V.
Sette giovani
esplorano il ghiacciaio

È il 1789, l’anno della Rivoluzione francese. Durante un viaggio intorno al Monte Rosa, il celebre naturalista ginevrino Horace-Bénédict de Saussure arriva al villaggio di Gressoney-Saint-Jean che trova «bello e ben costruito». Preso alloggio in una locanda, esce sulla piazza del paese, dove incontra il corpulento curato a passeggio sotto il sole. Il sacerdote parla francese, quindi il viaggiatore attacca discorso: «Cercai di portare la conversazione sulla valle inaccessibile. Lui fece finta di non capire. Allora il signor Litzco che mi ospitava cercò di fargli credere che era del ‘nuovo mondo’ che volevo parlare».

È evidente l’allusione alla casa di Dio («Secondo la sua promessa noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, e in questi dimorerà la giustizia»), ma per i Walser il nuovo mondo esisteva anche su questa terra, anche se nessuno l’aveva ancora trovato. Corrispondeva a una valle nascosta dietro le montagne, la valle in cui avevano vissuto gli avi al tempo dell’abbondanza. Nel cuore dei montanari era rimasta la nostalgia per il Paradiso dei padri, quando le stagioni erano miti, i ghiacciai non facevano paura e il cielo era così benigno che gli agnelli bevevano dai ruscelli il latte materno. Le praterie in fiore salivano a sfiorare i tremila metri, al limite della vita, e i petali del miosotide si confondevano con il riflesso celeste della neve.

Le nonne raccontavano la storia della Valle perduta ai bambini walser per farli addormentare, e così i piccoli gressonari di Saint-Jean e della Trinité si erano convinti che se esisteva un Paradiso su questa terra non poteva trovarsi che nella mitica terra dei loro antenati, al di là dei ghiacciai, in un luogo imprecisato oltre la cresta del Monte Rosa. Nel 1778, passando dalle fantasie ai fatti, sette di quei bambini diventati uomini e cacciatori avevano organizzato una spedizione alla scoperta della Hohen-Laub, l’Eden di pascoli, latte e abbondanza tramandato dalla leggenda. Erano state le stesse autorità religiose a spronare i giovani all’impresa, fondendo sentimenti sacri e profani, lo spirito di campanile e la voglia di affacciarsi oltre il confine, la curiosità del nuovo e la nostalgia del tempo andato.

Anche se siamo nel secolo di lumi non è la scienza a dirigere i passi dei primi alpinisti sul Monte Rosa. Anche se manca un decennio alla Rivoluzione non è l’emancipazione sociale a spingere i sette giovani sul ghiacciaio. E probabilmente non basta l’eco della leggenda a muovere la piccola spedizione. C’è un insieme di tutto questo: orgoglio di appartenenza, desiderio di scoperta e richiamo dell’avventura. Si tratta di un viaggio decisamente singolare, che sfugge a ogni definizione. Molto si è scritto sulla prima ascensione del Monte Bianco del 1786, che gli storici considerano l’inizio della storia dell’alpinismo, ma in realtà sono i ragazzi di Gressoney, con otto anni di anticipo, a sfatare il pregiudizio e arrischiarsi per primi su un ghiacciaio di alta montagna superando la soglia dei quattromila metri.

La meta è quasi obbligata, perché la valle di Gressoney è schiacciata dal Monte Rosa e i due Lyskamm sbarrano la testata. C’è solo un passaggio sulla destra, il Colle del Lys, dove il ghiacciaio sale più dolcemente e apre una finestra in direzione del Vallese. Probabilmente qualcuno si è già avventurato con gli occhi tra i seracchi e ha scoperto che non ci sono barriere invalicabili. Quindi si può tentare, ma servono scarpe buone, alpenstock e corde di canapa per i crepacci. E serve coraggio. Molto coraggio. La leggenda attrae e spaventa allo stesso tempo. Ci vuole testa per battere le superstizioni. I sette montanari sono capeggiati dal giovanissimo Jean-Joseph Beck detto «Pecco», garzone di alpeggio, e da Nicolas Finzens (Vincent), che redigerà il resoconto della spedizione. Una sera d’inverno Pecco ha intercettato dei sussurri di cospirazione in una locanda di Alagna, scoprendo che i concorrenti della valle vicina progettavano di esplorare la Valle sconosciuta. Con uno stratagemma ha scoperto che gli alagnesi intendevano tentare dal lato di Gressoney perché sul loro versante non c’era un passaggio praticabile. «La notizia mi fece sobbalzare di gioia. Noialtri di Gressoney faremo questo viaggio prima di voialtri di Alagna! Nella settimana di Pasqua tornerò nella mia valle e racconterò ogni cosa a mio fratello Valentin...»

