XVII.
La vertigine del ghiaccio

Riavvolgiamo il nastro di un secolo. Nell’agosto del 1820 il russo Hamel, scienziato e consigliere di stato dello zar, affronta il Monte Bianco in compagnia di due ricercatori dell’Università di Oxford e del solito manipolo di guide alpine. Gli studiosi vogliono approfondire gli effetti della rarefazione dell’aria sugli organismi animali e portano sul ghiacciaio dei piccioni viaggiatori con tanto di gabbia, copertina di lana e mangime.

Mentre la squadra attraversa sotto un cielo bigio il Grand Plateau, Hamel pensa agli esperimenti della vetta e i due inglesi si domandano se, in caso di vittoria, sia più opportuno brindare al re d’Inghilterra, allo zar di Russia o al de Saussure. Il capoguida è meno rilassato perché sa che la neve fresca appena caduta nasconde i crepacci e il vento soffia da sud: cattivo segno. In quel momento sale un boato e il pendio sprofonda sotto gli alpinisti. Hamel prova a piantare il bastone ferrato nella neve, è sommerso ma resta a galla. Fa in tempo a vedere la valanga che scaraventa le tre guide di testa nella crepaccia terminale, sigillandola.

Ai piedi del pendio c’era un baratro spalancato – racconta Julien Dévouassoud, uno dei sopravvissuti, nelle tragiche memorie di Stéphen D’Arve – e ci stavo rapidamente scivolando dentro. Rotolando ho visto tre volte la luce, e quando fummo tutti sull’orlo del baratro vidi la gamba di uno dei miei compagni proprio mentre cadeva nel crepaccio. Penso che fosse il povero Auguste, infatti sembrava nera, e ricordo che Auguste indossava delle ghette nere. Questa fu l’ultima cosa che vidi dei miei compagni che caddero a testa in giù nell’abisso e non furono avvistati mai più, né qualcuno seppe mai più niente di loro.

Tre uomini sono morti, anzi sono scomparsi, ma la storia non è finita. Nella primavera del 1861 lo scienziato-alpinista irlandese John Tyndall, fresco autore del libro Glaciers of the Alps, invita al British Museum di Londra la fidata guida Auguste Balmat di Chamonix. Improvvisamente, durante l’incontro, si materializza la figura di un vecchio minaccioso che si presenta come il dottor Hamel e domanda sfrontato: «Allora, Balmat, quand’è che andrete a recuperare i corpi delle mie tre guide?».

Stordito e senza parole, il montanaro risponde: «Confidiamo che prima o poi il ghiacciaio ce li restituisca, monsieur».

Entrambi sanno che il glaciologo britannico James Forbes, certissimo che i ghiacciai restituiscano i corpi delle loro prede, ha fatto i conti e ha concluso che le vittime della valanga dovrebbero tornare alla luce tra i trentotto e i quarant’anni dopo l’incidente. Incredibilmente, il 12 agosto 1861 un uomo arriva a Chamonix con un sacco di reliquie restituite dal ghiacciaio. Il medico legale procede all’esame e verbalizza coscienziosamente: «Più di tre quarti di due teschi con la carne attaccata. Diversi ciuffi di capelli biondi e neri legati alla cute. Una mascella intera che mostra denti bianchi e buoni... il bordo e la cima di un cappello bianco di feltro con una fascia gialla di seta, l’ala di un piccione con piume scure...».

Il settantenne Joseph-Marie Couttet, chiamato di corsa a testimoniare, capisce subito che il teschio con i capelli biondi appartiene a Pierre Balmat, l’altro teschio è del povero Pierre Carrier e il cappello bianco con la fascia di seta è di Auguste Tairraz; infatti è emerso dal ghiaccio con l’ala del piccione che Auguste stava trasportando.

La scienza ai margini

Dalla scomparsa del 1820 al ritrovamento del 1861, la disgrazia del Monte Bianco contiene il periodo esplorativo della storia dell’alpinismo. In circa mezzo secolo si salgono le cime, si esplorano i ghiacciai, si scalano creste e guglie sempre più difficili e lontane. Migliorano le tecniche, arrivano i clienti di città e per le guide alpine l’eccezionale diventa pane quotidiano. L’infatuazione romantica e la passione sportiva travolgono progressivamente la priorità scientifica.

