IV.
Ghiaccio vivo:
la Piccola Età Glaciale

«Con l’inverno della fede è giunto anche il freddo della Natura. Soffia un gelido vento del Nord, che non si era mai sentito prima d’ora... I vecchi lo chiamarono ‘la Bisa’, ed è forse per causa sua che tutt’a un tratto i ghiacciai si misero a crescere. Le valli un tempo ricche di pascoli furono sepolte dalle sabbie e dai ghiacci.» La citazione tratta dalla Cronaca di Staldenried di Josef Absgotton è piuttosto esplicita. La Chiesa cattolica non esita a paragonare gli effetti devastanti della Piccola Età Glaciale con l’«inverno della fede» provocato dalla Riforma protestante. Che si tratti di montanari o di riformatori, peccatori anch’essi, naturalmente, il ghiaccio vivo e pronto a colpire è un monito apocalittico secondo la severa dottrina, che come si è visto non prevede né bellezza né pietà in un mondo congelato dalla volontà di Dio. Per fortuna la letteratura e la pittura provvedono a controbilanciare la visione dei vescovi e dei teologi della Controriforma.

Sono fantastici, non c’è che dire. La curiosità degli scrittori trova irresistibile l’immagine del serpente congelato che striscia verso il mondo degli uomini. Ingrid Trojer osserva che «il ghiacciaio è visto come una bestia accovacciata sul piedistallo di roccia che da un momento all’altro può decidere di scendere». Charles-Ferdinand Ramuz immagina la belva «se mettre en mouvement pour de bon et sauter dessous par derrière», Guido Rey pensa a una piovra tentacolare che divora la roccia, Émile Javelle descrive un rettile di dimensioni mostruose, per Rodolphe Töppfer il ghiacciaio si torce come un drago e Jean Giono lo paragona a un senatore romano avvolto nella toga. Anche gli artisti del pennello immortalano i torrenti di ghiaccio che colano nelle valli alpine, soprattutto sul versante settentrionale del Monte Bianco e nei fiordi gelati dell’Oberland Bernese.

L’optimum climatico medievale è un lontano ricordo. Una leggenda. I pittori fiamminghi dipingono nordiche pianure ricamate dal gelo, canali e lagune congelate, villaggi sepolti dalla neve e grandi fiumi ghiacciati. Tra il 1408 e il 1814 si registrano ventidue episodi di congelamento del Tamigi e sembra che il gelo sia in grado di paralizzare anche i commerci e le vie di transito. Se l’Europa meridionale beneficia del potere mitigatore del Mediterraneo, altrove comanda il freddo. Gli scrittori e gli artisti descrivono un continente segnato da pesanti inverni e fuggevoli primavere, dove la paura uccide ogni sprazzo di poesia. Evidentemente le invenzioni letterarie e i dipinti romantici si riferiscono alle ultime manifestazioni della Piccola Età Glaciale, quando il peggio sembra ormai passato, ma per quasi tre secoli il ghiaccio è stato una presenza ingombrante e minacciosa dalle Alpi all’Europa settentrionale. Per decenni i ghiacciai sono cresciuti senza sosta e da duecentocinquant’anni colmano le testate delle valli e insidiano i campi e i villaggi.

Gelide alluvioni

Dopo un periodo di temperature relativamente miti e calamità sotto controllo, superati alcuni avvisi di gelo e alcuni ritorni di tepore, verso la fine del Cinquecento il clima continentale si è raffreddato definitivamente e i ghiacciai hanno mostrato le cattive intenzioni.

Sulle Alpi il primo allarme è del 1588, quando il ghiacciaio di Grindelwald sfonda la morena terminale. Dodici anni dopo il giornale dell’Oberland riferisce che «nell’anno 1600 il ghiacciaio superiore è avanzato fin quasi al ponte inferiore di Bärgel, sul torrente, ed è stato necessario evacuare due case e cinque fienili. Il ghiacciaio inferiore si è spinto fino a Burgbül e il Lischna (il fiume Lütschine) ha abbandonato il letto gonfio di ghiaccio. La popolazione ha tentato di lottare, ma non è servito a niente». I ghiacciai ostruiscono le vie di fuga delle acque di fusione, che gonfiano formando sacche e invasi precari. E quando la diga cede ecco l’alluvione. Nel 1589 il ghiacciaio di Allalin è già sceso così in basso da bloccare la valle di Saas, nel Vallese, formando il Mattmarksee; l’8 settembre lo sbarramento cede e le acque del lago effimero tracimano distruggendo i terreni e le opere a valle; il letto del Saas-Visp è talmente devastato che gli abitanti del luogo sono costretti a scavarne uno nuovo. Il 25 giugno 1595 il ghiacciaio del Giétro nelle Alpi Pennine crolla nel talweg della Dranse. La piena sommerge parzialmente la città di Martigny e provoca settanta morti secondo il resoconto di un testimone. Una frazione è completamente spazzata dal diluvio di ghiaccio, acqua di scolo e detriti, lasciando una desolata gletschera.