Detto fatto, i fratelli mettono insieme la cordata e arruolano Nicolas Finzens, François Castel, Jean-Étienne Litschge, Jean-Joseph Zumstein e Sébastien Linthy. Vengono tutti da famiglie di contadini, mercanti e artigiani. Si accordano in gran segreto. I preparativi assumono i contorni di un complotto, mezze frasi e azioni mascherate, per evitare che gli alagnesi li battano sul tempo:

Domenica dopo pranzo venite a casa mia – disse il signor Nicolas –. Ma badate di arrivare uno alla volta, distanziati di un’oretta. Ci riuniremo in una stanza separata e lì decideremo il giorno della partenza, il tragitto da seguire e l’equipaggiamento... Dovremo trovare il modo di passare la prima notte nella baita più vicina al ghiacciaio. Penso che il posto adatto sia a Lavetz, dove il signor Linty tiene il bestiame, ma per evitare che sveli il nostro piano bisogna raccomandargli di non parlarne con nessuno.

Bel tempo e tanta paura

A metà agosto 1778 il tempo si mette finalmente al bello. I sette esploratori partono scaglionati, come se andassero a caccia, preceduti da un mulo carico di provviste. Cenano nella baita al margine delle nevi e si coricano speranzosi. Ormai è deciso: ci si muove a mezzanotte. Il primo tratto di strada è conosciuto, ci sono stati tante volte a caccia di camosci e pernici, ma quando finisce la traccia comincia l’avventura: nessuno si è mai spinto in alto sul ghiacciaio, dove bisogna affrontare l’insidia dei crepacci. Nemmeno i camosci.

In un’ora la carovana raggiunge il Colle di Salz, poi, obliquando a destra, affronta il pendio dell’Hohes Lischt. I gressonari seguono il filo della cresta morenica fino alla prima neve, che toccano allo spuntare del giorno: sono appena passate le quattro del mattino. Mangiano qualcosa, battono le mani per riscaldarle, si legano con la corda di canapa e mettono piede sul ghiaccio.

Valentin Beck, che è il più «anziano» della comitiva, sale in testa alla cordata; secondo è Jean-Joseph Beck, terzo Sébastien Linthy, quarto Jean-Étienne Litschge, quinto Jean-Joseph Zumstein, sesto Nicolas Finzens e ultimo François Castel. Distanziati circa tre metri l’uno dall’altro, si aiutano con il bastone ferrato; ai piedi portano le grappette dei cacciatori «ed è inteso che qualora il capo-cordata avesse a fermarsi tutti dovranno arrestarsi, mantenendo sempre la corda ben tesa tra l’uno e l’altro».

Presto cominciano a sentire la quota:

A misura che si avanzava – scrive il Vincent – l’aria si faceva sempre più rarefatta e questo oltre a darci dei dolori di testa ci rendeva il respiro affannoso e difficile per cui dovevamo fare frequenti fermate per ingerire degli alimenti atti a tonificare il nostro organismo debilitato. Ma lo stomaco rifiutava qualsiasi cibo e solo il pane e le cipolle erano in grado di darci forza. Ci sentivamo tristi e scoraggiati e malgrado il tempo radioso potemmo arrivare in cima al ghiacciaio solo con grandi fatiche. Era già prossimo il mezzogiorno e ci restava ancora un ultimo pendio da scalare per poter gettare il nostro sguardo sul lato del Vallese.