Quando il fisico John Tyndall scala con Bennen e Carrel la spalla sud del Cervino nel 1862, mancando per soli duecento metri la vetta più ambita delle Alpi, è ormai chiaro che la posta in gioco sta nella montagna, a prescindere da come e di che materia è fatta. Per Tyndall non si tratta più di analizzare i raggi luminosi che rendono azzurro il cielo, ma di mettere semplicemente piede sullo sperone di roccia incorniciato di azzurro. Il problema è alpinistico.

La faccenda si chiarisce ulteriormente tre anni più tardi, nel 1865, quando il Cervino diventa oggetto di gara. I due contendenti non hanno il minimo interesse per la scienza; si chiamano Edward Whymper, giovane disegnatore londinese, e Jean-Antoine Carrel, esperto cacciatore di Valtournenche, patriota delle guerre di Indipendenza. Whymper è mosso solo dalla passione, od orgoglio che sia, Carrel vuole il Cervino per la sua valle, anche se ormai la «Becca» è diventata un caso nazionale ed equivale alla rivincita politica del Regno d’Italia sull’azione colonizzatrice britannica. Già molte volte Whymper e Carrel hanno tentato la scalata del Cervino (Matterhorn per gli svizzeri), insieme e separatamente, in un gioco alterno di ammiccamenti, alleanze e diffidenze, anche dopo che Tyndall con lo stesso Carrel è giunto a un tiro di schioppo dalla cima. Il colpo di scena sopraggiunge quando Carrel tradisce l’inglese accordandosi con Felice Giordano e Quintino Sella per salire la montagna dal versante valdostano. Allora Whymper, infuriato, valica il Teodulo per tentare da Zermatt con un nutrito gruppo di guide e alpinisti, e il 14 luglio scala a sorpresa la montagna dalla cresta svizzera, mai tentata in precedenza. L’infelice Carrel, arrampicatosi nello stesso giorno sulla spalla sud, si trova battuto a pochi passi dalla vetta ed è costretto a ripiegare. E il romanzo non è finito, perché durante la discesa dal versante di Zermatt precipitano quattro dei «vincitori» (la guida Michel Croz con i clienti Douglas, Hadow e Hudson) e Whymper, colpevole di essere vivo, è processato per negligenza. Intanto Carrel, ignaro della tragedia, riparte per la vetta e il 17 luglio scala finalmente la sua Becca dalla via italiana.

Gli storici considerano l’ascensione del Cervino una tappa fondamentale dell’evoluzione dell’alpinismo, nonché il momento di svolta dalla fase pionieristica alla fase sportiva, anche se una lettura attenta della storia rivela che in quello stesso 1865 ci fu un’impresa ancora più innovativa dal punto di vista della concezione e della realizzazione. Per ironia della sorte si svolse il 15 luglio, un giorno esatto dopo la scalata del Matterhorn per la via svizzera. Si può dire che l’alpinismo pionieristico deponga tragicamente le armi nella stessa notte in cui clandestinamente si manifesta il nuovo alpinismo, anche se è un parto in tono minore perché la coincidenza beffarda, e il clamore in odor di dramma che si diffonde dalla valle di Zermatt, lo relega sul nascere a un ruolo di secondo piano.

L’impresa ha luogo sull’inospitale e severo versante meridionale del Monte Bianco, diviso in due parti dalla cresta di Peutérey e segnato da lisci pilastri di protogino, scivoli di ghiaccio e seracchi sospesi. A destra della Peutérey e del Grand Pilier d’Angle, il ghiacciaio della Brenva sembra arrampicarsi contro le leggi della gravità sulla parete superiore del Monte Bianco di Courmayeur, rendendo himalayano il versante e risparmiando solo rare sporgenze di pietra. Ancora più a destra, in vista della parete del Mont Maudit (il «monte maledetto» che in passato diede il nome al massiccio), uno sperone di ghiaccio sostenuto da un cordolo di granito delimita la parete e sale verso la cresta terminale, sbarrato all’uscita da una collana di seracchi. Non è una via facile, non è affatto una via «normale», ma è una delle linee più estetiche che conducano sul tetto d’Europa.

