VII.
Al limite della vita:
pionieri dei poli
In capo al mondo Fridtjof Nansen fa il passo decisivo: si affida al ghiaccio. Invece di lasciarsi terrorizzare dal naufragio della nave statunitense Jeannette, affondata al largo della costa siberiana nel 1881 e trasportata dalla crosta gelata attraverso il Mar Glaciale Artico, il norvegese pensa che sia più saggio prendere lezione dalla disgrazia e decide di sfruttare le correnti artiche. Nessun calcolo può garantirgli che i ghiacci navighino con andamento costante, ma Nansen, da esperto oceanografo e intraprendente esploratore, si fida delle leggi di natura. Ecco dunque la folle idea: se la Jeannette è arrivata sull’altra sponda senza spiegare le vele non serve rompere il ghiaccio per andare a nord; è molto più intelligente farsi imprigionare e trasportare dal mare gelato.
A Nansen serve solo una nave che resista alla pressione della banchisa. Costruisce un vascello dai fianchi convessi e sfuggenti e lo battezza Fram, che in norvegese vuol dire «Avanti». La nave, una specie di anguilla capace di sgusciare sul ghiaccio, è armata a spese dello stato e del re, e comandata dal capitano Otto Sverdrup.
Il Fram lascia il porto di Kristiania alla fine di giugno del 1893 con dodici uomini di equipaggio, fra cui Sverdrup e il luogotenente Johansen. Naviga senza incidenti oltre il delta della Lena e quando è vicina alle isole della Nuova Siberia punta a settentrione, finché il 25 settembre viene sigillata dai ghiacci. È andato tutto secondo le previsioni, ma purtroppo la corrente non si comporta come Nansen ha sperato; al contrario trascina la nave a sud-est e dopo settimane di deriva i naviganti scoprono di essere più o meno nel punto dal quale sono partiti, poi pare che le correnti mettano giudizio, poi le peregrinazioni ricominciano. Per mesi e mesi il Fram li conduce in sterili giravolte e perdite di direzione, e dopo un anno hanno guadagnato solo centocinquanta chilometri.
Il viaggio è snervante e disperante come la fatica di Sisifo, ma Nansen e i suoi uomini cercano di viverlo con ottimismo. D’altra parte comanda il mare e bisogna adattarsi. E divertirsi, se possibile. Nei giorni festivi Fridtjof fa servire dei pranzi appetitosi; si gioca alle carte, si beve, si conversa e si fuma, senza dimenticare le osservazioni scientifiche; così i mesi trascorrono. Alla fine le correnti trascinano il Fram a circa 84° di latitudine nord. Allora Nansen e Fredrik H. Johansen decidono di abbandonare la nave: il 15 marzo 1895, a mezzogiorno, si mettono in cammino con le slitte, i cani, i fucili, gli sci e due leggere imbarcazioni eschimesi in grado di galleggiare sull’acqua: i caiachi. Risalgono verso il Polo finché il ghiaccio non si spacca a dismisura, costringendoli ad arrestare la marcia:
Il ghiaccio si fa sempre più impraticabile... Partimmo ieri verso le due antimeridiane e proseguimmo il più possibile, sollevando senza posa le slitte, ma dovemmo fermarci sfiniti. Andai in esplorazione con gli sci ma non riuscii a trovare un passaggio praticabile. Dalla cima di un cumulo di ghiaccio non vidi altro che un caos di blocchi gelati fino all’orizzonte. Era una follia persistere nel proposito...
Quanto è lungo tornare a casa
Sono letteralmente alla deriva, abbastanza distanti dal Polo e troppo lontani dalla nave. Trangugiando ragù di pemmican e patate, il 7 aprile misurano una temperatura di 36 gradi sotto lo zero e calcolano 86° 13’ di latitudine nord, record mai toccato da piede umano. Ormai è impossibile tornare al vascello, ma esiste un luogo misterioso, la Terra di Petermann, che le mappe indicano addirittura più a nord della Terra di Francesco Giuseppe. Non c’è mai stato nessuno, ma deve esistere se le carte la disegnano. Nansen e Johansen puntano a sud e iniziano la più incredibile marcia verso un segno di vita umana, senza mai perdere la speranza.