Affacciandosi sullo spartiacque raggiungono una roccia che battezzano Entdeckungsfels, la Roccia della Scoperta. Si trovano non lontano dal Colle del Lys, ben oltre i quattromila metri di quota, sul confine con la Svizzera e ai piedi della cresta orientale del Lyskamm. Dal promontorio roccioso i giovani non vedono i mitici prati in fiore dei loro avi ma le infinite distese del Gornergletscher, il fiume di ghiaccio che precipita su Zermatt.

Ci fermammo più di un’ora su questa roccia. Sentivamo tutti il bisogno di ristorare le forze, ma nessuno aveva appetito e provavamo soltanto una gran sete. Eravamo sicuri di aver scoperto una valle nascosta di cui da un pezzo si sospettava l’esistenza, ma che non era mai stata visitata. Eravamo molto tentati di continuare la nostra esplorazione per poter riferire della valle ai compaesani, ma il tempo passava veloce e l’orologio marcava già le due del pomeriggio per cui decidemmo di ripartire per non essere sorpresi dalla notte sul ghiacciaio... Dunque ci siamo rimessi in marcia senza perdere tempo e siamo giunti a Lavetz schiantati dalla fatica. Erano circa le dieci di sera, ventidue ore dopo la nostra partenza. Vi abbiamo trascorso il resto della notte e l’indomani ciascuno è ritornato alla propria casa. E per questa volta, amen!

Fallimento apparente

L’insuccesso della spedizione è solo apparente, e tutto riferito al luogo e alle circostanze. Infatti la fine del mito corrisponde alla nascita della storia dell’alpinismo, che se fosse stata più pubblicizzata avrebbe generato prestigio e fama alla valle del Lys e a tutte le valli del Monte Rosa meridionale, esattamente come accadrà di lì a pochi anni per Chamonix e il Monte Bianco. Probabilmente gli intraprendenti giovani di Gressoney non ebbero mai piena coscienza di quanto avevano fatto, anche perché non erano partiti con la febbre dei conquistatori. Non pensavano di aggiudicarsi un primato e non potevano prevedere che il loro itinerario sarebbe diventato una delle ascensioni più frequentate e amate delle Alpi, con processioni di alpinisti che oggi ogni giorno d’estate lasciano la capanna Gnifetti o il rifugio Città di Mantova per incamminarsi sulla pista del Colle del Lys, della Punta Gnifetti e della capanna Margherita, a loro volta ignari che a pochi passi dal colle si trovi la roccia sulla quale è nato l’alpinismo.

All’understatement dell’impresa contribuirono l’alone mitico che vi aleggiava e la motivazione etica e religiosa che almeno in apparenza la sorreggeva, secondo i dettami del cattolicesimo walser. Ma sarebbe sbagliato imputare la scarsa comunicazione alla chiusura economica e culturale della Valle del Lys, perché gli abitanti di Gressoney erano tutt’altro che chiusi e sedentari. A breve i discendenti diretti dei salitori della Roccia della Scoperta saranno tra i primi alpinisti delle Alpi italiane, con assidue frequentazioni delle creste e delle cime, e già al tempo dell’ascensione e nei secoli precedenti i Walser di Gressoney si distinguevano come mercanti abituati a valicare stagionalmente le Alpi per vendere le stoffe in terra straniera, anche nelle regioni svizzere di fede protestante. È stata solo una questione di marketing se i primi esploratori dei ghiacciai non sono passati alla storia.

Otto anni dopo

Otto anni dopo, ignorando il Monte Rosa, la cronaca e la storia si concentrano sulla favolosa conquista del Monte Bianco, anche se mischiando le carte esaltano la figura ausiliaria di Balmat a danno del dottor Paccard. Ma veniamo ai fatti. Desideroso di salire la vetta d’Europa con gli strumenti di misurazione, Horace-Bénédict de Saussure promette un premio in denaro al primo uomo che riesca a raggiungere la cima del Bianco. Nella valle di Chamonix la sfida è raccolta dal cacciatore e cristallier Jacques Balmat, che bivaccando involontariamente tra i ghiacci del Grand Plateau ha dimostrato che si può sopravvivere alla notte delle altezze, e da Michel-Gabriel Paccard, uomo assai provvisto di spirito critico e cognizioni scientifiche, laureatosi in Medicina all’Università di Torino. La coppia ha successo l’8 agosto 1786, dopo una lunga prova di coraggio e resistenza in cui Paccard sprona Balmat a continuare fino alla vetta, che raggiungono alle sei di sera incalzati dal buio.