La Brenva

Il primo a credere nella possibilità di scalare il Bianco dalla Brenva è la leggendaria guida dell’Oberland Bernese Christian Almer, lo stesso che aveva dichiarato a Whymper «qualunque montagna, signore, ma non il Cervino!». Almer è un provetto e instancabile gradinatore, e come il collega Anderegg preferisce il ghiaccio alla roccia, lo sente più suo, anche se non può contare sull’aiuto dei ramponi che non sono ancora stati inventati e deve accontentarsi di scarponi chiodati, ascia da ghiaccio, equilibrio, istinto e volontà. Ma Almer è indisponibile nel luglio 1865, così la sfida è raccolta dal funzionario del Regno Unito Adolphus Warburton Moore con i britannici George Mathews, Frank e Horace Walker. I quattro cittadini sono condotti dalle guide svizzere Melchior e Jacob Anderegg.

La comitiva Moore parte il 14 luglio da Courmayeur e sale sulla destra del ghiacciaio della Brenva fino al costone roccioso che si insinua sotto la Tour Ronde. Bivaccano a 3200 metri di altezza, ascoltando gli ultimi crolli di ghiaccio in parete, isolati sull’immenso versante. Ripartono prima dell’alba, alle tre meno un quarto, dopo una colazione a base di tè e vino. Negli stessi istanti, ai piedi del Cervino, il povero Whymper cerca inutilmente di prendere sonno nell’albergo Monte Rosa, annichilito dalla tragedia.

Un pendio nevoso, la seraccata inestricabile, giri viziosi tra i ghiacci: alle cinque e trenta il gruppo arriva finalmente alla base dello sperone. Raggiunta la quota 3530 (oggi il Col Moore), prendono quota sulle rocce di sinistra. Tutto precede bene fino all’affilata cresta dove il ghiaccio mostra i denti. «Siamo in troppi», pensa Moore.

Se ci fosse in testa Melchior forse tornerebbero indietro, ma casualmente è Jacob a condurre in quel tratto. Senza pensarci due volte la giovane guida si lancia sulla cresta ghiacciata, prima a cavalcioni e poi in piedi sul filo, intagliando gradini a tutta forza. Alla fine della cresta la comitiva si trova di fronte il grande pendio di neve, e lì ripassa in testa Melchior, la guida per eccellenza, forte del fiuto e di quel senso della montagna che distinguono il montanaro dal semplice scalatore. Lentamente, ostacolati dal ghiaccio che a tratti traspare sotto la neve, si avvicinano al muro bianco azzurro che sbarra la strada. A sinistra non si vede nessuna possibilità di uscita: provano a destra. Melchior supera il labbro di un crepaccio, poi con la corda tira su gli altri per cinque metri quasi verticali, e così sale verso il colle a 4303 metri. Adesso hanno la Brenva in tasca.

Alle quindici e dieci sono in cima. Poco dopo comincia la lunga discesa. Alle undici di notte, dopo una grande giornata, arrivano sani e salvi a Chamonix.

Supremazia delle guide

Non è che l’inizio. La favolosa epoca d’oro dell’alpinismo conta sull’alleanza tra le migliori guide valligiane e i più dotati arrampicatori di città, che fanno incetta dei grandi itinerari di ghiaccio e «misto» (roccia e ghiaccio) delle Alpi, dalle creste ai canali, dagli speroni alle pareti. Con attrezzature rudimentali e assicurazioni precarie vengono salite vie bianche e splendenti, dove la neve e il ghiaccio tappezzano la roccia come una corazza o ricamano le creste di origami, esaltando la maestria delle guide nel gradinare i pendii, equilibrarsi con la piccozza, sondare il vetrato, innalzarsi sugli specchi. Se i clienti professori, studenti e professionisti sono talvolta più bravi a scalare le pareti di calcare e granito, le guide del Monte Bianco, del Monte Rosa, del Vallese e dell’Oberland Bernese sono impareggiabili nell’arte del ghiaccio; intuiscono la presenza dei crepacci, riescono a orientarsi nella nebbia che ricopre il ghiacciaio, scalano i muri gelati e cavalcano senza rischi le creste innevate. Oltre il pascolo, sopra la morena, il ghiaccio e i ghiacciai sono i loro terreni.

Osserva Guido Rey:

In molti punti le guide mi ricordano quegli antichi Indiani nomadi d’America. Come quelli, esse paiono dotate talora di un senso supplementare, in noi da lungo tempo scomparso, di facoltà e di istinti di razze primitive e selvagge: il silenzio del passo, l’agilità del corpo che vince le leggi dell’equilibrio; l’acutezza della vista che scorge ai limiti estremi del vasto orizzonte montagne che a noi sembrano nubi, e le riconosce una per una; la facoltà di orientarsi fra le nebbie nella vasta landa di ghiaccio; l’istinto di ritrovare la via nell’oscurità della notte o nell’imperversare della tormenta.