Di giorno gli abiti gelano addosso agli esploratori e di notte il ghiaccio fonde nei sacchi letto procurando un bagno gelido. Sono rimasti in vita solo tre cani, scarseggiano le provviste e il disgelo primaverile rende il ghiaccio sempre più insicuro. Non resta che ricorrere ai caiachi, ma il mare può facilmente strapparli con le correnti. Un brutto giorno le canoe scappano sotto gli occhi del luogotenente:
Il vento s’era calmato decisamente – annota Nansen nel brillantissimo diario –, girando più a ponente, sicché era da dubitare che avremmo potuto utilizzarlo più a lungo. Salimmo sopra un’altura per assicurarcene. A un tratto Johansen esclamò:
«Oh i caiachi, i caiachi che se ne vanno!»
Scendemmo a precipizio: la barbetta s’era strappata e i caiachi s’erano già scostati un buon tratto, e s’allontanavano rapidamente.
«Ecco il cronometro!» dissi a Johansen, porgendoglielo. E in tutta fretta mi levai una parte degli abiti per nuotare più facilmente: spogliarmi del tutto non osavo, temendo di gelare. E mi gettai a nuoto. Il vento che soffiava al largo spingeva velocemente le imbarcazioni che leggere e coll’alberatura alta gli offrivano buona presa. Nell’acqua diaccia e cogli abiti indosso che mi toglievano la libertà dei movimenti, facevo ben poca strada. I caiachi s’allontanavano sempre più e mi pareva quasi impossibile poterli raggiungere. E con essi s’allontanava ogni speranza di salvezza: tutto ciò che possedevamo era lì sopra; non ci restava neanche un coltello!
Non è l’unico episodio rocambolesco del lungo ritorno, ma i due avventurieri non mollano. Provano a uccidere una foca, imparano a cacciare gli orsi sulla terraferma e i trichechi in mare aperto; sfruttando le correnti di fine estate raggiungono un’isola sconosciuta, poi un’altra e un’altra isola ancora; poi più nulla... Sta per iniziare l’interminabile notte artica e devono prepararsi a resistere all’inverno del 1896 in una capanna di fortuna ingozzandosi di carne: «La nostra cucina era quanto mai semplice. Alla mattina brodo e orso lessato; alla sera bistecche. Era fenomenale la quantità di cibo che ci mettevamo in corpo, ed è strano che non ci venisse a noia, e che anzi avessimo sempre un appetito vorace».
Per festeggiare il Natale si lavano come possono, rivoltano la camicia e Nansen si cambia le mutande. In compagnia delle volpi artiche festeggiano con biscotti e cioccolata. Il 29 febbraio ricompare il sole e il 19 maggio possono finalmente riprendere il viaggio. I vestiti sono così logori che devono tagliare le coperte per coprirsi di lana. I cani sono tutti morti e per andare avanti provano a issare delle piccole vele sui caiachi. Scendono sempre più a sud senza trovare anima viva, salvo una provvidenziale famiglia di trichechi, finché Nansen sente un latrato di cane, poi una voce umana. Un miraggio? No, è la voce di Jackson, un esploratore inglese che gli porge la mano scambiandolo per un vagabondo.
«Sono contento di vederla.»
«Anch’io, grazie», risponde Nansen.
Jackson fissa il norvegese sporco e inzaccherato, esita e sbotta esterrefatto:
«Lei è forse Nansen?»
«Sì, sono io.»
«Per Giove come sono felice di vederla!»
L’avventura è finita. Jackson riconosce i due vagabondi dei ghiacci e la nave britannica li ospita generosamente a bordo, dove trovano cibo, liquori, abiti puliti e un bagno caldo. Affrontando sguardi strabiliati raccontano tre anni di odissea artica, un viaggio ai confini della ragione. Gli inglesi faticano a credere ai ritornati che hanno di fronte: sono uomini o extraterrestri? Poi la nave si mette in mare e il 13 agosto Nansen sbarca nel porto norvegese di Vardø; sette giorni dopo approda in patria anche il Fram. La gente festeggia il suo eroe. A trentacinque anni Nansen è il norvegese più famoso e autorevole, l’uomo che ha sfiorato il nord del mondo. Anche se non ha toccato il polo.
Ormai è uno scrittore di successo. Tornando a casa scopre che il suo På ski over Grønland, il libro che narra la traversata della Groenlandia del 1888-89 con gli sci, è stato tradotto in inglese, tedesco e francese e sta diventando un best seller. Attraverso il racconto di Nansen lo sci si sta propagando in mezza Europa come un virus, intrecciando il fascino futuristico dell’azione con una moderna percezione della natura. Lo sci contiene il piacere del gesto e la temerarietà dell’impresa; sposa sport e geografia, tecnica e avventura. Le avventure polari hanno introdotto dei segni d’avanguardia negli avamposti più primordiali, tra gelide pianure di neve e ghiaccio, in luoghi favolosi e reali al tempo stesso, in cui l’uomo di fine secolo avvicina le mete estreme dell’esplorazione e della scienza. Nansen ha rivelato i segreti della cappa gelata groenlandese: l’inlandsis. Ha interpretato i movimenti dei ghiacci, la formazione dei crepacci, il crollo dei seracchi e la navigazione degli iceberg. Ha fatto innamorare i lettori. Ha aperto le porte di un nuovo mondo.
