno da cristiani all’estancia Cristina.