Per tutto l’Ottocento e i primi anni del Novecento, la buona arrampicata su ghiaccio resta una prerogativa montanara, perché l’intuito, la pazienza e l’esperienza contano più della prestanza atletica. Su una parete gelata è impossibile barare; bisogna saper aspettare, afferrare il momento e poi soffrire. Basti citare il record della guida austriaca Josef Tribusser, che per salire il canale di ghiaccio del Grossglockner taglia duemilacinquecento gradini in sette ore di lavoro.

Dieci punte cambiano la vita

I ramponi arrivano prima della Grande Guerra, provocando divisioni e discussioni tra le guide e gli alpinisti di punta:

Nel 1908 un inglese di nome Oscar Eckenstein creò il rampone a dieci punte – scrive lo specialista Yvon Chouinard –. Come per la piccozza, l’idea non era stata propriamente concepita da mente vittoriana... I ramponi di Eckenstein incontrarono forti ostilità presso gli alpinisti dell’epoca, perché pareva che la trovata fosse poco sportiva nei confronti della montagna... Allora gli alpinisti calzavano scarponi chiodati che aggredivano bene la neve dura, e così potevano sostare per ore in tutta fiducia sulla linea aerea dei gradini, mentre la guida provvedeva a scavarne degli altri. A che cosa potranno mai servire, devono aver pensato, queste punte ancora più lunghe?

Lo stesso Eckenstein, come la maggior parte degli alpinisti inglesi, ammette di aver pregiudizialmente evitato «l’uso di questi oggetti poco qualificabili, una scelta totalmente fondata sull’ignoranza... Comunque alla fine ho imparato...». Gli alpinisti riluttanti non avevano capito che i ramponi non erano solo dei chiodi più sofisticati di quelli precedenti, ma che un giorno avrebbero addirittura permesso di farla finita con il gradinamento dei pendii. Alcune guide se ne accorsero e alla fine i ramponi la spuntarono.

Intanto i migliori alpinisti di città si emancipano dalle guide valligiane. Dopo la guerra il bavarese Willo Welzenbach sale la parete nord-ovest del Gross Wiesbachhorn, il più duro itinerario di ghiaccio delle Alpi orientali. Nel 1930 Willo scala la parete nord del Gross Fiescherhorn in Oberland e affronta la futuristica cascata di seracchi dei Grands Charmoz nelle Aiguilles de Chamonix. Insoddisfatto per l’esito parziale dell’impresa, ritorna nel 1931 con Willy Merkl e raggiunge la cima dopo cinque giorni di tempesta, dimostrando che non ci sono più limiti all’audacia combinata con la tecnica:

Iniziò un’interminabile quarta notte. Verso mezzanotte smise di nevicare e si placò il vento, ma nel contempo la temperatura si abbassò facendoci rabbrividire. Giudicavamo comunque il gelo un presagio di bel tempo e il nostro umore si rasserenò un poco... (All’alba) ci volle un’eternità per sciogliere braccia e gambe, ma la salvezza dipendeva dalla velocità e così cominciammo ad arrampicare. Le condizioni erano le peggiori, ogni appiglio e appoggio doveva essere liberato dalla neve, e la roccia era ricoperta quasi ovunque di ghiaccio. Combattendo duramente salivamo metro dopo metro, piantando continuamente dei chiodi. Le difficoltà ci erano sembrate quasi impossibili sopra il bivacco, ma sapevamo di lottare per la vita e questo ci dava la forza di resistere. Dopo quattro ore sbucammo finalmente sulla cresta.