Un altro uomo
Trent’anni dopo non è più lui. L’elegante esploratore norvegese ha cambiato vita. Da uomo di avventura si è trasformato in personaggio politico, lottando contro i genocidi e i totalitarismi. Nonostante la fama, gli onori, i titoli accademici e l’amore per la scienza, quando la Grande Guerra ha sconvolto il mondo Nansen non si è voltato dall’altra parte: «Se veramente accettiamo di assistere inerti – ha detto sdegnato – rimarremo dinanzi alla storia, ai nostri figli e ai figli dei nostri figli, come una generazione che gli Dei vollero colpita da cecità e follia, i cui cuori sono tramutati in pietra».
Nel 1922 ha ricevuto il premio Nobel per la pace in virtù dell’incessante attività di Alto Commissario per i rifugiati, dopo che la Lega delle Nazioni gli ha affidato il compito di organizzare il rimpatrio dei prigionieri dai campi di concentramento russi. Prima ha visitato personalmente i campi, poi ha messo in piedi una rete internazionale di emergenza, il «Soccorso Nansen», rimpatriando circa 450.000 prigionieri di guerra tra il 1920 e il 1921. Ma l’opera non era compiuta, perché accanto ai prigionieri c’erano milioni di profughi della guerra mondiale, delle guerre balcaniche, greco-turche, della controrivoluzione russa, delle guerre civili, della guerra russo-polacca, dei distretti ungheresi di Russia e Armenia. Un universo di disperati in fuga impediva a Nansen di dormire in pace, perché i fronti nazionali avanzavano o arretravano impunemente e i civili cacciati dalle guerre diventavano profughi. Senza documenti non esistevano.
Lui inventa un lasciapassare per gli apolidi, il «passaporto Nansen», che riconosciuto da cinquantadue governi può dare lavoro, casa e protezione a milioni di profughi. Eppure le scene d’orrore lo perseguitano: «griderò sempre ai popoli d’Europa, affinché si sveglino e comprendano quale cosa inaudita stia accadendo sotto i loro occhi». Lo angoscia soprattutto la tragedia dei profughi armeni, che è diventata l’ultima missione della sua vita. Nella prefazione al libro dedicato all’Armenia, il «vicino Est», Nansen scrive: «Spero che i fatti esposti in queste pagine avranno il potere di scuotere la coscienza europea. L’atteggiamento degli stati, la loro noncuranza di fronte al popolo armeno, indignano non meno dei sanguinosi macelli compiuti dai Turchi». E ancora:
Si dice che il dolore nobiliti. Ma esiste forse sulla terra qualcuno che abbia sofferto quanto questo popolo? E a che scopo? Per essere infine tradito da coloro che avevano fatto loro sacre e solenni promesse nell’alto nome della giustizia? Statisti, evitate almeno le parole solenni e non togliete alle persone l’ultima fede in ciò che nella storia dei popoli è sacro, nonostante tutto!
Nel 1928 Fridtjof Nansen riesce a rimpatriare 70.000 esuli. Muore quasi in pace due anni dopo, alla vigilia dei settant’anni.
Intanto è continuata l’avventura artica. Nel 1909 l’americano Robert Edwin Peary ha dichiarato di avere raggiunto il Polo Nord con una spedizione di slitte, ma dopo un secolo gli esperti dimostreranno che Peary si era soltanto avvicinato al punto magico, fermandosi a poche decine di miglia dalla meta. Nel 1926 Umberto Nobile, Roald Amundsen e Lincoln Ellsworth, a bordo del dirigibile Norge, sorvolano per la prima volta il Polo Nord. Nel 1928 Nobile vola per la seconda volta con il dirigibile Italia, ma nel viaggio di ritorno precipita sulla banchisa. Nansen se ne va nel 1930, passa un lungo decennio, si consuma un’altra guerra e la corsa riprende nel dopoguerra, quando la tecnologia ha ormai cancellato il carattere pionieristico delle esplorazioni. Nel 1948 il sovietico Aleksandr Kuznecov atterra con un aereo sul pack e poi raggiunge il Polo a piedi. Nel 1959 il sommergibile americano Skate emerge alla latitudine del Polo. Nel 1968, l’anno della contestazione giovanile, Ralph Plaisted conquista malinconicamente il Polo in motoslitta. Plaisted non diventa famoso, tuttavia è il primo viaggiatore su superficie cui venga riconosciuta la certezza del risultato.