A partire dagli anni 1594-98 – confermano le ricerche di Emmanuel Le Roy Ladurie – «si registrano sul versante meridionale delle Alpi allarmanti novità. Il ghiacciaio del Rutor nel bacino della valle di La Thuile raggiunge un punto molto avanzato e in questo stato di eccezionale sviluppo sbarra il lago omonimo, dove si accumulano enormi masse d’acqua. D’estate nello sbarramento si apre un canale sottoglaciale attraverso il quale si riversano inondazioni devastanti, con movimenti di tre-quattro milioni di metri cubi d’acqua a scapito delle valli». Fenomeni simili avvengono sul ghiacciaio di Vernagtferner, nella regione austriaca dell’Ötztal, che colpisce quattro volte tra il 1600 e il 1848. Anche il dolce Märjelensee ai margini dell’Aletschgletscher, che oggi è uno specchio celeste disegnato per le foto ricordo degli escursionisti, per decenni diventa l’incubo degli abitanti della media valle del Rodano. Nel 1889 il principe Roland Bonapart redige una drammatica memoria: «Da tre parti il lago è circondato da pendii rocciosi, mentre il quarto lato è formato dal fianco stesso del ghiacciaio... Lo svuotamento ha luogo alternativamente attraverso due valli, quella di Aletsch a ovest e quella di Fiesch a est». Il lago raccoglie una dozzina di milioni di metri cubi d’acqua e in un secolo si contano trentotto tracimazioni. Nasce un’altra leggenda:

In tempi lontanissimi un selvaggio cacciatore volle raccogliere cristalli nella zona del Märjelensee. Ne trovò una gran quantità sulle rocce dell’Eggishorn e se ne riempì le tasche. Preso da un attacco di collera ne distrusse molti altri lungo il sentiero, così che il suo cammino era segnato da massi spezzati. Verso sera ritornò al Märjelensee, dove aveva lasciato il fucile e la bisaccia con le provviste. Si mise a mangiare di buon appetito, ma appena toccò il pane questo si trasformò in pietra. Anche la carne subì lo stesso incantesimo. Con una cruda bestemmia lasciò cadere il pane e la carne, che subito ripresero l’aspetto normale. Pieno di collera li gettò lontano e cercò un ricovero per la notte.

Di buon mattino ripartì per la caccia. Trovò un camoscio e lo uccise. Aveva appena cominciato a svuotarne le viscere quando vide una madre che sostava vicino al suo camoscietto. La furia distruttrice s’impadronì nuovamente di lui, che ammazzò la madre e anche il piccolo. Nel frattempo il cielo si era coperto di nubi nere. Scoppiò un violento temporale, la pioggia spazzò la montagna. Con il camoscio in spalla il cacciatore si mise rapidamente in marcia verso il lago dove lo aspettava un vecchio ometto con la barba color della pietra; quando lo vide gli fece cenno di salire sulla sua barca. Era proprio quello che il cacciatore si aspettava e sperava, ma l’ometto non si diresse verso la riva opposta del ghiacciaio, puntando invece al centro del mare gelato. Il cacciatore avrebbe voluto avvertirlo, ma pioveva così forte che non riusciva a udire la propria voce. Arrivati in mezzo al ghiacciaio il barcaiolo ripose i remi, si alzò in piedi, cominciò a crescere e diventò un gigante. Con sguardo pieno di tristezza guardò il cacciatore e disse con voce tonante, più forte della tempesta: «Perché mai distruggi il mio regno? Che cosa ti ho fatto, uomo? Puoi avere tutto ciò di cui hai bisogno, perché distruggi le mie rocce?».

Il ghiaccio si spalancò e la barca sprofondò mentre nella valle le campane suonavano a morte: il Märjelensee era tracimato. Le praterie, i pascoli e i campi furono allagati e coperti per sempre di fango. Del cacciatore non si seppe mai più nulla.

I draghi bianchi

L’altro grande serbatoio di ghiaccio delle Alpi è il massiccio del Monte Bianco, che all’epoca appartiene al Ducato di Savoia. I montanari credono che sia abitato dai diavoli e dai draghi e per un certo tempo lo chiamano Mont Maudit, il monte maledetto.