La parete nord dei Charmoz è una pietra miliare nell’evoluzione della scalata. Una svolta psicologica, prima che tecnica. L’anticipazione dell’alpinismo moderno. È difficile immaginare un ghiacciaio più verticale, tanto che si fatica a credere che i seracchi possano restare attaccati alla roccia. Per i fantastici Charmoz torna alla mente la vecchia equazione romantica tra ghiacciai e cascate, le più possenti manifestazioni della natura alpina, espressioni speculari dell’acqua in forma solida e liquida. Eppure l’estremo è un concetto in perenne movimento. Se la via normale del Monte Bianco salita da Paccard e Balmat nel 1786 può essere valutata come un primo grado superiore, lo sperone della Brenva percorso nel 1865 da Moore e dagli Anderegg raggiunge la soglia del quarto grado e l’itinerario dei Charmoz scala il tetto del sesto grado, oggi si arrampicano stalattiti e strapiombi di ghiaccio equivalenti al decimo o all’undicesimo.

Tre epoche, tre rivoluzioni

La scalata su ghiaccio ha vissuto tre epoche d’oro. La prima corrisponde agli ultimi decenni dell’Ottocento, quando le guide salgono con lunghe piccozze e scarponi chiodati le più belle creste ghiacciate delle Alpi e alcuni ripidi pendii. Il secondo periodo comincia dopo il 1908, con l’invenzione del rampone a dieci punte che successivamente diventano dodici. Negli anni Settanta del Novecento arriva la terza rivoluzione, quando sulle Alpi approda la nuova tecnica di arrampicata sperimentata con successo sui canali gelati delle cime scozzesi e americane, in particolare da Hamish MacInnes e Yvon Chouinard. Con affilati ramponi multipunte sotto gli scarponi e due piccozze dentate nelle mani, gli scalatori del ghiaccio non devono più sottoporsi al lungo ed estenuante lavoro di gradinamento. È una rivoluzione che sovverte i tempi e i tabù del passato, spalancando le frontiere dell’estremo.

Ecco che cosa succedeva nel 1968 sulle Grandes Jorasses:

In due giorni avanziamo solo di duecento metri. Dobbiamo incidere delle tacche nel ghiaccio per i piedi e per le mani; è così duro che rompo due chiodi da ghiaccio «a cavatappi» mentre i tubolari entrano a fatica e non tengono bene. Devo piantarli con grandi colpi di martello, ma si piegano e si strappano con una mano sola... Non era più alpinismo, ma lavoro forzato! Il 23 gennaio lasciamo l’imbuto della goulotte e raggiungiamo il centro del pendio del Linceul, meno ripido. Speriamo di trovare uno strato di neve indurito dal freddo, ma c’è solo neve farinosa e leggera posata sul ghiaccio. Bisogna toglierla per ritrovare il ghiaccio... Ricominciamo a scavare...

L’autore del racconto è René Desmaison, il più famoso alpinista di Francia. Nel gennaio del 1968 ha deciso di appendersi al Linceul, il Lenzuolo, sulla parete nord delle Grandes Jorasses. La scalata è trasmessa in diretta radiofonica. Per più di una settimana Desmaison e Robert Flematti tentano di salire lo scivolo gelato di ottocento metri a sinistra dello sperone Walker, inviando ogni giorno una radiocronaca agli ascoltatori. Sembra che la tecnologia abbia finalmente la meglio sulle ripide pareti ghiacciate, e invece ci vogliono nove giorni perché una delle più forti cordate del mondo veda la cima dello scudo vetrato su cui non batte il sole. Oltre che dalle complicanze mediatiche, la lentezza dei due alpinisti dipende dalla tecnica e dai materiali che hanno fatto grandi progressi in roccia ma sono rimasti quasi bloccati, anch’essi congelati, nell’arrampicata su ghiaccio. Anche se le piccozze si sono fatte più corte, dentate e leggere, oltre i cinquanta gradi di pendenza serve ancora scavare centinaia di scalini per salire: tacche per le mani e gradini per i piedi. «Una scala per galline», la definiscono i maligni. «Lavoro forzato», commenta Desmaison.

Sei inverni dopo è cambiato tutto. Le guide Walter Cecchinel e Claude Jager scalano in tre giorni il couloir nord-est dell’Aiguille du Dru sul Monte Bianco, uno spaventoso budello di ghiaccio che si insinua tra il Grand e il Petit Dru facendo impallidire la fama del Linceul. L’ultimo giorno del 1973 Cecchinel e Jager affrontano una cascata gelata con pendenze vicine alla verticale:

Walter non vuole barare – scrive Jager –, non è certo il caso per 15 metri a ottanta gradi di fare la scala per galline... Due chiodi e il mio compagno sparisce al di là della cascata; un terzo chiodo e poi ecco la sosta dopo 35 metri, proprio a picco sopra la mia testa. Caccio in fretta il materiale da bivacco nello zaino e salgo il più veloce possibile per scoprire che cosa ci aspetta su. Ancora ghiaccio, sempre ghiaccio, ripidissimo, a lambire il cielo, dove un essere vivente fa la sua apparizione. «Ma da dove vengono quelli?» sembra dire il corvaccio che volteggia sulle nostre teste. Se ne va, vira e plana dolcemente, poi torna per capire meglio da quale orrida gola stiamo uscendo noi due...