Al polo opposto
La grande avventura polare si specchia quasi simmetricamente nell’estremo sud del mondo, dove il ghiaccio non galleggia sull’acqua come al nord ma copre per buona parte la terraferma. I primi esploratori del Polo Sud ignorano che l’Antartide sia un continente confinato oltre i 60° di latitudine e presenti una forma vagamente circolare e un’appendice, la Penisola Antartica, rivolta verso l’America meridionale. Il gelido continente è segnato da un’alta catena di monti e da due insenature che ospitano due mari. L’Antartide è più grande dell’Europa e degli Stati Uniti d’America e mostra una straordinaria corazza di ghiaccio, la piattaforma antartica, con uno spessore medio di 1600 metri. Ai margini delle calotte centrali si sviluppano le lingue di ghiaccio alimentate dai fiumi gelati: gli ice streams. Il continente contiene un’immensa riserva d’acqua e custodisce il novanta per cento del ghiaccio e l’ottanta per cento dell’acqua dolce presenti sul pianeta.
Quel mondo di ghiaccio è sconosciuto ai pionieri che solcano a rischio della vita i mari estremi e si ritengono dei miracolati se escono incolumi dagli arcipelaghi minati di iceberg. Il 17 gennaio 1773 James Cook, al comando dei velieri Resolution e Adventure, è il primo europeo a navigare oltre il Circolo Polare Antartico. Costeggiando la banchisa ipotizza l’esistenza del continente bianco, ma lo ritiene inavvicinabile: «È talmente grave il pericolo che si corre nell’individuare una costa in questi mari gelati e sconosciuti, che oso asserire che nessuno potrà mai penetrare più in là di quanto mi venne concesso; le terre che possono trovarsi al sud non saranno mai toccate da piede umano». I limiti, si sa, sono fatti per essere abbattuti e la profezia è miope. Il capitano Cook sottovaluta infinitamente l’ambizione e la temerarietà dell’uomo.
Passa mezzo secolo e comincia l’esplorazione. Come ricostruisce il Museo nazionale dell’Antartide Felice Ippolito, si susseguono le spedizioni destinate a svelare il polo del ghiaccio. Nel 1820 Fabian Gottlieb Thaddeus von Bellingshausen salpa con una missione organizzata dallo zar Alessandro I ed è il primo esploratore a individuare il continente. Nel 1823 il britannico James Weddell porta a termine il rilievo delle Orcadi Australi e raggiunge 74° 15’ di latitudine sud, scoprendo il mare che oggi porta il suo nome. Jules Sebastien Cesar Dumont d’Urville, ufficiale della Marina francese, nel 1837 salpa da Tolone con due corvette; dopo lunga navigazione avvista l’Antartide e scopre un tratto di terraferma che chiama Adelie in onore della moglie. Passano altri due anni e il londinese James Clark Ross fa il colpo grosso. Partito con due navi, Erebus e Terror, naviga per tre anni raccogliendo una quantità di osservazioni geografiche, cartografiche e magnetiche; scopre la Terra Vittoria, il Mare di Ross e il Ross Ice Barrier. Tornato in patria nel 1847 scrive A Voyage of Discovery and Research in the Southern and Antarctic Regions 1839-1843.
Sessant’anni dopo torna in gioco la nave Fram. Ancora lei, la prodigiosa imbarcazione costruita da Nansen per cercare e poi sfuggire la morsa dei ghiacci. Solo che al comando del vascello polare c’è un altro norvegese, Roald Amundsen, il navigatore che nel 1906 ha trovato il famoso passaggio a Nord-Ovest. Amundsen sarebbe designato come l’uomo del Polo Nord, ma il destino lo spinge al polo opposto:
L’idea originaria era di entrare nello stretto di Bering – scrive sul suo diario – con la nave attrezzata per un viaggio di cinque anni, trovare il passaggio più adatto per addentrarci a nord lasciandoci intrappolare fra i ghiacci e andare alla deriva nel bacino polare, proprio come fece Nansen. Nel corso del viaggio avremmo dovuto compiere straordinarie ricerche scientifiche in campo oceanografico, meteorologico, dell’aria e del magnetismo terrestre...