A Chamonix i ghiacciai cominciano a far danno tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, come attesta l’annotazione della Camera dei conti della Savoia rintracciata da Le Roy Ladurie: «Dall’epoca della riforma della Taglia [1600], i ghiacciai dell’Arve e altri torrenti hanno devastato centocinquantanove giornate di terra in diverse parti della parrocchia. In particolare novanta giornate e dodici case sono andate distrutte nel villaggio di Chastelard; il villaggio di Les Bois è rimasto disabitato; a La Rozière e Argentière sette case sono state sepolte dai suddetti ghiacciai, la cui distruzione continua e aumenta di giorno in giorno... due altre case sono rovinate nel villaggio di La Bonneville... a causa di questi disastri la decima è stata molto scarsa». La valle di Chamonix riceve nel Seicento ben sette visite pastorali. L’improvvisa avanzata dei ghiacciai è sentita come un castigo divino. Il 29 maggio 1644 gli amministratori locali pregano monsignor Jean-Charles de Sales, coadiutore del vescovo di Annecy, di esorcizzare il Glacier des Bois perché minaccia di sbarrare il corso dell’Arve. All’inizio di giugno lo stesso de Sales capeggia una processione di trecento fedeli per benedire «il grande e spaventevole ghiacciaio spinto giù dall’alto dei monti», riporta Paul Guichonnet; poi il prelato ripete la cerimonia dinanzi ai ghiacciai del Tour, d’Argentière e dei Bossons. L’esorcismo si replica nell’ottobre 1664 e nell’agosto 1669.

Cambia il secolo e i disastri continuano. Nel 1717, sull’altro versante del Monte Bianco, le cronache registrano la tragedia di Pré-de-Bar in Val Ferret. Il 12 settembre il villaggio di povere baite è spazzato dal crollo di un pilastro di granito che causa un cedimento del ghiacciaio del Triolet, così improvviso, a quanto dicono i testimoni, che neanche gli uccelli riescono a scappare e muoiono intrappolati nei loro nidi. Analoga sorte toccherà al villaggio di Saint-Jean-de-Pertuis in Val Vény, inghiottito dal ghiacciaio della Brenva in una fase di rovinosa espansione. La Brenva continuerà ad avanzare fino al 1818, e poi ancora dopo il 1842, progredendo fino a ventidue metri nei mesi estivi. Nel 1846 James David Forbes osserva che la fronte si è spinta molto avanti invadendo la bassa valle, e la situazione dura almeno fino al 1850, come attestato dalle impressionanti litografie dell’epoca. Federico Sacco riferisce che l’eremita di Notre-Dame-de-Guérison, il santuario che guarda il ghiacciaio dall’imbocco della Val Vény, doveva mettere i piedi sul ghiaccio se voleva raggiungere l’acqua della sorgente.

Secondo la leggenda della Valdigne gli abitanti di Saint-Jean-de-Pertuis raccolsero il fieno durante la festa di Santa Margherita, il 15 luglio, disonorando così la patrona del villaggio. Furono puniti e le case vennero sepolte dal ghiaccio. Un pellegrino salito a Notre-Dame vide una processione di persone tristi che vagavano intonando i vespri.

Con il passare del tempo diminuisce il peso delle credenze popolari e cresce il numero delle cronache e dei documenti attendibili. Numerosi cronisti della Piccola Età Glaciale registrano i danni alle coltivazioni, i raccolti persi, le vendemmie incompiute e le carestie causate dalla neve, dal gelo o dalla siccità, con nevicate tardive ed estati brevi. Si racconta anche di preghiere e processioni che si snodano tra i villaggi nella speranza di ingraziarsi i raccolti e salvare i pascoli dall’avanzata dei ghiacciai, come fecero ripetutamente gli abitanti della valle del Rodano sentendosi minacciati dalla fronte dell’Aletschgletscher.

La guida di Chamonix Joseph-Marie Couttet osserva profeticamente nel 1825:

Quest’anno fortunatamente i ghiacciai non hanno raggiunto i nostri pascoli. Temevamo che avrebbero distrutto le case come accadde cento anni fa... I ghiacciai avanzano e si ritirano senza che si riesca a capire il perché. Forse fra duecento anni saranno completamente spariti dalle nostre montagne: chissà.

Della paura del ghiaccio ci parla il famoso Wilderwurm Gletscher di H.G. Willink, che alla fine dell’Ottocento disegna un enorme drago-ghiacciaio che si mangia ogni cosa sputando saliva di neve. Il mostro avanza sinuoso come un coccodrillo, spianando la valle al proprio passaggio. La bestia divora quello che trova, si fa strada e scava, distrugge le rocce e restituisce l’acqua con la bocca, proprio come un fiume di ghiaccio. Non potrebbe esserci rappresentazione più emblematica del drago strisciante di H.G. Willink, ma ormai è una fotografia del passato perché la Piccola Età Glaciale è finita proprio alla metà del secolo e i draghi stanno ritirandosi dalle montagne e dall’immaginario alpino.