L’ascensione è raccontata in un altro capitolo di questo libro. Qui preme anticipare come qualcuno avesse già scritto la storia prima ancora che l’ascensione avesse corso, programmando un vincitore e un vinto, un primo e un secondo attore, il rude eroe e la sua spalla senza qualità. La figura di Balmat era funzionale al mito del «buon selvaggio» di Rousseau, dunque la leggenda romantica del Monte Bianco si appoggiava su una verità distorta: la credenza che il cacciatore avesse guidato il dottore nella dura prova, imponendo la forza di chi era cresciuto tra i ghiacciai sulla fragilità dell’uomo d’intelletto sprovvisto delle «eterne virtù». L’ingannevole ricostruzione resse grazie alla mistificazione di Marc-Théodore Bourrit e alla celebrazione letteraria di Alexandre Dumas, che intervistando Balmat in tarda età dipinse e falsificò il crepuscolo dell’eroe:

Avvicinandomi all’albergo, vidi sulla panchina di fianco alla porta un vecchio di circa settant’anni, che si alzò e mi venne incontro appena il fattorino gli fece un cenno. Capii che era il mio ospite e andai verso di lui tendendogli la mano. Non mi ero sbagliato: era Jacques Balmat, l’intrepida guida che, in mezzo a mille pericoli, raggiunse per primo la più alta cima del monte Bianco, aprendo la strada a de Saussure. Il coraggio aveva preceduto la scienza.

In realtà era successo esattamente il contrario, come ebbe a riconoscere lo stesso Balmat sul «Journal de Lausanne» del 12 maggio 1787:

Dichiaro che senza il passo regolare tenuto dal dottor Paccard non saremmo mai giunti alla meta; che egli mi ha incoraggiato di continuo; che ha condiviso meco la fatica prendendosi talvolta parte del carico che mi spettava; che, benché desiderassi scendere, come avevo promesso, per soccorrere mia moglie e una figlia che avevo lasciati ammalati, il signor Paccard ha giudicato pretesti le mie istanze... Ha tracciato lui stesso la nuova via, precedendomi lungo il ripido pendio che è alla base del grande Mont-Blanc. Non appena fummo arrivati in cima alla china mi ordinò di cercare un riparo, mentre egli saliva a esaminare certe rocce. Così mi chiamò e io lo seguii...

La riabilitazione del dottor Paccard, dovuta prima di tutto alle ricostruzioni degli alpinisti e degli storici britannici, alla fine gli è valsa un monumento nel centro storico di Chamonix, non lontano dalla classica, ancillare, confortante mano tesa di Balmat che da oltre un secolo indica a monsieur de Saussure la via di salita per il Monte Bianco. Per i turisti sono solo ricordi del passato, ma per la storia europea è l’anticipazione di un nuovo mondo. Lo spirito fiero di Paccard rappresenta la borghesia innovatrice illuminata dalla luce della cultura e dalle ragioni della scienza, che si permette di rischiare, esplorare e addirittura sbagliare senza dover rendere conto né ai nobili né a Dio.

È ancora il mecenate de Saussure, sebbene ridimensionato dal successo del dottor Paccard, a dare conferma dell’urgenza scientifica quando, sorretto da uno spiegamento di guide e portatori, mette finalmente piede sulla calotta del Monte Bianco all’inizio di agosto 1787:

Nel momento in cui raggiunsi il punto più alto della neve, la calpestai più con collera che con un sentimento di piacere. Del resto il mio scopo non era soltanto quello di raggiungere la cima: dovevo soprattutto compiere le osservazioni e gli esperimenti che davano un senso a quel viaggio.