Mentre io e il comitato lavoravamo come disperati, ecco arrivare la notizia che Peary aveva raggiunto il Polo Nord, mettendo così fine a tutti i nostri sforzi. Che cosa andavo ancora a fare lassù nel nord? Il Polo era stato raggiunto e la saga artica era conclusa...
Le casse della spedizione erano vuote, e anche le mie. L’unico bene da cui avrei potuto ricavare qualche corona era la mia casa. Mi sedetti a fare due calcoli e mi resi conto che se l’avessi ipotecata avrei potuto ricavare approvvigionamenti sufficienti per due anni al massimo. E che cosa potevo fare in due anni? Ma rinunciare non potevo. Per me rinunciare al viaggio era come smettere di respirare. Avevo lavorato sodo, non potevo rinunciare senza lottare...
La nobile gara
Roald Engelbregt Gravning Amundsen è nato nel 1872 a Borge, ottanta chilometri a nord di Oslo. Non è un visionario e ritiene che l’avventura sia un difetto di pianificazione. Tuttavia ha lasciato gli studi di medicina per dedicarsi alle esplorazioni. È un ottimo marinaio e un valido sciatore. Nansen è il suo modello.
Robert Falcon Scott è nato nel 1868 a Plymouth, nell’Inghilterra sud-occidentale. La carriera in Marina non lo soddisfa: Scott cerca l’avventura. L’Antartide è la sua ossessione da quando ha attraversato il Circolo Polare Antartico e dalla sommità dell’Isola di Ross ha visto l’immensa distesa bianca e inesplorata. Ha già tentato di raggiungere il Polo Sud nel 1902, con Edward Wilson ed Ernest Shackleton.
La gara tra i due è allo stesso tempo dichiarata e segreta perché, dopo aver scambiato il nord per il sud, Amundsen tiene nascosta la nuova destinazione temendo di spaventare i finanziatori, allertare i media e fare uno sgarbo al Regno Unito scatenando un caso internazionale. Nelle settimane che precedono la partenza Roald adotta il basso profilo: studia la nuova meta, si confida a pochi amici, lavora nell’ombra e tiene all’oscuro perfino i marinai. Il Fram lascia la Norvegia nell’agosto del 1910 con oltre cento cani da slitta, lunghissimi sci da fondo, pellicce, pelli di foca, provviste di cibo e grandi quantità di alcol per disinfettare le ferite e tenere alto il morale dell’equipaggio. Solo ai primi di settembre, salutando l’isola di Madera, Amundsen comunica ai suoi uomini il cambio di piano: «Ragazzi niente Polo Nord, si va in Antartide». Nessuno si tira indietro. A quel punto la notizia è di dominio pubblico. Il dado è tratto, la gara è cominciata.
Dopo molte settimane di navigazione raggiungono la Baia delle Balene al limite del Mare di Ross. Esplorano la barriera, individuano una base e costruiscono un rifugio: il Framheim. Il 3 febbraio 1911 scorgono un’imbarcazione in lontananza: è la Terra Nova di Scott. Una delegazione britannica raggiunge i norvegesi per un pranzo di cortesia, ma l’understatement nasconde la competizione. Scott annota sul diario:
L’unica decisione possibile è continuare nell’attuazione del programma, come se non fosse successo niente di nuovo. È nostro dovere spingerci energicamente avanti e lavorare con tutte le forze per l’onore del Paese, senza lasciarci vincere dallo scoraggiamento. Certo Amundsen è un concorrente temibile e la sua base è cento chilometri più vicina al Polo della nostra...
Intanto i norvegesi, senza perdere tempo, piazzano i depositi di cibo per la marcia prima che scenda la notte antartica. Il 21 aprile il sole tramonta per l’ultima volta sul Framheim e scompare per quattro mesi. Amundsen organizza scientificamente il lavoro che serve a occupare gli uomini ed evitare contrasti e cali di umore. Tuttavia convive con un incubo: con il buio gli inglesi non si possono muovere, ma Scott ha le slitte a motore e può batterli in velocità appena torna la luce. Roald ha fretta e il 24 agosto decide di partire anche se ci sono ancora cinquanta gradi sotto zero e il sole non scalda la gelida alba primaverile. Il tentativo fallisce e il gruppo è costretto a rientrare alla base.