Un po’ frastornati, calpestiamo la neve della breccia dei Drus illuminata dal sole.

È tutto un altro arrampicare da quando la tecnica dei ramponi a punte avanti è entrata nel bagaglio degli alpinisti. L’innovazione decisiva deriva dal modo di impugnare la piccozza e dalla curvatura speciale degli attrezzi. All’École Nationale de Ski et Alpinisme di Chamonix la nuova tecnica è stata definita piolet-traction, ed è una progressione che Walter Cecchinel insegna dal 1970 alle aspiranti guide del Monte Bianco.

La novità – spiega ancora Jager – consiste nell’impugnare la piccozza non più secondo il sistema di ancoraggio classico, il vecchio metodo francese, né in appoggio, l’attuale tecnica austro-tedesca, ma afferrando con la mano la parte bassa del manico. L’altra mano esercita anch’essa una trazione servendosi di un martello da ghiaccio a becco ricurvo, o di una seconda piccozza con le medesime caratteristiche. Così si procede con il massimo di sicurezza anche sui pendii più ripidi e persino al limite della verticale.

La tecnica frontale alza di colpo le prestazioni abbattendo i tempi di scalata. È un po’ come reinventare l’arrampicata su ghiaccio, scoprendo linee di salita che prima degli anni Settanta sembravano inimmaginabili: colatoi verticali, seracchi, cascate congelate. Si scala sull’acqua e sull’effimero. Dopo la storica salita di Cecchinel e Jager ai Drus, sono ancora i francesi a raccogliere e applicare sistematicamente sulle Alpi la magia del piolet-traction. Jean-Marc Boivin e Patrick Gabarrou s’impongono come gli interpreti più brillanti e fantasiosi, frantumando i tabù della scalata. Salendo il Supercouloir del Mont Blanc du Tacul, un budello dove qualche volta un serpente di ghiaccio aderisce misteriosamente alla roccia, nel 1975 dimostrano che si può sperimentare un nuovo alpinismo. Per esempio, si può scalare in meno di tre ore (Boivin, 1977) il famoso Linceul di Desmaison e Flematti senza neanche sentirsi superiori: semplicemente più veloci. Ogni sogno è possibile con il gelo, basta aspettare che il ghiaccio offra la possibilità di piantarci gli attrezzi.

In Italia, a pochi anni di distanza, entra in scena un’altra coppia di giovani che vuole misurarsi con la sfida delle cascate gelate, dei seracchi sospesi e dei couloir fantasma che appaiono e scompaiono come in un incantesimo: è la cordata di Gian Carlo Grassi e Gianni Comino, classe 1946 il primo, 1952 il secondo. I due piemontesi formano un’alleanza geniale ed eterogenea. Nel 1978 lasciano la prima firma d’avanguardia sull’Ypercouloir delle Grandes Jorasses, in pieno sud, dove superano tratti di cascata verticale correndo di notte per precedere il sole. Nel 1979 affrontano due seraccate da cui gli alpinisti di ogni tempo si erano sempre tenuti a debita distanza: il seracco aggettante del Col Maudit e il seracco di sinistra della Poire, la Pera, sull’himalayana parete della Brenva.

Il 28 febbraio 1980 Comino riparte per un progetto ancora più azzardato e visionario: il colatoio chiuso tra gli speroni della Major e della Poire, sempre sulla Brenva del Monte Bianco. È quasi una roulette russa tra le barriere in bilico dei seracchi che possono precipitare con schianto improvviso anche nel rigore dell’inverno. Ormai vicino all’uscita dal gelido imbuto, proprio dove la cupola del Bianco scintilla e luccica come una chimera, il solitario alpinista che voleva diventare medico è colpito da una scarica di ghiaccio e precipita. Con lui perdiamo uno dei più sublimi ghiacciatori di sempre.