La vera partenza avviene al 19 ottobre 1911: cinque uomini, cinquantadue cani e quattro slitte. Dopo un mese di cammino a tappe forzate, il gruppo affronta la traversata dei monti Transantartici che dividono la superficie del continente. È un terreno alpinistico di estrema complessità, con ghiacciai di difficile lettura, crepacci enormi, ghiaccio friabile, seracchi precari come iceberg e barriere di roccia. La marcia si fa incertissima; quando trovano un buco insuperabile devono tornare indietro e ritentare. Valicato un colle credono di essere in vista dell’altipiano centrale e allora uccidono i cani per sfamarsi, ma presto si pentono della decisione. Il Polo è ancora lontano e con diciotto cani è impossibile trasportare il materiale. Lasciano una parte degli strumenti, una slitta e alcune carcasse di cane per il ritorno, ma il maltempo li blocca e solo nella seconda settimana di dicembre raggiungono il punto estremo della spedizione Shackleton di due anni prima. Adesso sono gli uomini più a sud di sempre. Il 13 dicembre, Santa Lucia, arrivano a 89° 45´ Sud: ventotto chilometri di ghiaccio alla meta. Il pomeriggio seguente sono al Polo.
Non potrei proprio dire di avere avuto l’impressione di essere arrivato alla meta della mia vita – scrive ironicamente Amundsen –, anche se so che la frase farebbe un bell’effetto sul lettore; ma sarebbe un’esagerazione. Siccome voglio essere sincero confesserò che difficilmente qualcuno si trovò mai più agli antipodi della meta della sua vita di quanto mi trovassi io in quel momento. Infatti fin da piccolo ero stato straordinariamente affascinato dal Polo Nord, e ora ero al Polo Sud!
Addio romanticismi: Roald Amundsen è un moderno. Lo storico Roland Huntford osserva che se «Scott era imbottito di ideali eroici, Amundsen voleva semplicemente raggiungere il polo». Scott seguiva la tradizione sacrificale dell’eroe, mentre Amundsen «non vedeva alcun merito nell’esporsi a rischi inutili». Il norvegese era il perfetto erede di Nansen e interpretava la spedizione polare come «un incrocio dell’arte del marinaio e quella dello sciatore». Al contrario Scott, sempre secondo Huntford, «era fedele al precetto che i gentlemen non si allenano, e certo non sapeva sciare. Il suo rivale passò l’inverno antartico a sperimentare e adattare l’attrezzatura, lui organizzò conferenze scientifiche e corsi di fotografia». D’altra parte Amundsen «non era vittima del sinistro potere del passato» e non aveva bisogno di «aderire alla tragedia classica». Lui cercava di assecondare la natura, mentre Scott era costretto a conquistarla.
Purtroppo lo schema tragico non viene meno. A quasi un anno di distanza, nel febbraio 1913, Amundsen viene a sapere della morte di Scott in Antartide. I corpi degli inglesi sono stati ritrovati a novembre in mezzo al ghiaccio e i diari hanno consentito di ricostruire i fatti. Il 17 gennaio 1912 Scott ha raggiunto il Polo Sud, dove ha trovato un pezzo di bandiera nera appeso a un pattino da slitta. Così ha scoperto di essere stato battuto dai norvegesi. Ormai non gli restava che tornare a casa, ma il tempo peggiorava e la situazione precipitava; il viaggio di ritorno della spedizione britannica era un’agonia. Per primo moriva Evans, poi a Oates si congelava un piede; appena si rendeva conto di essere di peso lasciava la tenda sotto una tempesta di neve pronunciando le storiche parole: «Sto uscendo, può darsi che rimanga via un po’ di tempo».
Gli altri tre disperati si rifugiavano in una tenda e si spegnevano di sfinimento e fame a undici miglia dal deposito dei viveri. Il diario di Scott precisava: «Se fossimo sopravvissuti avrei avuto da raccontarvi una storia sull’ardimento, la resistenza e il coraggio. Avrebbe commosso il cuore di ogni britannico». E infine: «Per amor di Dio, abbiate cura delle nostre famiglie».
Così il norvegese Amundsen torna alla passione originaria e il 12 maggio 1926 sorvola finalmente il Polo Nord a bordo del dirigibile Norge. Due anni dopo, decollato su un idrovolante in soccorso di Umberto Nobile e del dirigibile Italia, scompare misteriosamente nel Mare di Barents. In una delle ultime interviste si era abbandonato a una confessione: «Ah sapeste com’è bello il paesaggio lassù! È lì che vorrei morire, vorrei una morte cavalleresca, che mi cogliesse nel corso di una grande impresa, una morte rapida e indolore».